In uno dei numeri della nostra rivista cartacea abbiamo pubblicato un brano tratto dal libro di Frédérick Leboyer Dalla luce il bambino, che riporta la testimonianza del parto di una donna californiana, Maria Rosenstone.
Vorrei soffermarmi ancora su questo brano per qualche riflessione. Credo sia impossibile, leggendolo, restare indifferenti e non provare grande ammirazione per chi scrive. Cos’ha di particolare questa donna? Cosa vive di diverso dalla maggior parte delle altre donne?
Per quanto riguarda la mia esperienza di diciassette anni con donne in gravidanza, posso dire che, secondo me, Maria Rosenstone non vive nulla di diverso dalle altre donne che partoriscono, ma nel suo caso lei sa dirsi cosa vive.
«…e si instaura in me quell’attenzione profonda che devo al mio Maestro…»
Tutti viviamo, tutti sentiamo, ma non tutti siamo in grado di dire a noi stessi cosa veramente sentiamo senza confondere emozioni che a volte sembrano somigliarsi fra loro. Ci sono emozioni “umane” ed emozioni che trascendono il piano umano, anche se, nei sintomi, si assomigliano. Poiché la maggior parte di noi non è educata a mettere attenzione a questi momenti intensi, ecco che i due livelli, umano e trascendente, vengono confusi.
«Il grande mango, giù nel giardino così familiare, che conosco da sempre, all’improvviso diviene bizzarro.»
Quante volte mi sono stati raccontati, non senza difficoltà, momenti di paura durante il travaglio, in cui la donna non riconosceva più le cose familiari e successivamente le restava l’angoscia che potessero ripetersi anche nella quotidianità. Perché Maria Rosenstone non aggiunge alle sue righe le parole “paura”, “angoscia”, e invece dal suo scritto emana una sensazione di e-straneità, di stranezza? Forse ha guardato con maggiore attenzione in quella sensazione che assomiglia alla paura, e ha visto che non c’erano nemici di cui avere paura, bensì una presenza, il mango, che proprio perdendo la propria falsa familiarità le incuteva un senso di rispetto, di sacro timore che non ha nulla a che vedere con la paura. È proprio questo senso di rispetto per qualcosa di più grande che le permette di dirsi, ancora senza angoscia:
«Decisione, scelta, tutto è bandito.
Non c’è, ora, che quella danza sublime.»
Perché esiste un mango? Perché il primo seme? Perché una coscienza che è lì ad accorgersene? Tutto questo anziché nulla! Il mango c’è anzichè no, questa coscienza c’è anziché no. Quando è cominciata? Ha scelto di esserci? Ma per poter decidere di esserci avrebbe già dovuto esserci… Davanti a questo, ecco che qualcosa si arrende. Il piccolo io si è diluito in una danza più grande, sublime.
E mai la donna si sarà sentita così vicina alle radici, alla sorgente del suo essere.
Il parto è una grande opportunità, un momento privilegiato in cui ogni donna ha la possibilità di vedere la vita con occhi diversi, ripuliti dal senso illusorio della normalità, della scontatezza. Se le è stato insegnato a mettere attenzione in momenti brevi e intensi può riconoscere il sacro timore che il senso di stranezza induce, senza confonderlo con la paura e venire così iniziata al mistero dell’esistenza, per poterlo riconoscere nel momento in cui per la prima volta incontrerà lo sguardo stupito del suo bambino.