Mostra su Giorgio Morandi al Museo di arte Moderna di Bologna
Sappiamo che il più sicuro – e più rapido – modo di stupirci è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto.
Un bel momento quest’oggetto ci sembrerà – miracoloso – di non averlo visto mai.
Cesare Pavese, Dialoghi con LeucòGiuro che io salverò la delicatezza mia
la delicatezza del poco e del niente
del poco poco, salverò il poco e il niente
il colore sfumato, l’ombra piccola
l’impercettibile che viene alla luce
il seme dentro il seme, il niente dentro
quel seme. Perché da quel niente
nasce ogni frutto. Da quel niente
tutto viene.
Mariangela Gualtieri, da Giuro per i miei denti di latte
Inevitabile nutrire grandi aspettative, mentre ci si dirige al MAMbo di Bologna. La mostra è fra le più complete mai realizzate sulla pittura di Morandi; con più di cento opere esposte, provenienti da Roma, New York, Firenze, Washington e dalle collezioni private di Antonioni, Roberto Longhi, De Sica, l’arte del Maestro promette d’essere valorizzata come raramente lo è stata prima d’ora. E non a caso il titolo dell’esposizione riprende le date di nascita e morte dell’artista: visitando le otto sale a lui dedicate è davvero possibile cogliere l’anima della sua vita artistica, interamente dedicata a cogliere ed esprimere il segreto del reale. Perché la pittura di Morandi è innanzitutto il ‘quasi nulla’ cui si riduce l’esistente, se colto privo dei significati posticci che gli attribuiamo.
E’ forse questo il merito principale dell’esposizione, curata da Maria Cristina Bandera e Renato Miracco: l’occasione rara di ripercorrere le tappe di una ricerca d’arte – e quindi prima di tutto interiore – che ci porta a esplorare le pieghe del vero, l’ineffabile semplicità di ciò che c’è. In Morandi, poi, come in tutti i grandi dell’arte figurativa, tale ricerca diviene essa stessa ragione di stupore: si ha l’impressione di avere davanti a sé il concretizzarsi di un impeto (quello artistico, appunto) sorprendente quanto i capolavori che dà alla luce, perché altrettanto misterioso… E’ manifestamente presente una spinta al dire che cerca la propria strada sin dalle tele degli anni Dieci e Venti, che hanno il respiro di Cézanne, del Cubismo, di De Chirico e Carrà. Si assiste al primo cercare, al primo afflato che prova a dirsi, inizialmente anche con parole altrui: uno sguardo che coglie ‘qualcosa’ in ciò che vede attorno a sé, ma che è ancora impegnato a interpretarlo; i quadri ispirati a De Chirico, in particolare, propongono una visione ‘ghiacciata’, ferma in un enigma in cui tuttavia la mente di chi osserva ha ancora spazio, ha ancora presa in un non so che le rimane malgrado tutto comprensibile. Al contrario di ciò che accadrà nelle tele morandiane dalla fine degli anni Quaranta in poi, qui si percepisce ancora nettamente la divisione fra opera e osservatore, il quale, nonostante avverta chiaramente il mistero, si sente più che mai protagonista nel tentativo di decifrarlo.
Il passaggio da oggetto a presenza avviene per Morandi negli anni Trenta, anche se già in precedenza (si vedano ad esempio i due autoritratti del ’24 e del ’25) l’artista aveva accennato, in termini heideggeriani, al darsi e al negarsi dell’ente: l’affinamento dello sguardo dell’artista è particolarmente visibile nella sala dedicata ai fiori, in cui si passa dall’evanescenza degli anni Venti a un progressivo concretizzarsi della forma, che trova diverse soluzioni. Per le bottiglie e i barattoli degli anni Trenta e Quaranta, Morandi passa da colori piatti e forme stilizzate, quasi senza profondità, a sfumature più articolate, che tendono a rendere agli oggetti la loro fisicità; essi sono protagonisti indiscussi della tela, tanto da occuparne talvolta quasi l’intera lunghezza, e però sembrano imporsi suggerendo una dimensione più stranente che affermativa.
La stranezza prende il sopravvento in alcune opere dei primi anni Quaranta: le conchiglie e gli altri oggetti sono ritratti in quanto non più loro stessi, ma come forme che solo suggeriscono un’essenza incerta; ci si ritrova immersi in uno stato di domanda più netto, meno delicato in rapporto a tele degli stessi anni, in cui lo strano emana chiaramente la propria luce arcana, senza però dominare. La distanza tra quadro e fruitore, ormai, si è evidentemente ridotta: ora è l’opera ad imporsi, in un costante dialogo (decisamente accentuato nei quadri in cui lo strano è protagonista più esplicito) fra il soggetto della tela e il soggetto osservante.
Il medesimo percorso pare delinearsi contemplando i paesaggi, in cui si passa dalla mancanza di riferimenti nella fitta vegetazione degli anni Venti alla stessa misteriosa presenza delle nature morte riconoscibile nei paesaggi degli anni Quaranta – per lo più le case di Grizzane e i prati circostanti: scorci quasi banali, scarni, ma estremamente potenti nella loro ‘pochezza’.
Dalla fine degli anni Trenta è quindi riconoscibile, in Morandi, una sorta di ‘messa a fuoco’ degli oggetti, che paradossalmente sembra precisarne nient’altro che l’impenetrabilità: accanto alla maggiore concretezza di bottiglie e tazzine, le loro ombre paiono talvolta avere uguale consistenza… S’impone l’esserci delle cose, affermativo ma al contempo non definitivo. E tuttavia, malgrado queste tele lascino aperta la domanda in cui l’osservatore si trova a galleggiare, risultano ancora ‘popolate’ dagli oggetti ritratti: il loro darsi all’esperienza è simile a un brusio di fondo, un rumore discreto ma presente, per quanto sprigioni dall’immobilità.
Nelle opere morandiane il silenzio scende con gravità solo alla fine degli anni Quaranta. La svolta è evidente: la quantità dei modelli si riduce, spesso gli oggetti sono decentrati e i loro colori si avvicinano a quelli chiari e freddi dello sfondo, che diventa il vero soggetto della natura morta; è infatti lo spazio vuoto a ‘lasciar essere’ gli oggetti, a permettere che vibrino di quel mistero che nelle tele degli anni precedenti sembrava ancora dirsi e non darsi, senza cioè spiegarsi in tutta la sua inquietante forza. Qui il vuoto alle spalle di bottiglie e barattoli permette loro discretamente di apparire, come tratti di gesso su una lavagna intonsa; oggetti ed ombre possono tornare ad essere se stessi: la loro singolarità non sta più nella forma, nel loro ‘come’, ma nel semplice fatto che appaiono, che esistono, rivelato nella sua intrinseca sconosciutezza dallo spazio vuoto dietro ai modelli. E’ il vacuo su cui si stagliano a consegnare gli oggetti all’esperienza dell’osservatore.
E l’intensità di tale esperienza è impressionante: non c’è più dialogo tra la mente del fruitore e la tela, bensì l’unico, muto apparire, non già dell’una attraverso l’altra (come ancora nei quadri degli anni Trenta), ma di un Tutto. Non c’è più alcun bisbiglio di fondo, per quanto discreto, né alcun rimando a pensieri che possano dare ragione di quell’apparire: un profondo e assoluto silenzio, lo stesso emanato dalla tela, si posa in fondo a chi guarda, come se il quadro rivelasse una verità che trascende il dualismo ‘soggetto/oggetto’, che riguarda osservatore e osservato… Che coinvolge, in altre parole, “l’ente nella sua interezza” (M. Heidegger).
Le opere degli anni Sessanta (in cui talvolta gli oggetti formano un’unica massa dai contorni difficilmente distinguibili) testimoniano quanto in Morandi fosse ancora viva la spinta alla ricerca, e quanto ancora – pur avendone sondato le profondità più segrete – ciò che esiste fosse per lui fertile materia di studio; ora non si tratta più di ‘oggetti’ o ‘forme’: nelle ultime tele e negli acquarelli è secco il rimbalzo a sé del fruitore, orfano ormai da tempo dell’appoggio ancora intellettualistico degli studi giovanili. Gli acquarelli sono sorprendentemente prossimi all’arte di Mark Rothko, ma spogli dell’emotività dei suoi colori: inquietudine e incantamento sono le sole sfumature del sentire che questi piccoli capolavori ci concedono. A ben guardare somigliano ai primissimi tentativi di rendere la pura presenza, in cui gli oggetti erano ridotti a colori uniformi, privi di profondità: l’intuizione alla luce della quale Morandi ha esplorato il reale è stata dunque la stessa lungo tutto il suo ricco percorso, ma da queste ultime opere traspare fino a che punto il niente, emerso con la sua forza ipnotica nelle tele di dieci anni prima, abbia scavato, ripulito, denudato quell’intuizione originaria.
I quadri degli ultimi anni tornano talvolta all’indefinito: Morandi dipinge semplicemente ciò che vede, che si mostra all’esperienza del momento, rispettando con onestà le voci del reale. L’ultima tela, dipinta poco prima della morte, esprime un cercare che si rilancia senza sosta, e che sembra promettere sviluppi che il sopraggiungere della morte del Maestro gli/ci ha negato: l’opera propone tre oggetti, di cui uno quasi fuso con lo sfondo, mentre gli altri due, dalle tonalità fredde, sembrano esistere soltanto in virtù del proprio gelo. Come in altri quadri di questo periodo, contemplandolo si nota come spazio vuoto e parte degli oggetti siano ormai compenetrati, pur conservando l’aspetto stranente nel parlare sommesso dei colori.
Scrive Morandi in una lettera del ’62 a Lamberto Vitali: “Di tutto resta una bottiglia bianca”. Il privilegio di contemplare l’arte del pittore bolognese, con l’occasione di un’esposizione di così largo respiro, significa esplorare in se stessi la profondità di una simile affermazione, lasciando che gradualmente si allontanino le nostre più profonde convinzioni sull’esistenza (nostra e di un mondo oggettivo), perdendoci così “nel grande silenzio di queste lontananze” (R.M. Rilke).