Abbiamo intervistato Sergio Givone, già docente alle Vacances de l’Esprit 2003 con il seminario dal titolo: “L’idea del nulla e il nichilismo. La vita, la morte, il nulla”. Allievo di Luigi Pareyson, Givone è stato docente a Perugia, Torino e Firenze, dove attualmente è ordinario di Estetica alla Facoltà di Lettere e Filosofia.
Domanda: professor Givone, come secondo Lei l’alterazione dei ritmi del nostro tempo, esterno ed interiore, tempo ormai calcolato al minuto, influisce sulla qualità dello studio, del pensiero in generale e del pensiero filosofico nello specifico?
Sergio Givone: influisce molto, lei sa quanto il tempo sia un concetto fondamentale per la filosofia, soprattutto per la filosofia moderna e contemporanea. Io credo che il Novecento – qui apro una parentesi – il contributo della filosofia novecentesca sia stato soprattutto la riflessione sul tempo. C’è stato chi, penso ad Heidegger per esempio, ha cercato di ridurre la verità al tempo, cosa che non era mai stata fatta prima. Il tempo diviene; come mettere insieme la verità e il tempo? La filosofia contemporanea ha cercato di farci capire come la verità che diviene, la verità che si fa altra, non sia follia, come pure qualche filosofo sostiene, ma resti pur sempre verità. Un livello estetico di conoscenza ci dice questo. Le opere d’arte sono sempre altre, tuttavia contengono ciascuna, pur essendo sempre altre, sempre diverse, una propria misteriosa, profonda, verità.
E vengo alla sua domanda: è vero, il tempo oggi si è trasformato, la percezione che abbiamo del tempo è molto diversa, e questo non solo perché si è velocizzato, pensiamo ai processi che hanno prodotto questa velocizzazione del tempo, disponiamo di mezzi che ci permettono di spostarci come prima non potevamo fare, fare tutto più in fretta, ma addirittura si è fatto contemporaneo, eventi che accadono in spazi lontani, lontanissimi da noi, ci sono diventati contemporanei. Noi li vediamo come se fossimo lì grazie ad Internet, alla televisione, a mezzi che hanno non solo velocizzato il tempo, ma ce l’hanno reso contemporaneo. Questo comporta un oscuramento della profondità del tempo, del passato e del futuro, che non è solamente un fatto negativo, perché pensare solo in termini di passato e futuro, dimenticare il presente, era forse il limite grave dell’esperienza del tempo come veniva fatta tradizionalmente. Il presente è il presente, tutto ciò che abbiamo; l’attimo è carico di un peso, ma ha anche una leggerezza, di cui non possiamo semplicemente liberarci e dire: l’attimo non è niente, fugge, vola via. La filosofia contemporanea ci ha ricordato l’importanza dell’attimo, quindi c’è una positività in questa velocizzazione, in questo farsi contemporaneo del tempo. D’altra parte c’è anche una grande perdita di spessore, di profondità, laddove non sappiamo più cosa sia passato e non abbiamo più sguardo veramente capace di pensare e di guardare verso il futuro.
Domanda: i nostri sono i tempi della morte di Dio. La nostra esperienza in associazione nel rapporto coi ragazzi ci mostra come essi crescano nella totale sfiducia dei valori tradizionali come il pudore, il rispetto dei più anziani, la religione, la cosiddetta morale. In generale essi non concedono fiducia neppure a chi voglia, o debba, porsi nei loro confronti come educatore, ci pare questo un esito della maturazione del nichilismo. La filosofia ha avuto in passato valenze educative, ma oggi i ragazzi per lo più se ne allontanano come se non stesse parlando di loro. Cosa risponderebbe lei a un giovane che le chiedesse perché occuparsi della filosofia?
Sergio Givone: Comincerei proprio dai problemi che lei ha sollevato. Comincerei col chiedermi se le cose stiano davvero così, cioè se i giovani non ne vogliono più sapere della morale, non sanno più neanche che cosa sia, se il nichilismo è l’unico orizzonte al quale siamo consegnati, se il Dio che è morto significa la fine dei valori tradizionali. In buona parte sì, ma solo in buona parte, perché tutto ciò non deve farci dimenticare qualcosa che resta vero, anche se Dio è morto, anche se i valori tradizionali hanno lasciato la scena. Questo venire in primo piano, diciamola pure la parola, del nulla, non ha soltanto un senso nichilistico e negativo: distruzione della morale, distruzione dei valori, ma ci consegna a noi stessi, alla nostra responsabilità, perché dire che non esiste un fondamento che ci rassicura, che ci dice quello che dobbiamo fare, significa affidare a noi il compito di decidere che cosa fare, deciderlo non gratuitamente, deciderlo in base ad una tavola di valori che dobbiamo pur sempre indicare, scrivere, circoscrivere. Io parlo più volentieri del nulla che del nichilismo, perché il nichilismo ha una connotazione negativa, troppo distruttiva. Anche il nulla, ma il nulla è più ambiguo, è più capace di ambiguità e di doppiezza, il nulla è quella cosa che sta davanti a noi e forse rappresenta il non senso della nostra vita, ma è in noi e rappresenta la cosa più preziosa: la possibilità di essere veramente liberi, di essere veramente noi stessi.
Ultima domanda: Il quotidiano messaggio attraverso i media e l’insegnamento scolastico è che l’uomo è una super macchina biologica. Oggi molti pensatori, soprattutto anglosassoni, sostengono che i filosofi non si possano permettere di ignorare le scoperte scientifiche sul cervello. A maggior ragione anche dalla parte filosofica viene affermata la natura organica dell’uomo. L’esito sul giovane è di vivere per niente, come un puro organismo, con implicazioni devastanti. Egli può pensare coerentemente con tale messaggio: “se il mio disagio è solo sintomo che va curato chimicamente, allora faccio da solo e mi drogo, tanto un senso non c’è comunque. Cosa può obiettare il filosofo europeo continentale a tale visione?
Sergio Givone: il filosofo europeo continentale, ma anche il filosofo in generale, deve tenere conto dei risultati della biologia e della scienza, se non lo fa certamente si mette fuori gioco da solo. Che cosa ci dicono la biologia e la scienza? Che non è solo di oggi, ma viene da molto lontano, è qualcosa che già il Cristianesimo ci diceva. L’uomo è corpo, Dio stesso si è incarnato, la realtà che ci fa essere uomini è una realtà di carne, quindi di geni, quindi di pulsioni che sono inscritte in noi e che ci condizionano. Detto questo però, attenzione, non è detto che allora non siamo liberi, è una falsa conclusione questa che tiriamo, cioè che se siamo condizionati non siamo nient’altro che manichini governati da meccanismi, da automatismi, naturali, e la libertà è una semplice illusione. Perché la libertà non va scoperta ex ante, ma va scoperta ex post. Sembrerà una cosa un po’ curiosa questa che dico, ma fino a un certo punto. La verità va scoperta laddove io, avendo fatto quello che ho fatto, bene, male, non importa, lo riconosco come mio. Posso o non posso riconoscere come mio un gesto, un’azione, una decisione? Devo. La biologia mi dice che sono stato spinto a, determinato a fare quello che ho fatto, e tuttavia, questo è un paradosso, quello che ho fatto, nel momento in cui lo assumo, lo riconosco come mio, ne devo rispondere, e se ne devo rispondere non posso non ipotizzare questa cosa strana, misteriosa, ma essenziale, che è la libertà. Come si fa a rispondere delle proprie azioni se uno non è libero? La libertà non so cosa sia, né la biologia mi può dire che c’è o che non c’è, non è cosa della biologia. La libertà è questa ipotesi, Kant diceva: questo postulato, questa cosa che io esigo che ci sia perché se non ci fosse non potrei spiegare ciò di cui faccio esperienza, quello che non posso non spiegare, e cioè il fatto di dover rispondere delle mie azioni. Un uomo che non debba rispondere delle proprie azioni non è più un uomo, sarebbe ancora più incomprensibile di quello che già non è. Allora a questi giovani dico: sì, siamo fatti di carne, e quindi la chimica agisce in noi, se succedono questi squilibri non è detto che non sia giusto intervenire chimicamente, ma questo non è tutto, pensare che sia tutto è operare in quel senso riduzionistico che poi porta a degli effetti indesiderati come l’abuso di psicofarmaci o come l’abuso di quei farmaci che non sono farmaci, ma droghe.
di Linda Altomonte e Paolo Ferrante