La voce dell’amico. Sul prodigio dell’ascolto
François Fédier
Trad. it. di Cesare Greppi, Christian Marinotti, Milano 2009
Originale: Voix de l’ami, Editions du Grand Est, 2007
Kannon era “un essere che
per ogni suono che udiva contemplava la mente dell’ascoltatore,
realizzando la propria natura”
François Fédier ci racconta che all’origine di questo saggio c’è lo stupore provato – e sempre rinnovato – nel leggere un brano di Essere e tempo, in cui Heidegger parla della «Stimme des Freundes, den jedes Dasein bei sich trägt», vale a dire della «voce dell’amico, [amico] che ogni Dasein porta presso di sé».
Per sgombrare subito il campo da equivoci, Fédier spiega che qui la «voce dell’amico» non va confusa con l’esperienza quotidiana dei rapporti sociali, con l’«intrattenersi» abituale fra le persone. Addirittura sottolinea che «è impossibile operare una distinzione di grado fra amicizia vera e amicizia ordinaria, per la semplice ragione che un’amicizia ordinaria semplicemente non è un’amicizia».
Le pagine memorabili che Montaigne, nei Saggi, dedica all’amico Etienne de La Boètie ci aiutano a fare un passo in più nella riflessione: la relazione di amicizia si esprime come «reciproco beneficarsi», «sì che ciascuno è chiamato dall’altro a giungere fino a se stesso». Ma qual è il significato di quel “se stesso” che ci è più proprio e che chiede di mettersi in sintonia con l’appello che gli è rivolto?
Per entrare nel cuore di questa domanda la ricerca di Fédier ci guida nel suo modo caratteristico di procedere, quello che sa approssimarsi con rispettosa insistenza a ciò che chiede di essere indagato, ascoltandone il risuonare nelle sue stesse parole. Così ad un primo intervento pubblicato in tedesco nel 1999 in un volume celebrativo dei 65 anni di Friedrich-Wilhelm von Herrmann, Fédier ha aggiunto nel 2007 – anno dell’uscita del volumetto francese – un’integrazione, in cui tenta – secondo le sue stesse parole – «di ascoltare meglio ciò che era stato detto passando attraverso l’altra lingua».
In questa aggiunta la riflessione si concentra su quell’io presso il quale la voce dell’amico può ascoltarsi. «L’interpretazione superficiale vede l’io come “soggetto”, il che equivale a vederlo come sostanza», ossia come un polo autonomo e indipendente, che si può definire e fissare. Ma la soggettività – Heidegger lo ha magistralmente mostrato – è piuttosto «quel modo di essere in cui, a ogni attimo del tempo, si tratta di essere ciò che tocca a me, a me solo, essere». Contrariamente a ogni riduzione psicologica o antropologica, «”io” non è il perno assoluto come oggi è unanimemente percepito». Sono le parole di Rimbaud a illuminare meglio lo scardinamento di questo intendimento: «Je est un autre». Fédier ci spiega che queste parole non si possono leggere: «Io è un altro», perché questo si direbbe «Io sono un altro». «Non c’è “io” vero se, nel suo bel mezzo, non è scavata l’apertura nella quale l’io possa entrare in rapporto non soltanto con ciò che è altro da lui, ma anche con ciò che è assolutamente altro rispetto a tutto ciò che è».
«L’assolutamente altro, nient’altro»: ecco quello che fa intendere la voce dell’amico – «estranea e familiare» – che ogni umana esistenza porta presso di sé. «La singolarità di questa voce sta nel fatto che, vibrando dal fondo del vuoto del tutto singolare che ogni io vero custodisce, mette in risonanza lo stesso vuoto che giace nel cuore di un altro uomo».