Dialogo con il pubblico del professor Sergio Givone in occasione di una Conferenza del Ciclo “Il sacro limite, come vivere la morte” tenutasi ad ASIA Modena nel 2010. Quarta parte.
Domande sulla libertà e il nulla
Domanda: Vorrei un chiarimento sul rapporto tra il nulla e la libertà. Lei ha parlato del fatto che la libertà è pensabile solo “grazie al nulla delle determinazioni di una certa azione”. Può esprimere questo suo pensiero in modo più articolato?
Sergio Givone: Partiamo da un’osservazione sperimentale fatta da neuroscienziati: la libertà non esiste dal punto di vista di un’osservazione neurologica. Non si trova il cosiddetto “delta”, di quello spazio grande o piccolo di indeterminazione che starebbe alla base delle mie azioni, e che potrebbe far sì che esse siano libere e non condizionate. Ad esempio: qui c’è il bicchiere e qui c’è una penna io sono libero o di bere da questo bicchiere o di mettermi a scrivere, sono libero perché sono io che scelgo. Ma se sono io che scelgo devo poter immaginare un punto di assoluta indeterminazione – un nulla di determinazione – in cui niente mi costringe a bere piuttosto che a scrivere o a scrivere piuttosto che a bere.
Questo punto di indeterminazione, questo spazio “delta” vuoto, questo “grado zero” dell’esperienza, i neuroscienziati sono in grado di ritrovarlo nel cervello? Basterebbe un minuscolo spazio vuoto di determinazioni, un infinitesimo di un infinitesimo di un infinitesimo di secondo. Se ci fosse dovremmo trovarne traccia nel cervello. E allora potremmo dimostrare che niente mi costringe – mi determina – a scegliere questo piuttosto che quello. Ma di fatto non c’è questo “grado zero”: ogni azione è sempre, dal punto di vista neurologico già determinata, già “inclinata verso”. Allora la via sperimentale-scientifica per cercare l’istante di libertà prima dell’atto – ex ante – è una via sbarrata; da questo punto di vista io non saprò mai dire che cosa è la libertà perchè non esiste un momento di nulla, di non determinazione.
Come dicevo, per la scienza il nulla non lo può afferrare: lo strumento del neuroscienziato non può prelevare una traccia di ciò che non esiste. Allora dovremmo dire che gli uomini non sono liberi, che qualunque cosa facciano sono già da sempre determinati. Qui la lezione più importante – percepita per esempio da Sartre e da Heidegger- è certamente quella di Kant.
Kant già sapeva quello che sanno i neuroscienziati: che la via ex ante, la via della ricerca sperimentale del “grado zero” di determinazione prima dell’atto, non porta da nessuna parte. Kant sapeva che non c’è nessuna indeterminazione, e chiamava questo il “mondo del meccanismo universale” dove tutto è regolato dal principio di causa ed effetto: ogni causa ha un effetto, ogni effetto ha una causa, la causa è a sua volta causata e in un sistema di questo genere libertà non esiste. La libertà è solo un fantasma della mente perchè gli scienziati non possono trovarne tracce.
Ma Kant apre anche una possibilità quando afferma: consideriamo il problema della libertà ex post: ho fatto qualcosa, ho ammazzato qualcuno oppure ho detto solo una cattiva parola: mi sento in colpa, responsabile. Dire responsabile è come dire libero perché… che responsabilità è quella che non è preceduta dalla libertà?
Tutti sappiamo come una cattiva parola – quel gesto compiuto così, senza dargli nessun peso – può avere delle conseguenze catastrofiche. Nel momento in cui guardo le mie parole dopo averle dette, ex post, le riconosco come mie e questa è un’evidenza assoluta. Mi rimorde e mi pento perché è un atto mio. Se non fosse vero che questa cosa è mia, io sarei a me stesso ancora più oscuro e incomprensibile di quanto non lo sono introducendo questa X, questo dubbio che è un’ipotesi di libertà.
Domanda: Quindi per Kant la libertà la si trova solo dopo che l’atto è compiuto, quando sento profondamente che è stato un atto mio. Quando sento, anche se quell’atto mi è capitato di farlo o è stato determinato da cause neurologiche, che sono io che ne rispondo. Ma non mi è ancora chiaro il nesso tra questo innegabile senso di responsabilità e la libertà. Dal fatto che dopo sentiamo responsabilità, come possiamo dedurre che prima c’è stato un atto di scelta assolutamente libero? Non potremmo essere determinati anche a vivere il senso di responsabilità?
Sergio Givone: La libertà io la riconosco là dove un’azione è stata fatta perché non potevo non farla, è stata fatta nel meccanismo universale, eppure la riconosco come mia. È qualcosa di accecante come una X, come un punto interrogativo, è qualche cosa che non ha fondamento, è fondato sul nulla. Ma che è il nulla? E quella parolina che devo introdurre per spiegare la mancanza di fondamento di quell’azione che pure è fondatissima che pure rientra nel mondo del meccanismo universale. Secondo Kant noi siamo doppi, siamo dei veri centauri: da una parte siamo come tutti gli animali governati dalla legge di causa ed effetto; dall’altra siamo esseri spirituali, esseri che devono rispondere agli altri delle proprie azioni. Noi non è che abbiamo una spiegazione di questo fenomeno del “rispondere delle proprie azioni”, ma sappiamo che c’è e che la condizione perché abbia senso è che noi siamo liberi. A sua volta la condizione della libertà è che la libertà sia non determinata da altro, non preceduta da altro, sia qualcosa che sta sul nulla questo vuol dire non fondata, infondata, fondata sul nulla. Da questo punto di vista il nulla e la libertà stanno insieme.
Nel ‘900 ci sono stati due grandi filosofi della libertà del nulla. Il primo è Sartre, che ha descritto nel suo libro “L’essere il nulla” questa situazione:
- “Lo so che tu sei nato e non hai chiesto di nascere, e che senza volerlo sei nato così piuttosto che cosà. So che non dipende da te, e che tutto in te ti porta ad essere quello che sei. Eppure tu devi rispondere di te stesso.”- “Ma se mi mandano in guerra ad uccidere il prossimo?”- “Ci puoi non andare.” – “Allora uccidono me come disertore” – “Vedi tu, affar tuo. Ma ne devi rispondere.”
Questa è una filosofia della libertà, e Sartre ha impiegato metà tempo della sua vita a ragionare sul nulla. E non poteva essere diversamente. Un altro che ha tentato di essere un filosofo della libertà è Heidegger. È arrivato a dire: “Das Wesen der Wahreit ist die Freiheit” (l’essenza della verità è la libertà).
Anche lui ha impiegato la vita a ragionare sul nulla. Non è un caso che quando Heidegger è diventato professore, ha dedicato a questo la sua prolusione: una grande lezione non per gli studenti ma per i colleghi, come usava allora in Germania alla fine dell’anno, in cui i neo-professori indicavano le grandi prospettive su cui uno voleva lavorare, le proprie concezioni più profonde e originali. In quella occasione Heidegger discute il problema del nulla, in un testo che è rimasto una pietra miliare – dal titolo “Che cosè Metafisica?”.
C’è quindi una coerenza nella filosofia. La filosofia non è scienza, è anche molta chiacchiera come forse qualcuno penserà uscendo da qui, ma è chiacchiera argomentata, è chiacchiera organizzata con logica e coerenza.
Dostoevskij e il Diavolo
Per concludere volevo raccontarvi una storia sulla morte. Non è una storiella, è una cosa molto seria. Forse sapete che il grande scrittore Dostoevskij era ossessionato dalle consegne. Aveva fatto un contratto con un editore che lo costringeva a scrivere 64 infogli, una quantità di roba da non credere. E allora spesso copiava se stesso: doveva consegnare all’editore quattro fascicoli entro sabato, e quindi prendeva dal romanzo precedente intere pagine e senza quasi modificazioni le metteva nel romanzo successivo.
Attraverso questi spostamenti Dostoevskij metteva in bocca ai suoi personaggi la stessa teoria, che faceva ruotare solo grazie ad una certa intonazione di voce. Infatti se sono io a dire una cosa, o se sei tu, anche se è la stessa, essa. Le stesse cose, dette in un modo vanno lì, dette in un altro modo vanno là. Dostoevskij conosceva benissimo questo trucco e allora mette in bocca a personaggi molto diversi la stessa storia, anzi lo stesso sogno.
Dunque, nel romanzo “L’adolescente”, il quarto dei grandi romanzi della maturità di Dostoevskij, il personaggio di Versilov, che è il padre, racconta un apologo a suo figlio, ed è molto convincente: – “Ma tu pensa come sarebbe bello se gli uomini prendessero atto che devono morire”- “Ma lo sanno papà” – “No che non lo sanno, credono di saperlo, ma in fondo nel loro cuore credono di essere immortali, credono di essere eterni. Il giorno che davvero sapessero di dover morire imparerebbero ad amarsi, si vorrebbero bene davvero”.
Questa preziosità, legata al tempo e alla mortalità, la si vede anche nel fiore che domani mattina sarà sfiorito. Versilov è convincente.
Nel romanzo successivo “I Fratelli Karamazov” incontriamo lo stesso apologo, la stessa favola allegorica, ma questa volta è sulla bocca del diavolo. Il diavolo, in quel suo incontro allucinato con Ivan Karamazov, tutto serio cerca di convincerlo:- “Pensa se gli uomini capissero di essere mortali, allora imparerebbero ad amarsi gli uni gli altri”. Va avanti per un po’, Ivan lo sta ad ascoltare sempre meno convinto, e alla fine il diavolo si smaschera e sul suo volto si dipinge una smorfia demoniaca.
Questa è l’ambiguità della morte. Da un lato – quello di Versilov – è una possibilità, la sola che abbiamo, di vedere il chiaro di noi stessi; infatti, se fossimo eterni, tutto quello che stiamo dicendo – l’amore, la caducità, la domanda sul senso – tutto ciò non sarebbe cosa nostra. Solo la morte che ci fa capire il senso della caducità del tempo, e il fatto che ci amiamo su questa soglia. Ma se ci fermiamo qui sarebbe un discorso monco, se ci limitiamo a fare l’apologia della morte come fa il nichilismo positivo chiudiamo gli occhi di fronte a qualche cosa di altrettanto importante.
Infatti dall’altro lato – quello del Diavolo – bisogna considerare anche che la morte fa paura, angoscia. Sempre ci torniamo su e non ne veniamo mai a capo. La verità di Versilov è una mezza verità, bisogna considerarla sulla bocca del diavolo e cioè come verità smascherata. Perché smascherata? Perché resta vero, dispiace ma è così: che la morte è la morte, abisso orrido immenso, qualcosa che fa paura qualcosa che dà angoscia.
Va bene credo di avere finito e detto abbastanza. Grazie delle belle domande.
A cura di Roberto Ferrari, Elena Cuzzani, Antonella Nora