Comunicare e costruire in prima e terza persona: che significa?
Da un seminario tenuto da Roberto Ferrari presso ISIA, Istituto Superiore Industrie Artistiche – Università di Urbino – a.a. 2008-09.
I progetti
traggono la loro fantasia
dall’ordine.
(Luis I. Kahn)
L’atto progettante in atto
Perché l’esperienza “in prima persona” come base per il progettare consapevole non resti un vago appello ma mostri la sua natura di strumento di conoscenza adeguata, dobbiamo esaminare con precisione quale sia il limite esatto del modello di progettazione oggettivo.
All’origine di ogni progetto sta un atto vissuto; esso è indubitabile – negarlo sarebbe infatti un suo atto. L’atto – che è, in termini fisici energia per tempo – si dispiega e viene organizzato mediante estrazione di invarianti, poi rappresentato uno schema o forma. Operando su quello schema si generano progetti.
Alcuni di questi progetti si rivolgono poi a rappresentare a loro volta – per guidarlo e controllarlo – l’atto progettante stesso, definendolo di volta in volta come un processo neurale, o una interfaccia per programmi da computer, o un prodotto culturale. Si intreccia a ciò che sentiamo. Se lo rinchiudiamo in una definizione, lo stesso atto di definirlo sottostà a un atto progettuale.
Si incontra una circolarità, un anello paradossale ben conosciuto nel campo delle scienze cognitive quando esse affrontano lo studio della esperienza cosciente: se la coscienza emerge in realtà da una serie di processi neurali o computazionali (ma anche se fosse il costrutto virtuale della rete linguistica e delle convenzioni sociali), non possiamo dare realtà neppure a “processi neurali” – né a “rete linguistica” – perché essi stessi sono solo rappresentazioni della coscienza.
Allo stesso modo, se non è collegata all’atto vissuto, il progettare è una narrazione da nessun luogo. Un continuo rimando di rappresentazione in rappresentazione, all’infinito.
Ma l’atto progettante è a monte di tutti i suoi possibili intendimenti, radica nell’irrappresentabile e nel non intendibile, proprio perché in atto.
L’implicazione rilevante di questo fatto è che lo stesso progettista “oggettivante” , facilmente (e più o meno consapevolmente) può finire per percepire se stesso come una auto-narrazione vuota, riducibile a calcoli e simulabile o dipendente da un programma di computer. Se tutto diviene una simile rappresentazione è facile mettere sullo stesso piano il calcolare e il capire, il segno e il suo significato, la sintassi e la semantica. Il passare informazioni con il comunicare significati. L’alloggiare e l’abitare. Il contenitore per riunirsi e il senso di sacro di una chiesa.
Chi progetta è prima di tutto soggetto d’esperienza, e non può prescindere da una riflessione filosofica e scientifica sulla sua più autentica natura e condizione esistenziale.
Riflessione e non astrazione: tornare al qui-ed-ora dell’esperienza significa puntualizzarsi nel luogo in cui accade in noi il sentire di esistere e sorge la domanda sul senso della esistenza. È un convergere in quella a-dimensionalità iniziale che Wittgenstein afferma coincidere con “il realismo puro” cui tutto è coordinato (Tractatus 5.64). Da lì ci si apre come atto verso esiti progettuali. L’esatto contrario del frantumarsi e del dissolversi nella molteplicità delle rappresentazioni, dei codici, dei calcoli.
Educare
Occorre educare nel senso di tirar-fuori (lat. educere) l’atto progettante. È un atto radicato nell’immanenza (il darsi qui-ed-ora) dell’esperienza cosciente, che porta all’immanenza della pratica progettuale. Non si appella ad alcuna teoria – neppure della costruzione di un mondo dalla interazione soggetto-oggetto – o trascendenza. Essendo una modalità pre-teorica non si trasmette con descrizioni o procedure operative ma con una prassi, una pratica ordinata.
In cosa consiste? In estrema sintesi si può partire dall’ ascoltare le condizioni iniziali in atto: spinta interna, tonalità emotive, persuasioni e rappresentazioni. Un ascolto fenomenologico del contesto e delle dinamiche in atto: il campo di forze, le potenzialità, i limiti, i dintorni.
Di tutto ciò il progettista non si fa uno schema, ma vi si immerge, a lungo. Non cerca di ordinarlo perché trova da sé il suo ordine, è “l’energia che crea” di cui parla Luis I.Kahn, nella citazione a conclusione di questo articolo. Il progettista consapevole non resta attaccato ad una unica rappresentazione ma ascolta, domanda, lascia andare. Si concede di restare nella indecisione e non ovvietà dell’esperienza im-mediata. Nel “perché?”.
Durante o dopo questi ripetuti passaggi di fenomeni sorprendenti e indeterminati, nel progettista consapevole avviene la trasformazione in oggetti stabili e codificati – attraverso il processo di estrazione di invarianti: gradualmente il progetto si stacca da lui e assume una speciale determinazione, azione, una forma estetica; infine diventa anche una forma razionale e rappresentata, adeguata a dialogare con la tecnica. Il progetto non si sostituisce alla realtà, non si impone come strumento di donazione di senso, solo sta in accordo con l’esperienza di chi lo genera.
Per questo è importante sviluppare un’educazione al rapporto rigoroso ed esaminato con gli atti d’esperienza. Le tonalità emotive che li accompagnano sono declinazioni di un primo sentire che sorge dall’impatto con il non progettato, ciò che eccede da sé, che non si sopporta e ci spinge verso il progetto che è, in quanto tale, un aprirsi a sempre nuove possibilità. Il progettare è consapevole di sé, sa che all’origine sgorga come atto non-progettato, senza una giustificazione e un senso. Non si immedesima nei rimandi e nelle rappresentazioni ma riceve continui gradi di libertà espressiva dal significato – la non ovvietà di esserci – che lo abita.
L’effetto sarebbe quello di depotenziare la rete di nessi e rappresentazioni, un passaggio che ha molto in comune con il processo creativo. Allora si può valorizzare e rilanciare quella energia che sola genera qualcosa di nuovo originale.
Il progetto consapevole coltiva e rispecchia questa origine dalla non ovvietà, non solo nella riflessione e nella educazione, ma nel suo agire, nella sua etica.
Agire
La domanda di partenza è e resta: cosa fare delle nostre vite? Che senso dare loro? Quale progetto è possibile quando non vi sono altri riferimenti che quelli economico-produttivi? Che rapporto stabilire con il progetto, dal momento che non se ne può prescindere? – perché come disse Bataille “uscire dal progetto, è un progetto”. Sono domande di tipo squisitamente etico.
Già liberarsi da rappresentazioni e idee obbligate ha un grande valore. Nelle parole del filosofo francese Edgar Morin:
“Non dobbiamo mai dimenticare di mantenere le nostre idee nel loro ruolo mediatore è dobbiamo impedire loro di identificarsi con il reale. Dobbiamo riconoscere come degne di fiducia solo le idee che comportano che il reale resiste all’idea. Questo è un compito indispensabile nella lotta contro l’illusione.”
Allo stesso modo anche il rapporto con la tecnica e con le scienze di base può essere più etico: viviamo nella tecnica, ma a tratti la lasciamo a se stessa, riconoscendo che non ci tocca intimamente, che non è in grado di spiegare tutto e tende a produrre paradossi.
In che modo mi corrisponde? In che misura le tecnologie di costruzione o di comunicazione tengono conto del mio sentire?
Infine restare vicini alla propria natura esistenziale fa nascere un obbligo etico. Heidegger scrive:
“Il pensiero che pensa la verità dell’essere come elemento originario dell’uomo in quanto ex-istente è già in sé etica in senso originario“.
E Wittgenstein, cercando di spiegare ai suoi uditori di Cambridge cosa sia un valore etico, si dichiara costretto a ricorrere alla
“mia esperienza per eccellenza… quando ho questa esperienza, mi meraviglio per l’esistenza del mondo… Mi sto meravigliando del cielo, comunque esso sia“.
Per il semplice fatto che sia. Una esperienza di cui dice
“la sua essenza più peculiare è la mancanza di senso … che non posso non rispettare profondamente e che non vorrei mai, a costo della vita, porre in ridicolo”.
Sono tracce, segnali sul percorso verso un’etica del progettare che non coincide con convinzioni, con valori codificati, con doveri morali. Piuttosto è un rispondere consapevole dello stupore e – proprio per questo – uno slanciarsi nell’aver-da-progettare.
Possiamo far nascere il progetto come frutto dell’ordine percepito e vissuto “in prima persona”. E nel contempo mantenerlo connesso con la natura esistenziale di questo ordine da cui prorompe il domandare che non ha risposta: perché?
Nelle parole dell’architetto Luis I. Kahn, che chiama “natura dello spazio” questa forza del domandare esistenziale che chiede il “perché”:
Progetto è dare forma nell’ordine
Forma emerge dal sistema di costruzione
Nell’ordine risiede l’energia che crea
Nel progetto risiedono i significati del dove, del cosa, del quando, con quanto …
Nella natura dello spazio risiedono lo spirito e il volere che ne decretano l’esistere in maniera adatta… il progetto deve assoggettarsi a questo volere.Dalla natura – perché
Dall’ordine – cosa
Dal progetto – comeI progetti traggono la loro fantasia dall’ordine.
Link correlato: Verso un progettare consapevole/1
Riferimenti bibliografici
AA.VV., Neurofenomenologia. Le scienze della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, a cura di M.Cappuccio, Bruno Mondatori, 2006.
Franco Bertossa, I temi fondamentali della meditazione, Centro Studi Asia, Bologna 2003
Franco Bertossa, L’evidenza nascosta, Centro Studi Asia, Bologna 2004
Franco Bertossa, Marco Besa, Roberto Ferrari, Matrici senza uscita. Circolarità della conoscenza oggettiva e prospettiva buddista, in Dentro la matrice a cura di M. Cappuccio, Ed. Alboversorio, Milano 2004.
Roberto Ferrari, Sfere invisibili, all’interno degli habitat animali, catalogo mostra presso Museo della Figurina, Ed. Panini, Modena 2011.
Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Cortina, 2001.
Martin Heidegger, Lettera sull’Umanesimo, Adelphi 2000.
Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, 1995.
Ludwig Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Adelphi, 1967.
Luis I. Kahn, Buoni edifici, meravigliose rovine, Feltrinelli, 2005.