Dialogo con il pubblico del professor Sergio Givone in occasione di una Conferenza del Ciclo “Il sacro limite, come vivere la morte” tenutasi ad ASIA Modena nel 2010. Seconda parte.
Domande sulla morte e sul non senso
Domanda: Per la riflessione che cerchiamo di condurre ad ASIA, il tema del sentire, delle tonalità emotive fondamentali è molto importante. Niente a che fare con facili emozioni da new age: mi riferisco invece ai sentimenti che si mettono in moto proprio in presenza del problema della morte. Sentimenti intensi e radicali, che parlano di non senso e di assurdo. A suo parere possiamo cercare un senso alla nostra esistenza attraverso l’ascolto di questo sentire, in particolare del sentire la finitezza della vita, dei progetti, delle relazioni… di tutto? Può nascere conoscenza e saggezza dal rapporto con la finitezza?
Sergio Givone: Dobbiamo prima di tutto interrogarci su questi sentimenti fondamentali. Che differenza c’è tra la paura e l’angoscia da una parte (i sentimenti che accompagnano la morte) e la felicità e la gioia dall’altra?
Cosa è la felicità e la gioia? La felicità è sempre “per questo” o “per quello”, per una vincita o perché la mia fidanzata mi ha detto “sì”. E siccome la felicità è sempre per questo o per quello, non è mai vera. O meglio è reale, ma non “vera”: non mi dice la verità sulla vita.
La gioia no, la gioia è in assenza di ragioni. E perciò riesce a farmi risuonare nel cuore, traendolo da chissà quali profondità, un “sì” netto, senza ragioni. Che è tanto più netto e pieno quanto più è senza ragioni, tant’è vero che la gioia la prova il martire ad es. nel momento in cui sacrifica la sua vita. Non è che non soffra, soffre eccome, e tuttavia sappiamo che si può essere profondamente gioiosi solo in un momento come quello, quando non si ha nessuna ragione per essere gioiosi. D’altra parte, senza andare ai casi limite, pensiamo alla nostra esperienza di gioia, riusciamo a capire la differenza che c’è nel nostro cuore fra felicità e gioia. Quando attingo al fondo della gioia, è come dire “si ” alla vita: quando lo dico, senza ragione, fa una differenza enorme, fondamentale. La felicità è per questo o per quello, la gioia è “per nulla”, è “per la morte”, non in senso di perdita ma di “senza ragione”.
Socrate era gioioso nel momento in cui moriva, perché sapeva che nel momento in cui moriva avrebbe afferrato l’Eterno, che quindi sarebbe stata cosa sua e nessuno avrebbe potuto toglierglielo, neanche gli Dei.
Questo infatti ci dirà poi Platone, che aveva bene imparato la lezione di Socrate:
”Ricordate sempre che il gesto più infimo così come il più grandioso, dal dare la vita per la patria a un piccolo moto del cuore che ci sorprende e ci viene regalato, tutto ciò, una volta vissuto, è per sempre“.
E’ la storia della vecchina di cui parla Dostoevskij: una vecchia cattivissima che sta per andare all’inferno, ma proprio mentre sta per sprofondare qualcuno le dà una cipolla e lei riesce a salvarsi afferrandosi al gambo; chiede: “Come mai una cipolla?” “E’ quella cipolla che avevi dato ad un mendicante “.
Queste storielle che ci hanno raccontato da bambini sono piene di senso, perché ci dicono che anche un gesto compiuto quasi per caso ma fatto col cuore, è per sempre. Lì io afferro l’Eterno, e neanche gli Dei possono fare che non sia avvenuto ciò che è avvenuto. E’ per sempre, e Socrate lo sa che nel momento in cui muore in questo “afferramento” dell’Eterno. A maggior ragione l’Eterno è in lui perché tutta la sua vita è stata buona.
Cos’è la paura? Dovrei sempre ricordare che tutte le forme della paura, tutti gli oggetti, i contenuti della paura rinviano in qualche modo alla morte. Perché mi fa paura perdere il lavoro? Perché mi fa paura la mia sofferenza o quella che tocca persone care o altri? Perché vengo avvertito che prima o poi morirò. Non ne voglio sapere, lo dimentico, ma questa sofferenza di cui ho paura mi dice che la morte è lì.
Ciò che è rilevante nella paura – come nella felicità – è che ha sempre un contenuto, ad esempio la perdita di qualcosa che mi parla della perdita della vita. Ho paura della morte perché la vedo come qualcosa che è esterno a me, che incombe, che prima o poi mi ghermirà.
L’angoscia no. L’angoscia non è “per qualche cosa”, è allo stato puro. E’ il sentimento della nullità di tutte le cose in assenza di ragione. Mentre la paura è sempre in rapporto a questa o quella ragione, in rapporto alla perdita di un contenuto che è metafora della morte, l’angoscia è un sentimento immediato che mi dice che la vita non vale niente, la vita è assurda. Una volta l’angoscia si chiamava malinconia, poi si è chiamata angoscia e adesso si è chiamata depressione, ma è sostanzialmente la stessa cosa. Questo è il senso dell’assurdo, è la percezione del non senso di tutte le cose, della assenza di ragione. Provate a dire ad un depresso “ma di cosa ti lamenti, c’è chi sta peggio di te, ecc. ” Quello vi torcerebbe il collo, e a ragione dal suo punto di vista, perché coglie la verità dell’assurdo di tutte le cose. Proprio perché la coglie in assenza di ragioni, la coglie veramente.
Finché possiamo dire a qualcuno “La malattia che hai si può curare”, possiamo controbattere la sua idea di insensatezza perché non è la verità, è una sua idea relativa alla sua situazione. Il depresso invece, proprio perché non ha delle ragioni da esibire per la sua angoscia, attinge alla verità dell’assurdo. E noi sappiamo che c’è una verità nell’assurdo, così come c’è una verità nella gioia.
C’è una verità nel “no” che il depresso dice alla vita. Pensate al quadro di Munch, “Il grido”. Munch è un malinconico, un angosciato, un depresso. È uno che dice “no” non perché ha qualche ragione per dirlo, ma perché non ne ha. E dicendo “no” in assenza di ragioni, non “per questo ” o “per quello”, riesce a farci toccare con mano cosa l’assurdo possa essere.
Dobbiamo chiederci: qual è la verità dell’assurdo e del non senso?
Per attingere a questa verità, come ha saputo fare Munch, come hanno saputo fare i grandi scrittori, dobbiamo farlo in assenza di ragioni. Dobbiamo cioè lasciare da parte la paura – che come la felicità è sempre “per qualcosa” e quindi non è mai vera: come ho detto sono certamente reali, ma non mi dicono la verità sulla vita – e invece portare l’attenzione sull’angoscia. Che è sempre “per nulla”, è angoscia per la morte. Intesa non come “angoscia per la perdita di qualcosa” ma: “angoscia per il non-senso di tutto”.
In conclusione, certamente l’angoscia, il senso di finitezza sono una via d’accesso, un varco verso il senso. In realtà o si passa di lì o da nessuna parte. La nostra finitezza, il nostro dovere di morire ci dicono se la vita ha o non ha senso. Il nostro sentire – provare paura, provare angoscia, provare felicità, provare gioia – ci dicono se la vita ha o non ha un senso.
Domanda: In definitiva, se tutto quel che siamo morirà e sarà niente, che senso ha essere, vivere?
Sergio Givone: Come ho detto, per rispondere a questa domanda devo prima rispondere alla domanda “che cos’è la morte”. E se la morte per me è, per usare le parole di Leopardi, l’abisso orrido e immenso, se è la piramide, se è l’orbita vuota del teschio, se è il buco nero in cui tutto affonda, se è quel fascio di luce nera che viene gettato sulla mia vita e svuota tutto ciò che io amo, se la morte è questo allora certo bisogna rispondere “vivere non ha nessun senso”. Ma se la morte invece è quel “per la morte”, è quell’orizzonte di senso in forza del quale (ricordate Nietzsche e il nichilismo positivo e negativo), io imparo ad apprezzare e ad amare le cose mortali, proprio perché sono mortali. Se la vita è questo, allora la risposta sarà esattamente il contrario. Se c’è la morte, se la morte è quell’orizzonte di senso che dicevo, che senso ha essere e vivere? Essere, vivere, dovremmo arrivare a dire, ha senso perché c’è la morte. Solo il vivere-per-la-morte ha senso.
Perché la morte e la domanda di “senso” vengono spesso ridicolizzate e negate? Forse perché essa ci parla del nulla?
Prima di tutto la neghiamo perché fa paura, perché ci troviamo sempre, comunque, di fronte a una alternativa ed entrambi i corni dell’alternativa fanno paura: da una parte (A) la morte come abisso orrido, immenso, il buco nero dove tutto finisce e non voglio che sia così perché se è così vivo in uno stato di depressione continua. Ma anche l’alternativa (B) è troppo impegnativa: come abbiamo visto si tratta di intendere la morte come un orizzonte di comprensione all’interno del quale siamo chiamati a vivere-per-la-morte nel senso che grazie alla morte, tutto ciò che è, è per noi prezioso, degno di essere amato… . Anche questo non è mica uno scherzo. Meglio rimuovere, dimenticare sia l’ipotesi (A) che l’ipotesi (B) e vivere come se la morte non fosse. Ecco perché succede quello che è sotto gli occhi di tutti: della morte non ne vogliamo più sapere perché ci fa paura. Ci fa paura il suo valore negativo e ci fa paura anche il suo valore positivo.
Noi intendiamo la morte come il nulla. Che cosa è il nulla ? Il nulla non è, e in quanto non essere di nuovo fa paura, non vorremmo che fosse. Anche se qualcuno arriva a dirci che il “non c’è” non è pensabile. Infatti se lo penso, lo penso come qualche cosa che è pensabile e dunque come qualche cosa che in qualche modo è, e mi contraddico. E allora pensiamo piuttosto il nulla come una simulazione di senso. E’ un po’ come quei numeri, i cosiddetti numeri razionali che diciamo non esistono in natura, ma che i matematici si sono inventati per poter risolvere alcune operazione che altrimenti non avrebbero potuto risolvere. Prendiamo lo zero. C’è un passo di Aristotele che dice che lo zero non esiste, lo zero non è un numero e infatti non designa una quantità e quindi non è un numero finito. Ma i greci che pure hanno inventato la geometria ed erano dei grandi matematici sono arrivati solo fino ad un certo punto. Hanno dovuto arrivare gli arabi ed introdurre lo zero. Poi Fibonacci, che si chiedeva perché mai non si dovesse considerare lo zero un numero, perché se io metto lo zero dietro un uno, avere dieci talleri o averne uno è una bella differenza. Ho bisogno dello zero per fare certe operazioni, non solo, ma se io elevo lo zero alla radice quadrata di se stesso non ottengo zero, ottengo come sapete uno. Se io estraggo dalla radice quadrata zero che cosa ottengo? Uno. E allora lo zero sarà pure una simulazione di un numero, ma è un numero che mi permette di fare certe operazioni. Ecco proviamo a pensare al nulla così, in modo da evitare di pensarlo come una cosa, un oggetto, un concetto. “Tu non penserai il nulla” diceva Parmenide, e aveva ragione. Nel momento in cui lo pensi, tu lo pensi come qualcosa e lo contraddici. Ma solo introducendo nel discorso questo impensabile io riesco a pensare ciò che altrimenti sarebbe assolutamente impensabile. La libertà per esempio, è concettualmente pensabile solo introducendo nel discorso il nulla, cioè un punto di indeterminazione che appunto è il nulla delle determinazioni di quella certa azione. Lo stesso vale per la morte. La morte noi non sappiamo che cosa è, non è qualche cosa che ci aspetta lì come un idolo, non è una metafora del nulla come dice il nichilismo. La morte è un orizzonte di comprensione, è esattamente come il nulla, esattamente come lo zero: un elemento del discorso che ci facciamo per raccontarci la nostra vita, introducendo il quale riusciamo a capire, per esempio, la differenza che c’è tra felicità e gioia, tra paura e angoscia, che ci fa capire cosa vuol dire vivere per la morte, perché vivere per la morte in realtà vuol dire vivere per la vita.
Introduciamo questo enigmatico “nulla”, questa X che continua a restare una X, perché è un enigma nel discorso che lo fa funzionare meglio, riesce a spiegarci cose che altrimenti non riusciremmo a spiegare.
Domanda: Se la morte è una minaccia continua, le religioni sono solo ciò che vuole venderci la salvezza?
Sergio Givone: La salvezza è precisamente il problema di cui si tratta. E’ chiaro che se noi intendiamo questo problema in senso superstizioso la salvezza è una cosa misera, un patto. Ci si chiede: “C’è la vita dopo la morte”? “C’è un patteggiamento con le potenze divine per raggiungerla?” Grazie a questo patto si passa attraverso questa porta difficile, questa forca caudina, questo Lete (il fiume oltre il quale vi è l’Ade, il regno dei morti per i Greci) e ci si ritrova al di là, salvati. Ecco se io penso le religioni in una chiave mitologica di questo tipo, sì allora salvezza è una cosa misera. Ma se io mi pongo questa domanda in modo diverso, anche restando dentro questa mitologia e dentro le religioni, cristiane e non, che ci hanno parlato della morte come del passaggio verso un aldilà in cui ci sono i salvati e i dannati? Posso infatti pormi la domanda di salvezza in termini di domanda di senso e di verità; posso considerarmi “salvo” nel momento in cui la mia vita ha un qualche senso, e “dannato” se precipito nell’assurdo. Se mi pongo la domanda in questo modo allora la questione della salvezza è un po’ più seria. E’ la questione.
Domanda: Ci sono esempi di rapporti con la morte alternativi a quello nichilistico (la morte come non-senso) o eternalistico (la vita eterna insieme al nostro Dio). Uno sembra che lo proponga il buddhismo. In Occidente forse c’è qualcosa del genere nell’ultima pagina di “La morte di Ivan Ilic”? O in quell’amare la vita fino al suo capitolo ultimo che traspare dai diari di Etty Hillesum?
Sergio Givone: Etty Hillesum è una grande mistica morta in un campo di concentramento e che fino all’ultimo fece la sua opera un grande inno alla gioia, la gioia di essere in assenza di ragione. Fino a prova contraria in un campo di concentramento di ragioni per essere felici uno non ne ha. Non mi pronuncio sul Buddhismo, cosa grandissima ma che conosco troppo poco, ma appunto è una di quelle religioni che ha diritto di dire qualcosa sulla morte perché la morte è cosa delle religioni.
Quanto a Ivan Ilich io ho una mia teoria che però ogni volta che la espongo vengo bacchettato: non credo che la morte di Ivan Ilich sia una morte paragonabile a quella di Etty Hillesum o a quella dell’illuminato buddhista, io penso che sia una cosa diversa. Alla pagina finale, quando il protagonista ha questa illuminazione, questa grande luce, ho l’impressione che Tolstoj, o meglio la sua anima nichilistica, perché Tolstoj aveva un’anima nichilistica con cui ha combattuto tutta la vita, venga fuori. Mi sembra che in questa luce lui faccia in realtà la parodia di un’esperienza mistica: una cosa che mette i brividi tanto è amara e terribile. Può anche essere letto diversamente, come se quell’ultima pagina fosse la testimonianza di una vera illuminazione mistica. Quindi ciascuno lo legga come meglio crede.
A cura di Roberto Ferrari, Elena Cuzzani, Antonella Nora