Con questo articolo intendiamo mettere in luce gli intendimenti, da parte dei filosofi Aristotele e Martin Heidegger, di una questione fondamentale che, in ultimo, riguarda direttamente la nostra stessa essenza , ossia “il nostro luogo” in quanto esseri umani (o “Esser-ci”, con le parole di Heidegger).
1. Aristotele e il luogo
Nell’antica Grecia la Φύσις (physis) ovvero “la natura” è stata sempre oggetto di grande interesse per i filosofi dell’epoca. La traduzione di physis come “natura” può apparire riduttiva, per questo è utile attingere all’indicazione offerta da Emanuele Severino ne “La filosofia dai greci al nostro tempo”: “Physis è costruita sulla radice indoeuropea bhu, che significa essere, e la radice bhu è strettamente legata (anche se non esclusivamente, ma innanzi tutto) alla radice bha, che significa “luce” (e sulla quale è appunto costituita la parola saphés). […] Già da sola, la vecchia parola physis significa “essere” e “luce”, e cioè l’essere, nel suo illuminarsi.” E non ci sembra di sovraccaricare di significati una parola apparentemente così innocua nella modernità, visto che il soffermarsi su di essa ha fatto fiorire domande sul luogo, sul movimento, sul tempo, sull’infinito che hanno fondato la nostra civiltà.
In particolare, in questo articolo affronteremo la ricerca su cosa sia il “luogo” (τόπος, topos) per Aristotele, su cui tra l’altro si sono cimentati filosofi come Platone, Zenone e molti altri, per poi soffermarci sul significato di “luogo del tutto” in Heidegger.
Aristotele, nella sua opera intitolata “Fisica”, si chiede del significato di luogo [1]. Egli presenta una serie di aporie – ragionamenti che portano a strade senza uscita – ed intende risolverle per poter dare una valida teoria generale. Attraverso un procedimento dialettico presenta ipotesi di senso comune, opinioni di filosofi precedenti e fatti osservati riguardo al tema. Questa ricerca è necessaria per Aristotele in quanto ” (…) presso gli altri filosofi noi non troviamo, a questo proposito, che il problema sia stato impostato e, tanto meno, felicemente risolto.” [2]
Aristotele non parte subito dal presupposto che il luogo davvero esista e che conseguentemente si debba intendere bene cosa sia, ma mette in dubbio anche l’esistenza stessa del luogo: si chiede “se esso sia o non sia e in che modo sia e che cosa sia.”
Questa differenziazione tra esistenza ed essenza è molto peculiare nello studio aristotelico del luogo, e ancor più assume significato se consideriamo che Aristotele non dà mai per scontata l’effettiva esistenza del luogo.
Offrendo numerosi esempi, il Filosofo ci fa vedere che sembra esistere il luogo, ma in definitiva si tratta sempre e solo di opinioni non fondate sullo studio del luogo stesso.
A questo punto è fondamentale entrare nel merito della questione: che cosa intende Aristotele con luogo?
In ultimo viene data da Aristotele una definizione di luogo in quanto “limite immobile del corpo contenente”[3]. Questa affermazione sembra attestare che il luogo non esista affatto o almeno non nel senso in cui ce lo aspettavamo.
Una successiva domanda da porsi è se per Aristotele l’esistenza (che non è affatto scontata), corrisponda a “stare in un luogo” o all’ “essere del luogo”.
Infatti Aristotele si interroga sulle modalità attraverso le quali possiamo dire che una cosa è contenuta in un’altra: “In un modo, come il dito è nella mano e insomma, come la parte è nel tutto (…) ma il significato più appropriato (…) è in un luogo.”
Con questo esempio il filosofo dà una prima apparente prova del fatto che esista un ‘dove’ degli enti: “Tutti, infatti, ammettono che gli enti sono in un ‘dove’ (ché il non-ente non è in nessun luogo: dove sono, infatti, l’ircocervo e la sfinge?).”
Aristotele prosegue, prendendo come esempio un vaso in cui viene prima versata dell’acqua e poi viene svuotato (l’aria prende il posto dell’acqua) e mostra che normalmente il luogo viene visto come una sorta di contenitore al cui interno si trovano e si scambiano posto i corpi: “Che il luogo, intanto, esista sembra risultar chiaro dallo spostamento reciproco dei corpi. Difatti, dove ora è l’acqua, lì, quando essa se n’esce come da un vaso, è l’aria; e, in tale circostanza, un corpo diverso viene ad occupare quel medesimo luogo; allora appare che il luogo è cosa diversa da tutto ciò che penetra e muta dentro di esso.”
Aristotele continua con la sua indagine su che cosa si possa dire riguardo al luogo (in ultimo, su che cosa davvero sia): “(…) se esso esiste, è difficile determinare che cosa esso sia, se una massa corporea o qualche altra natura. Bisogna, infatti, ricercare anzitutto il suo genere”.
Aristotele evidenzia il fatto che è erroneo intendere il luogo come una sorta di contenitore, come un corpo che contiene altri corpi, in quanto due corpi non possono essere insieme nello stesso luogo: “E’ impossibile che il luogo sia un corpo, perché allora in esso stesso ci sarebbero due corpi”.
Per Aristotele un’altra opinione del pensiero comune è che il luogo sia la forma di ogni ente, visto che delimita in un certo senso le cose.
Qualcun altro invece definisce il luogo come l’intervallo della grandezza della cosa e quindi come materia. Aristotele confuta anche queste opinioni erronee:
“(…) l’impossibilità che il luogo sia solo una di queste due cose, forma oppure materia, non è difficile a scorgersi. La forma e la materia, infatti, non sono separabili dalla cosa, il luogo, invece, si ammette come separabile”.
Il luogo non può essere la forma, ossia la materia, perché forma e materia sono un tutt’uno, cioè non si dà forma senza materia, ma esiste solo la forma della materia e viceversa.
A queste interrogazioni sul significato di ‘dove’ era “partecipe” anche Zenone di Elea, che nella Fisica Aristotele fa parlare con questa affermazione: “se, difatti, tutto l’essere è in un luogo, anche del luogo ci sarà un luogo e così via all’infinito”. Questo porterebbe ad una serie infinita di luoghi.
Aristotele risolve questo paradosso nel modo seguente: “Nulla, infatti, impedisce che il primo luogo sia in un altro, ma non in quanto quest’altro sia un luogo, bensì come la salute è nelle cose calde, cioè come stato, o come il caldo è in un corpo, cioè come passione. Sicché non è necessario andare all’infinito”.
Avendo escluso cosa il luogo non sia e avendo risolto una serie di aporie, Aristotele comincia a dare delle definizioni di luogo: “Se, dunque, il luogo non è nessuna di queste tre cose, ossia né forma né materia né un intervallo che sia sempre qualcosa di diverso da quello della cosa che viene spostata, necessariamente il luogo è l’ultima delle quattro che resta, e cioè il limite del corpo contenente.”
Aristotele dichiara l’ultimo elemento necessario per la definizione: il luogo deve essere immobile. Egli afferma che con la definizione del luogo come “limite immobile del corpo contenente” tutte le aporie riguardo al luogo potrebbero essere risolte, cioè potremmo finalmente sapere se esiste il luogo e di cosa si tratta.
A questo punto riguardo alla immobilità, Aristotele approfondisce un aspetto che considera molto importante, ossia il fatto che “il cambiamento locale dell’oggetto spostato avviene in un contenente che è in quiete.”
Si chiede quindi come sia possibile che un oggetto si muova, anche se il suo luogo è in quiete, dicendo come intendere giustamente il luogo:
“E come il vaso è un luogo che si può trasportare, così anche il luogo è un vaso, ma che non si può muovere. Perciò, quando qualcosa che è in ciò che è mosso, si muove, muta ciò che sta al di dentro, come una nave nel fiume: ci si serve di essa come un vaso, piuttosto che un luogo che è contenente, giacché questo come intero è immobile. Sicché è piuttosto il fiume come intero che è luogo, in quanto esso come intero è immobile”.
Aristotele conclude la 4a parte del IV libro della Fisica con queste parole: “E per questi motivi il luogo sembra essere una superficie, e come un vaso, cioè come contenente. E il luogo è uno con le cose, poiché i limiti sono uno con il limitato.”
2. Heidegger sulla Physis e il luogo nei Greci
Aristotele ci ha lasciato come definizione di luogo tra l’altro la sua “immobilità”. Intendiamo noi oggi il movimento ancora alla maniera in cui lo intendeva Aristotele?
Da Martin Heidegger, che si è occupato intensamente per un trentennio di filosofia aristotelica, possiamo leggere che solo con Aristotele ‘l’essere mossi’ (Bewegtheit) è per la prima volta diventato evidente in un modo essenziale per l’uomo moderno:
“E’ vero che già i pensatori prima di Aristotele hanno esperito che il cielo e il mare, le piante e gli animali sono in movimento; (…) e nonostante ciò lui ha come primo raggiunto quel gradino del domandare (…) su cui l’essere mossi viene interpellato e compreso come il modo fondamentale dell’essere.” [4]
Secondo Heidegger, oggi l’uomo a causa dell’influenza del pensiero meccanicistico tipico delle scienze moderne tende a pensare che ‘l’essere mossi’ (Bewegtsein) sia unicamente il muoversi da uno spazio ad un altro. Al contrario, il movimento in Aristotele sarebbe invece da intendere come modo fondamentale dell’essere: lo svelamento (Anwesung).
Quindi il fatto che il luogo è immobile potrebbe essere inteso non nel senso di un mancato movimento, ma che ‘luogo’ corrisponda allo svelamento di ‘ciò’ che è immobile (con questo “ciò” si intende ‘tutto’) e diviene manifesto tramite il ‘mosso’ (l’Universo).
Un forse azzardato parallelismo con la Differenza Ontologica potrebbe aiutarci a intendere meglio la definizione del luogo aristotelico: in Heidegger e nella Differenza tra essere ed ente, l’ente non può essere visto separato dall’essere. L’essere non è una proprietà dell’ente, non è qualcosa che si aggiunge all’ente. L’essere è il fatto che c’è ente. E questo lo intuiamo solo perché al di fuori del tutto (dell’esistenza del tutto) non c’è niente.
Per Aristotele l’Universo è tutto ciò che c’è: “Non c’è alcuna altra cosa al di fuori del tutto, e perciò tutte le cose sono nel cielo: ché il cielo, s’intende, è il tutto!” (Ph IV)
Il fatto che Aristotele dica che l’Universo stesso non è il luogo, ma il luogo è “l’estremità del cielo, ed è immobile limite contiguo al corpo mobile” non significa che il luogo sia in ultimo un’altra cosa rispetto all’Universo. A questo punto potremmo avanzare sulle parole forniteci da Martin Heidegger: che il luogo è… che c’è l’Universo (invece di non esserci).
Si può dire che c’è il luogo, perché il tutto si dà e non è niente, ma dal momento che si dà, è incoglibile come un limite, come un punto:
“Il luogo è comunque in un ‘dove’, ma comunque non in un luogo, bensì come il limite nel limitato.” (Ph IV, 5).
Il seguente esempio ci farà ancora meglio intendere il concetto di limite in Aristotele.
Una domanda che spesso veniva posta nell’antichità rispetto all’Universo, considerato finito in Aristotele, era la seguente: l’Universo è finito nel senso di possedere un limite fisico, oltre al quale necessariamente non ci debba essere qualcosa?
Il filosofo greco Simplicio, con il seguente noto argomento, si chiedeva se trovandosi all’estremità dello spazio fosse possibile tendere la mano o un bastoncino fuori di quella: “Se io mi trovassi all’estremità dello spazio, ad esempio nel cielo delle stelle fisse, potrei tendere la mano o un bastoncino fuori di quella? O non potrei?” [5]
È chiaro che quando ci si interroga sull’esistenza e sull’immenso Universo questa ricerca non può essere fatta con distacco, ma si vive un profondo coinvolgimento e ci si chiede del senso di se stessi, del “luogo proprio”, come dice Aristotele, dell’esistenza.
In generale coloro che nell’Antichità discutevano sull’essere della natura e sull’esserci del mondo erano in realtà sempre guidati, dice Heidegger, dal dubbio e dalla paura che il continuo e perdurante circolo degli astri si sarebbe potuto fermare e che l’ente non ci sarebbe più stato: “La presenza di un tale ente (ciò che è da sempre essente n.d.t.) non è immaginata, ma vista nel movimento del cielo, vista però, non solo nella semplice osservazione, ma proprio dalla paura che ciò che è da sempre essente (Immer-Daseiende) si possa ad un certo punto fermare e scomparire dal “ci”.[6]
Questo sta in netto contrasto con coloro che oggi commentano Aristotele, i quali tendono a ridurre spesso le riflessioni aristoteliche sulla “natura” a puro calcolo, senza considerare il coinvolgimento dello stesso Aristotele nelle proprie riflessioni.
Secondo questi la “Fisica” di Aristotele è nata solamente da considerazioni oggettive e da un interesse di natura prettamente scientifica. Per Martin Heidegger invece, le domande dei Greci sulla natura, sulla physis, erano domande sentite (dunque non puramente concettuali), non astratte, strettamente connesse con il nostro stesso esserci. Spesso erano vere intuizioni metafisiche che permettevano ai Greci di intendere il mondo molto diversamente dalla concezione odierna:
“Questo senso di essere non è stato da qualche parte trovato dai Greci, ma è cresciuto a partire da una determinata esperienza dell’essere in quanto l’uomo vive in un mondo e in quanto il mondo è sotto la volta dell’ ouranos, “cielo”, in quanto il mondo è l’ouranos che in sé è racchiuso e finito”.[7]
Quindi anche in essi la domanda sull’Universo sorgeva dalla perplessità: che ne è di noi in questo immenso Universo?
La perplessità di Simplicio, se lui possa tendere la mano fuori dall’Universo oppure no, mostra come ci vediamo in qualche modo fuori dal tutto e non ci rendiamo conto che – assieme all’Universo – facciamo parte di esso.
Come può nascere dunque un domandare nuovo che riguardi il tutto (noi compresi)?
3. Il luogo come essere-nel-mondo
Cosa intende Aristotele quando parla della “cecità” riguardo alla natura, alla physis?
Martin Heidegger ci dà qualche preziosa indicazione a riguardo, dicendo che noi moderni nel voler definire il mondo, siamo in qualche modo ciechi nei confronti del modo in cui gli antichi Greci intendevano la questione. Il Greco[8], secondo Heidegger, non parte da una visione che separa soggetto ed oggetto[9], per cui il mondo diventa immagine, ma vede invece il tutto, l’ente nella sua interezza.
Non vede se stesso da una parte e il mondo dall’altra, ma tutto è visto come un’unica cosa essente. Questo significa che nel voler definire la physis anche il nostro “definire” stesso va visto essente:
“(…) il fatto che il mondo ci incontra solo in un aspetto soggettivo e non propriamente in sé, come se si trattasse di un determinato modo di intendere il mondo. Questo orientamento a partire dal soggetto e oggetto deve essere eliminato totalmente, non solo i concetti fondamentali soggetto/oggetto e ciò che intendono non compaiono nella filosofia greca, ma in essa l’orientamento soggetto/oggetto è insensato in quanto non si tratta di caratterizzare un modo di essere del mondo ma l’essere in esso.“[10]
In questa prospettiva potremmo riprendere la domanda posta inizialmente da Aristotele e rivederla sotto l’approfondimento heideggeriano: cosa significa luogo/spazio?[11]
In “Corpo e spazio, osservazioni su arte-scultura-spazio” Heidegger si chiede:
“Cos’è, dunque, lo spazio – in ciò-che-gli-è-proprio?” [12] Ci spiega che lo spazio “fa spazio”. Continua dicendo che “se facciamo attenzione a ciò-che-è-più-proprio dello spazio, ossia al fatto che fa-spazio, siamo finalmente in condizione di scorgere uno stato di cose rimasto fino ad oggi precluso al pensiero. Si tratta di vedere in che modo l’uomo è nello spazio. L’uomo non è nello spazio come un corpo.“[13]
Heidegger ci sta dicendo che l’uomo e lo spazio sono intimamente connessi, ma che il pensiero fino ad oggi non è andato oltre l’idea che l’uomo sia nello spazio come un corpo (riproponendo così “l’orientamento soggetto-oggetto”). L’uomo invece non va visto come un ente, ma come essere-nel-mondo:
“Il disporre dello spazio che caratterizza l’uomo, l’essere affidato allo spazio, l’essere-nel-mondo, anche oggi non viene colto quasi per nulla. Così accade per l’esistenzialismo, quello ateo di Sartre come quello cristiano, che fraintende totalmente il fenomeno dell’essere-nel-mondo, nel loro modo di pensare questa espressione significa: l’uomo è nel mondo come la sedia è nella stanza e l’acqua è nel bicchiere.”[14]
Questa prospettiva ribalta completamente il nostro intendimento dell’uomo (e di noi stessi) basato sulla divisione soggetto/oggetto: l’uomo è il luogo in cui il luogo stesso si accorge della propria ingiustificata esistenza[15].
“L’uomo non fa lo spazio, lo spazio non è neanche un modo soggettivo dell’intuire; non è però neanche alcunché di oggettivo come un oggetto. Piuttosto, lo spazio, per fare spazio come spazio, necessita dell’uomo. Questo misterioso rapporto, che non concerne solo il riferimento dell’uomo allo spazio e al tempo bensì il riferimento dell’essere all’uomo (evento).” [16]
Se però non accade questa conversione dell’uomo nell’esser-ci (Da-sein), l’uomo non saprà mai della verità dell’essere e resta, per dirlo con le parole di Aristotele e Heidegger, cieco dell’essere.
Vogliamo, nel nostro intimo, restare ciechi? Cosa il luogo (lo svelamento) sta davvero svelando/mostrando?
Note
[1] Fisica, Libro IV. Il tema del “luogo” è stato approfondito nelle lezioni di Filosofia Antica del prof. Walter Cavini (Università di Bologna, a.a. 2008-2009). Titolo del corso, “Aristotele e la Fisica dello Spazio”.
[2] Aristotele, Opere, vol. 3, Fisica, Del Cielo, Roma: Editori Laterza, 1991, p.73
[3] Ivi, p. 82
[4] M.Heidegger, Vom Wesen und Begriff der Physis, in Wegmarken, GA 9, Frankfurt/ Main: Vittorio Klostermann, pp. 243-244. Ed. it: Sull’essenza e sul concetto della Φýσις, in Segnavia
[5] Simplicio, Physika, 467,26.
[6] M. Heidegger, Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie, Ga 18, Frankfurt am Main: Vittorio Klostermann, p.39
[7] Ibid.
[8]Non è del tutto chiaro in Heidegger quali filosofi abbiano sondato davvero la questione della Φýσις in modo radicale. Anche se dalla bibliografia (vedi: Sull’essenza e sul concetto della Φýσις, p. 242 ed. tedesca) possiamo dedurre che Anassimandro, Eraclito e Parmenide si sono avvicinati e hanno toccato l’essenza del discorso sulla Φýσις; mentre di Aristotele Heidegger afferma che “la comprensione (da parte di Aristotele; n.d.t.) della Φýσις è già l’ultima risonanza dell’iniziale e perciò più alto progetto (Entwurf) del pensiero dell’essenza della Φýσις”.
[9] Questa visione che separa il soggetto (e lo presuppone) dall’oggetto la chiameremo in questa sede ‘conoscere transitivo-oggettivo’. (cfr. F. Bertossa, R. Ferrari, Lo sguardo senza occhio, AlboVersorio, 2005, p.168 )
[10] M. Heidegger, Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie, Ga 18, Frankfurt am Main: Vittorio Klostermann, p.56
[11] Ci limitiamo qui a approfondire il concetto di luogo in Heidegger stesso. Per quanto riguarda invece l’interpretazione dello spazio in Aristotele e nei Greci da parte di Heidegger veda: M. Heidegger, “Corpo e spazio, osservazioni su arte-scultura-spazio”. Secondo Heidegger in Aristotele (che è per lui l’autore della prima trattazione tematica in assoluto della questione dello spazio) “malgrado tutte le differenze di pensare tra il pensiero greco e quello moderno, lo spazio viene rappresentato (…) a partire dal corpo (diventando così qualcosa di calcolabile e misurabile – n.d.t.).”
[12] M. Heidegger, Corpo e spazio, osservazioni su arte-scultura-spazio, Recco: il Melangolo, 2000, p. 31.
[13] Ivi, p.33
[14] Ibidem
[15] Per approfondimenti vedi anche: M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, Milano, Adelphi, 2001, p.54;P. Basile, “Figli del nulla. I giovani e il male di vivere tra nichilismo e buddhismo” AlboVersorio, 2006, p.62
[16] M. Heidegger, Corpo e spazio, osservazioni su arte-scultura-spazio, p. 37.