Fernanda PivanoFernanda Pivano si è spenta martedì 18 agosto in una clinica privata di Milano. Scrittrice, saggista,  traduttrice, giornalista, musa ispiratrice di molti dei più grandi autori del Novecento americano e non, il 18 luglio aveva compiuto novantadue anni. La piangono tutti coloro che l’hanno conosciuta personalmente, i suoi affezionati lettori (negli ultimi anni numerosi anche fra i più giovani) e tutti coloro che, consapevoli di un panorama culturale nazionale sempre più deprimente, dicono addio a uno dei simboli di un modo di pensare l’arte e la cultura che, disgraziatamente, in questo Paese non usa più.

Genovese di nascita, la Pivano studia a Torino; compagna di Primo Levi e allieva di Cesare Pavese, sarà quest’ultimo a iniziarla alla lettura degli autori americani, facendole conoscere, fra gli altri, l’Antologia di Spoon River: lei ne è rapita, e subito si cimenta con la traduzione di Edgar Lee Masters; comincia così il viaggio (suo e dell’Italia che sarà) alla scoperta della letteratura d’Oltreoceano. Fernanda si laurea in pieno conflitto mondiale, con una tesi su Moby Dick. Il suo primo viaggio negli States è del 1956: all’epoca aveva già conosciuto Hemingway, delle cui opere sarebbe diventata la maggiore curatrice italiana; da quel momento traghetterà instancabilmente nel Belpaese la linfa letteraria dell’intera Beat Generation, da Jack Kerouac a Gregory Corso, da Laurence Ferlinghetti ad Allen Ginsberg, ma anche la freschezza delle pagine di Francis Scott Fitzgerald, Dorothy Parker, William Faulkner. Con lucidità critica e genuina passione per prosa e poesia, la Pivano coglie il meglio dell’arte letteraria americana dell’epoca, lo traduce e, una volta in patria, si batte con determinazione e lungimiranza perché venga diffuso, fino ad arrivare agli anni Ottanta e ai Minimalisti, dei quali – come lo è stata per i Beat – diventa anche confidente e consigliera.

Un’intera vita dedicata a scovare e condividere la bellezza di pagine e versi capitali sarebbe sufficiente a suscitare la gratitudine di chi, conscio dell’importanza della poesia in ciò che chiamiamo “esperienza  umana”, sia in grado di apprezzare adeguatamente il grande dono di Nanda. Eppure tale dono va ben al di là del paziente tentativo di strappare la parola tradotta alla sua intrinseca imperfezione, come va al di là della lotta coraggiosa contro un pensiero critico vuoto e polveroso, arreso a un concetto di poesia comodo perché finto. Fernanda Pivano ci ha portato soprattutto un pensiero sull’arte libero, spalancato sul semplice darsi della parola poetica, radicato in un sentimento del sacro che sopravvive alla morte di tutti gli idoli, e che quindi sa guardare con acume e consapevolezza tutto ciò che sfugge alle griglie scricchiolanti dell’abitudine; un simile pensiero sull’arte riesce a riconoscere quest’ultima e la celebrarla anche quando è spoglia delle consuetudini più rassicuranti, anche quando veste il linguaggio degli iniziati.

Guidata dal proprio pensiero artistico, Nanda ha saputo vedere la grandezza dei cantautori, statunitensi e italiani, con notevole anticipo su un’accademia impegnata a chiedersi angosciosamente se la poesia fosse ancora tale quando accompagnata dalla musica. Ma ha saputo anche nutrire la propria visione del mondo (al di là delle questioni letterarie) ripulendola dalle ideologie, perché la non violenza che propugnava insieme ai Beat s’incarnasse innanzitutto in un modo di essere, e non fosse soltanto una bandiera; ha saputo umanamente distinguere, negli artisti che ha amato e che l’hanno amata, l’intensità dell’inquietudine esistenziale e il male di vivere autodistruttivo, sempre senza giudicare il secondo, guidata dal rispetto e dall’amicizia. In ultimo, quello della Pivano è stato uno sguardo che sapeva accogliere, non fagocitare, in grado di criticare lucidamente, non semplicemente di denigrare o osannare, capace di un domandarsi sempre meravigliato e penetrante, non di un mero diffidare di ciò che è nuovo; uno sguardo interrogante e sempre umile al cospetto della poesia e della sofferenza umana, lontano dall’atteggiamento ansioso di chi, al brivido pieno di promesse della domanda “Che cos’è poesia?”, preferisce il tranquillizzante adagio del quesito: “Com’è fatto un sonetto?”.