Il deserto dei tartari
Dino Buzzati,
Mondadori Editore
Ci sono classici meno considerati o conosciuti di altri, spesso a torto: Il deserto dei Tartari è uno di questi, forse perché Buzzati, morto nel 1972 e autore anche di Bàrnabo delle montagne e di Il segreto del Bosco Vecchio, sembra quasi scrivere di niente, o di molto poco; nelle sue pagine c’è lentezza, c’è sospensione, c’è un sentire estremamente rarefatto, ma non per questo debole o lontano dal lettore. La vicenda stessa del Deserto dei Tartari racconta di un’attesa che sembra non avere fine, né giustificazione: il tenente Giovanni Drogo, appena nominato ufficiale, viene assegnato in servizio alla prestigiosa Fortezza Bastiani, ultimo avamposto di guardia che si affaccia sul versante nord, un deserto da cui – si dice – un tempo vennero i Tartari, gli antichi nemici. Lo sguardo di Giovanni scorre il paesaggio lunare da cui si aspetta l’attacco: deve rimanere alla Fortezza solo qualche mese, ma qualcosa di inspiegabile – un fascino freddo e irresistibile che avviluppa le lande del nord e la Fortezza stessa – sembra parlargli, reclamare la sua presenza a guardia di un confine muto ormai da tempo, che ha visto scorrere le vite di intere generazioni di ufficiali con gli occhi fissi su distese vuote, ad attendere una battaglia che sembra essere solo un sogno ipnotico.
Inspiegabilmente, anche la vita di Giovanni si consuma in quell’attesa vana, fra crudeli falsi allarmi e licenze che gli mostrano una vita cittadina insignificante, che non offre nulla di più sensato della guardia sui bastioni della Fortezza: il protagonista, parallelamente alla propria, guarda passare gli anni di parenti ed amici, implicati in illusioni inconsistenti quanto la sua. In questo quadro stranente, attraverso gli occhi dell’ufficiale, accade che il lettore scorga se stesso coinvolto in aspettative e delusioni simili, che riempiono ore altrimenti scandite dal tedio; in questo, Buzzati è un Maestro: mostra impietosamente e poeticamente la condizione umana, riassumibile in un’attesa assurda di qualcosa che sembra dover accadere il prossimo istante, ma che non si presenta se non come fragile illusione.
Se ci si concede a queste pagine ci si ritrova immersi in un paesaggio simile a certi quadri di Friedrich, come accade a Drogo, stupefatti e rapiti dalla sua come dalla nostra strana attesa, improvvisamente incapaci di motivarla.
La scrittura di Buzzati rappresenta, e mostra, il quasi niente che scorre nell’esistenza di ognuno, la spinta irresistibile che ci precede e ci anima, e prepara lettore e protagonista all’ultimo vero confronto: quando tutto è perso, quando si è davvero soli, spogli anche del campo di battaglia e dell’impeto ubriacante della mischia, e il nulla avanza guardandoci negli occhi.