Uno studio sul bene
di Nishida Kitarô
A cura di Enrico Fongaro
Bollati Boringhieri, 2007
Un occidentale che voglia entrare nel cuore de pensiero giapponese deve fare uno sforzo linguistico-concettuale pari a quello che un giapponese affronta per capire che cosa significhi “filosofia”. Questo termine, che è alle radici della nostra civiltà, fino a circa un secolo e mezzo fa non aveva un preciso equivalente nella lingua nipponica. A differenza di quanto accaduto nel passaggio dal greco al latino e alle altre lingue europee, che in genere traslitterano la parola greca, in giapponese si seguì un’altra strada. Nella seconda metà dell’Ottocento, dopo oltre due secoli di chiusura a ogni influenza esterna nel periodo sakoku (1639-1854), fu avviato un febbrile lavoro di mediazione culturale e di invenzione di nuove parole. In tale clima fu creato anche il neologismo tetsugaku – combinazione di due ideogrammi, tetsu “vivacità intellettuale, chiarezza mentale” e gaku “insegnamento, studio” – che da allora in poi si è imposto come traduzione di “filosofia”. Naturalmente, un pensiero giapponese esisteva anche prima, ma si basava su una propria tradizione e su concetti, categorie, problemi e modi di ragionare lontani da quelli occidentali.
Nishida (1870-1945) è il primo grande filosofo giapponese, il fondatore della celebre Scuola di Kyoto, che a lungo è stato principale pensatoio nipponico, tuttora attivo, e che ha aperto un fondamentale canale con la filosofia europea, specie tedesca. L’opera di Nishida è un grande esempio di pensiero interculturale: scaturisce dal profondo della tradizione nipponica ma vi innesta, in una sintesi originale, elementi raccolti dallo studio approfondito dei testi originali di Platone, Plotino, Meister Eckart, Kant, Hegel, e di autori influenti tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento come Bergson, James e Husserl. Potremmo dire, fatte le debite proporzioni, che il tentativo di Nishida di sposare la tradizione zen con la filosofia è paragonabile al connubio tra la filosofia greca e il messaggio cristiano agli inizi della nostra era. Uno studio sul bene (1911) è la prima grande opera di Nishida. Bollati Borighieri la presenta in una edizione ineccepibile, condotta sul testo originale da uno dei più promettenti nipponisti italiani, Enrico Fongaro, e accompagnata con una esauriente e illuminante introduzione di Giangiorgio Pasqualotto. Un merito che va esplicitamente sottolineato di fronte alla sconcertante disinvoltura con cui molta letteratura giapponese – perfino alcuni romanzi di Mishima – continuano a essere tradotti dall’inglese. Quello che possiamo ora leggere è un appassionante trattato sistematico di filosofia zen. Nishida voleva intitolarlo La realtà o L’esperienza pura perché questo è il concetto basilare da cui muove, per poi spiegare come l’esperienza pura si articoli secondo il pensiero (in cui la realtà ci si offre così com’è, la volontà (da cui trae origine l’etica) e l’intuizione intellettuale (da cui si sviluppa l’esperienza religiosa del Nulla assoluto quale origine e principio unificatore dell’intero Essere).
L’opera ebbe subito un vasto successo ma sollevò anche critiche e fraintendimenti. Nishida si sentì spinto a una “svolta”. Per superare il coscienzialismo, il volontarismo e perfino il misticismo di cui era accusato, cercò un nuovo baricentro, e lo trovò, studiando la chora di Platone, nel concetto di “luogo”. Con somma ironia e inarrivabile saggezza zen, avverte però fin dall’inizio: «Forse Mefisto potrebbe farsi gioco di me: chi si dedica alla speculazione è come un animale che mangia erba secca in mezzo a un campo verdeggiante».
Articolo tratto da Repubblica Sabato 17 Febbraio 2007, p. 39