Dialoghi con Leucò
di Pavese Cesare
Dati Einaudi 2006, XVI-226 p., brossura
Il 27 agosto 1950 Cesare Pavese cede infine al “il vizio assurdo” e si toglie la vita, ingerendo una forte dose di sonniferi; affida le ultime, poche righe al frontespizio di una copia dei Dialoghi con Leucò, forse il suo libro più coraggioso, di certo il più lontano dalla tendenza letteraria dell’epoca e – apparentemente – del suo stesso autore. Composto nell’immediato Dopoguerra, in un momento cioè di dominante Neorealismo, Dialoghi con Leucò mette in scena personaggi che di attuale sembrano non avere nulla (appartenendo alla mitologia greco-latina), e costituisce a detta dello stesso Pavese “un lusso che da un pezzo meditavo di prendermi”: di fatto, i ventisei “dialoghetti” (come li chiamava lo scrittore piemontese) non sono immediatamente compresi, e vengono a lungo considerati un vezzo, un capriccio di uno degli autori altrimenti più presenti alla difficile situazione sociale, culturale ed economica dell’Italia di quegli anni.
In realtà, il tema del mito è già presente nelle precedenti opere pavesiane e continuerà ad esserlo in quelle successive; vero è che i Dialoghi proiettano il lettore di allora e di oggi in uno scenario a prima vista decisamente lontano da quello in cui si svolge la quotidiana vicenda di ognuno: non solo i celeberrimi Achille e Patroclo, Edipo e Teseo, Eros e Thanatos, ma anche i meno comunemente conosciuti Issione e Ippoloco, Britomarti e Litierse, Virbio e Ariane sono protagonisti di queste pagine. Pagine che, se lette con la consapevolezza della sorte che il mito ha assegnato ai diversi personaggi (consapevolezza che Internet permette di acquisire facilmente, almeno in forma basilare), hanno il sapore davvero unico dell’inevitabilità, del ‘già stato’, del ‘mai più’: così, se conosce per quali casi Edipo divenne cieco o le circostanze in cui morì la poetessa Saffo, il lettore sentirà distintamente il peso di ogni parola, che gli apparirà sotto la luce arcana, talvolta inquietante, di quella Necessità cui i Greci sapientemente attribuivano una natura divina. Carico degli esiti che si sono già verificati o che sono in procinto di attuarsi, tinto al contempo del sorprendente e dell’inesorabile, ogni dialogo propone una domanda sul fato, sulla morte, sul senso della vita, sul sacro, sull’intensità di cui è intriso il tempo, sull’ineluttabile che talvolta ci stringe alla gola.
Naturalmente più approfondita sarà la conoscenza dei miti con cui ci si accosterà a questa lettura, maggiore sarà il godimento che si trarrà dal cogliere i riferimenti, le sfumature, gli accenni che rilucono fra le righe come sassi dal fondo limpido di un ruscello; tuttavia non ci si deve lasciar ingannare dall’impressione che Dialoghi con Leucò sia un testo per specialisti: si è già accennato al fatto che queste pagine parlano – come si conviene ad ogni opera d’arte – al patire di ogni uomo, nella misura in cui questi sente di incarnare la perplessità di cui è intessuta la sua esistenza, e di cui il mito e la grande tragedia greca furono e sono inimitabili voci. Pavese affronta qui, a diversi livelli di complessità e profondità, i temi che toccano chiunque senta di essere vivo, chiunque almeno una volta sia rimasto intimamente interdetto di fronte alla caducità di tutto, al dubbio audace sul fato, alla forza micidiale delle passioni.
Alcuni dei miti reinterpretati dalla penna di Pavese propongono una rilettura estremamente originale, che immerge divinità ed eroi in un Novecento da cui l’Occidente non è ancora uscito: così Orfeo, tornando dall’Ade, si gira spontaneamente prima di raggiungere la luce del sole, perdendo per sempre Euridice, perché negli inferi cercava “piangendo, non più lei ma me stesso. […] Non si cerca che questo”; e viene smembrato perché per “chi è stato tra i morti… non vale la pena” partecipare ai festini delle baccanti: “né l’ebbrezza né il sangue mi fanno impressione. Ma che cosa sia un uomo è ben difficile dirlo. Neanche tu, Bacca, lo sai. […] Comprendendo ho trovato me stesso. […] Pochi uomini sanno.”. Allo stesso modo Demetra e Dioniso, nauseati dal sangue che gli uomini fanno scorrere nelle orge a loro dedicate, decidono di dare un senso alla morte perché gli umani non debbano esorcizzarla sbranandosi fra loro: li istruiranno con il racconto di uno di loro, che dirà di aver vinto la morte e che mostrerà loro l’Eterno del grano e della vite, del pane e del vino… finché, prevede Dioniso, gli uomini vedranno nel pane e nel vino nuovamente carne e sangue, e “carne e sangue gronderanno, non più per placare la morte, ma per raggiungere l’eterno che li aspetta.”.
Le parole con cui termina l’Avvertenza, di pugno dell’autore, se lette con attenzione possono guidare la lettura e svelarne aspetti altrimenti invisibili: “Siamo convinti che una grande rivelazione può uscire soltanto dalla testarda insistenza su una stessa difficoltà. […] Sappiamo che il più sicuro – e più rapido – modo di stupirci è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto. Un bel momento quest’oggetto ci sembrerà – miracoloso – di non averlo visto mai.”. Il penultimo dialogo, fra Esiodo e la Musa Mnemòsine, ci parla proprio di questi attimi in cui il mistero dell’esistenza si svela, in cui “il tempo si ferma, e la cosa banale te la senti nel cuore come se il prima e il dopo non esistessero più”: in virtù di tali istanti, dice la Musa che “tutto porta negli occhi”, Esiodo sa “cos’è la vita immortale […]. Tu sai che le cose immortali le avete a due passi.”. Esiodo: “Non è difficile saperlo. Toccarle, è difficile.”. Mnemòsine: “Bisogna vivere per loro, Esiodo. Questo vuol dire, il cuore puro. […] Giorno e notte, [voi uomini] non avete un istante che non sgorghi dal silenzio delle origini.”.