Kiran Bedi è nata il 9 giugno 1949 a Amritsar, nella regione del Punjab. Dal 1º maggio 1993, è Ispettore Generale Carcerario di Tihar, nella capitale dell’India, New Delhi.
La Bedi è stata la prima donna indiana a guadagnarsi una posizione di prestigio all’interno del Servizio di Polizia del proprio Paese, nel 1972; e nel 1997 divenne il primo ufficiale di sesso femminile di tutta l’India. La sua attività nel corpo della polizia nazionale è stata molto varia: dal Distretto di Polizia all’Amministrazione, dal Controllo del Traffico al settore Narcotici, fino alle operazioni anti-terrorismo. Attualmente, collabora anche con le Nazioni Unite.
La carica di Ispettore Generale Carcerario ha condotto Kiran Bedi ad una esperienza personale e professionale, fondamentale. Una vera e propria svolta, contraddistinta dallo scontro tra il duro mondo del carcere e l’antica compassione religiosa che permea la filosofia e la tradizione indiana.
Il penitenziario di Tihar è uno dei più grandi del mondo e contiene al suo interno più di 10.000 detenuti; dal sito internet ufficiale del carcere riportiamo (in traduzione) i seguenti dati riguardanti il profilo nel dettaglio dei detenuti (aggiornati al 30 Settembre 2008):

Statistiche & Classificazioni della popolazione carceraria
(al 30 Settembre 2008)

Capacità Totale Popolazione carceraria
M F Totale M F Totale
5850 400 6250 11375 482 11857

Classificazione dei detenuti in base alle fascia d’età
(al 30 Settembre 2008)

Maschi Femmine
18-21 anni 1287 29
22-39 anni 5941 118
31-50 anni 3602 269
51-65 anni 490 57
Più di 65 anni 55 9
Totale 11375 482
TOTALE 11857

Detenuti stranieri
(al 30 Settembre 2008)

TOTALE 499

Stando alle cifre riguardanti gli “ospiti” del penitenziario e alla superficie occupata da questo, possiamo affermare di star parlando di una vera e propria città con i suoi quartieri, vie, periferia e centro. Probabilmente, nessuno di noi può realmente immaginare che cosa debba essere la vita in un luogo simile, né tanto meno può immaginarsi che cosa possa significare organizzare un penitenziario di tale dimensione. Kiran Bedi si trovava nella nostra stessa condizione, prima di occupare il ruolo, per molti scomodo, di Ispettore Generale di Tihar.

Mi trovavo là per fare di quel posto un luogo decente, abitato da esseri umani; sono una donna poliziotto, ma ho anche una natura religiosa, e credere nel sovrannaturale ha costituito una fonte enorme di forza e di conforto durante le ore di meditazione, nel corso della mia carriera. Quindi, dopo aver formulato una breve preghiera, sono salita sulla poltrona rimasta vacante per così tanto tempo.[4]

Kiran Bedi come donna, Ispettore Generale e come devota, si ritrova a dover fronteggiare un duro lavoro: restituire dignità ad un luogo di pena e sofferenza confusa. Troviamo nella Bedi coraggio e determinazione. La calma e la quiete interiore che la caratterizzano si determinano da subito come fonte di una possibile politica d’azione nel carcere di Tihar. Fin dai primi giorni del suo incarico, la Bedi, si preoccupò di verificare e valutare in prima persona le reali dimensioni delle problematiche presenti all’interno dei settori di sua competenza. Le visite, che fece accompagnata dalle guardie all’interno delle mura carcerarie, le restituirono una visione tragica e spietata delle condizioni di vita di migliaia di individui.
Uomini e donne incapaci di dialogare, stanchi, affamati, logorati dall’ozio a cui la prigionia costringeva, perduti. La prima volta che la Bedi fece visita ai detenuti di sesso maschile chiese loro: « Pregate? […] Non sarebbe meglio se noi dicessimo una preghiera insieme? Vi piacerebbe?»[5].
Quel noi e quella domanda, segnarono l’inizio di un cambiamento nella vita della prigione, si evidenziò infatti, la possibilità di un dialogo e scambio reciproco di cui soltanto ora, possiamo cogliere l’effettiva portata rivoluzionaria. Quel senso del sacro, evocato da quella semplice preghiera recitata insieme, nutriva la possibilità di riaprire i giochi, anche dove la condizione umana sembrava al limite di se stessa.
Proseguendo nell’indagine, Kiran Bedi trovò nel reparto delle detenute un’atmosfera diversa rispetto a quella dell’area maschile; le donne erano abbandonate a loro stesse, prive di organizzazione e stimoli. La Bedi promise loro fin dal primo giorno, che sarebbe stato suo preciso compito quello di occuparsi della loro crescita interiore all’interno del carcere e della loro istruzione elementare (leggere, scrivere) e che nessuna, sarebbe uscita così come era entrata dalla prigione.
«Molto bene, qui studieremo e, prima di andarvene, saprete leggere e scrivere.
Applaudirono eccitate [le detenute].»
.
Ancora la Bedi: «La mia preghiera con gli uomini mi diede la gioia di veder rinascere la speranza e di essere accettata; con le donne, qualcosa mi si lacerò dentro: ero stata “imprigionata”, Tihar stava diventando il mio destino»[6].
Come molte persone, conosceva soltanto l’immagine che la società restituiva dell’ambiente carcerario, non aveva mai potuto sondare in prima persona le condizioni di vita dei detenuti; in quella occasione, la Bedi, si rese conto del divario apparentemente incolmabile tra l’esperienza del carcere e la visione esterna di tale esperienza.
Era necessario, ai suoi occhi, un intervento concreto e immediato, per restituire umanità a quelle migliaia di persone che l’immaginario collettivo aveva relegato nell’oblio.
La collettività, così come il governo, non era interessata al carcere se non come strumento di “nascondimento”, gestione momentanea del “problema-criminalità”. Più le problematiche venivano occultate e più queste emergevano.
Nessuno prendeva in considerazione quella zona-buia (il carcere, appunto), come un luogo da
ripensare, rivivere, da dentro le sue mura.
Che cosa significava per un essere umano sperimentare la costrizione per lungo tempo?
Cosa significava vivere alla luce di un crimine o di un atto moralmente inaccettabile dalla società?
Cosa significava vivere nel rimorso o nella rabbia? Cosa significava quella rassegnazione passiva e quell’apatia? Come la noia, vissuta dalla maggior parte dei carcerati, poteva diventare fonte di indagine per loro stessi?
La Bedi vide in Tihar il suo destino, perché comprese sin dal primo colloquio con i carcerati, che vivere l’esperienza del carcere, non dovrebbe essere sinonimo di dis-umanità, ma proprio nella più tragica delle condizioni offrire la possibilità di conoscere meglio se stessi e di potersi indagare.
Il carcere di Tihar stava mostrando il suo grido, la sua domanda ad una donna, capace di accoglierlo e sostenerlo.
Kiran Bedi decise di affrontare da subito una delle questioni più spinose del carcere: l’isolamento.
I detenuti erano vittime inerti dell’ozio carcerario, l’iniziativa personale era inesistente e scoraggiata, il tempo veniva vissuto come “vuoto”, senza poterne riconoscerne il valore.
L’apatia, paradossalmente, era la prima chiave per entrare nella vita dei detenuti del carcere di Tihar e poterli coinvolgere, per questo la Bedi promosse la politica delle “tre C”[7].
“Tre C” come:

  1. CORREZIONE
  2. COMUNITÀ
  3. COLLETTIVITÀ

Questo programma necessita un approfondimento, in quanto da solo è stato ingrando di determinare il successo e la popolarità dell’intervento della Bedi a Tihar, oggi è chiamato “il metodo Kiran Bedi”.Vediamo nel dettaglio gli obiettivi elencati:

1. Correzione prevede una pratica mirata al risveglio sul significato del nostro stesso esistere. Dobbiamo ricordare che in India, la meditazione, la preghiera e la devozione religiosa in genere, sono profondamente radicate nella storia e nella tradizione del Sub-Continente.
Secondo la Bedi, il detenuto dovrebbe recuperare quella dimensione interiore sottovalutata durante la vita carceraria (e spesso anche prima del carcere) al fine di rivalutare se stesso, per riscoprire la dimensione sacra della sua “umanità”. La logica dell’esclusione e dell’isolamento, prodotte dalla quotidianità carceraria vanno combattute attraverso una Via[8] antica, conosciuta e praticata nel mondo indiano e orientale: vipassana[9].
Vipassana è un termine dell’antica lingua indiana pali (in sanscrito vipaúyana) che significa “vedere le cose in profondità, come sono realmente”, “penetrazione intuitiva”. Questo particolare tipo di meditazione fu insegnata da Siddharta Gautama[10], il Buddha storico, più di 2500 anni fa. Il Buddha insegnò vipassana come “metodo” per uscire dalla sofferenza e come via per la Liberazione; possiamo attingere al suo antico insegnamento facendo riferimento al “Discorso sulla pratica del Rammemoramento” (Sati-Paṭṭhâna-Sutta, in sanscrito Smṛty-Upasthâna-Sûtra)[11].
Lo scopo, se così possiamo chiamarlo, di questa pratica è quello di sviluppare la consapevolezza assoluta (sati) di ciò che si fa, si pensa, e riguardo l’intima verità della coscienza stessa.
Vipassana può essere inteso, anche come un metodo di auto-disciplina; profondamente tale pratica conduce, se supportata e motivata da una ricerca sincera da parte del praticante e da un bisogno di verità, al riconoscimento dei puri e semplici elementi della realtà (dharma, fenomeni), inclusa la coscienza, come non-essenziati. Che cosa significa non-essenziati? La loro “irreversibile inconsistenza” (úunyâtâ, vacuità) può essere riconosciuta solo andando al fondo della questione, cogliendo l’infondatezza di Tutto. Oggi diremmo, con una terminologia più vicina a noi, che solo “incontrando” il significato di niente, davvero saremmo in grado di comprendere l’indicazione del Buddha, ricordando di avere a che fare con un’esperienza e non con un mero discorso. Cosa significa davvero “niente”? Qual è la ragione profonda dell’esistenza? Cosa significa “esistenza”? Cosa significa che tutto c’è, che io ci sono, invece che non esserci, invece che niente?
Questo riconoscimento, questo domandare-abbandonato è la premessa, della bodhi (Risveglio, Illuminazione). Nel Sati-Patthâna-Sutta, il Buddha indica i seguenti momenti della pratica vipassana:

  • contemplazione del corpo
  • contemplazione del sentire
  • contemplazione della coscienza
  • contemplazione degli oggetti mentali (comprendente i cinque ostacoli; i cinque aggregati della personalità, soggetto di adesione al mondo; le sei facoltà interne e le sei facoltà esterne; i sette fattori di Illuminazione; le quattro nobili Verità).[12]

Kiran Bedi cercava da tempo una pratica che riuscisse a liberare i detenuti dalle loro emozioni più corrosive, che rispondesse alle domande nate all’interno delle mura carcerarie recuperandone la loro significatività: vipassana sembrava proprio mirare al centro di tale obiettivo. Nelle carceri di Jaipur (Rajasthan) e Baroda (Gujarat) era già stato sperimentato un corso di meditazione con risultati estremamente positivi, sia per la comunità carceraria che per il responsabile del corso Ram Singh[13].
Il corso di vipassana ebbe inizio il 22 Novembre del 1993. Ram Singh e i suoi collaboratori rimasero nel carcere per tutta la durata del corso, affrontando le problematiche connesse alla loro presenza all’interno del nucleo dei detenuti: minacce, ribellioni, sconvolgimenti delle regole legate alla pratica meditativa; ma la loro determinazione ebbe la meglio sui carcerati.
I risultati furono sorprendenti ed in pochissimo tempo molti dei volontari si dichiararono felici dell’esperienza meditativa. Alcuni detenuti manifestarono la loro intenzione di approfondire la pratica vipassana e chiesero di poter usufruire nuovamente del corso. Addirittura i membri più coriacei del carcere si dovettero arrendere di fronte all’innegabile beneficio dovuti alla meditazione. Kiran Bedi aveva finalmente trovato il modo per trasformare il carcere di Tihar da “inferno” ad “Ashram” (luogo di raccoglimento e preghiera)[14], anzi potremmo dire che proprio quella situazione “infernale” offriva tutte le possibilità per una profonda pratica, se accompagnata da una sincera domanda. Le richieste dei detenuti e l’entusiasmo della Bedi produssero una lenta e magica trasformazione che raggiunsero il culmine nella giornata del 4 Aprile del 1994: ben 1.000 carcerati appartenenti a differenti religioni (induisti, mussulmani, sikh, buddisti, cristiani), per più di un terzo analfabeti, alcuni di loro stranieri (uomini e donne di diversi Paesi tra i quali Afghanistan, Australia, Canada, Francia, Germania, Italia, Senegal, Nigeria, Somalia, Sri Lanka, Tanzania, Regno Unito) parteciparono al corso di vipassana più imponente della storia dell’India contemporanea.
Il guru Goenkaji, il quale aveva guidato le meditazioni e risposto alle domande dei praticanti, denominò il carcere “Dhamma Tihar” ( con Dhamma, Dharma è inteso l’antico insegnamento del Buddha e come “le cose come stanno”; qui il titolo onorifico è da intendere come: “Insegnamento a Tihar”) e il 15 Aprile 1994 inaugurò una incisione su marmo per ricordare il successo dell’evento.
Questo esito positivo raggiunse ben presto i centri di amministrazione governativa e lo stesso Ministero degli Interni indiano si interessò al caso, al fine di avanzare proposte simili nelle altre prigioni dell’India.
«L’effetto della meditazione vipassana fu fenomenale; tutti ne ebbero beneficio. Il corso ripulì le anime e distribuì magnanimità e nobiltà. Nell’arco di pochi mesi, la meditazione vipassana diventò parte integrante di Tihar Ashram.
Quando arrivai, nel maggio del 1993, ci eravamo prefissi lo scopo di trasformare il carcere in un ashram[15] (vedi fig.1), cioè in un’istituzione che promuove la pratica dell’introspezione in tutti coloro che la compongono, menager compresi. La mia personale convinzione è che ci sono delle mansioni che non rappresentano un lavoro qualsiasi, ma una vera e propria missione per costruire il futuro, ne uscì più che mai rafforzata. »
[16].

2. Comunità intende invece la creazione di un consiglio dei tenuti, una sorta di Panchayat (il tradizionale consiglio di villaggio/comunità indiano), al fine di stimolare lo spirito di coesione e iniziativa degli individui ospitati entro le mura di Tihar. Questo consiglio, denominato dalla Bedi “sistema coperativo dei detenuti” entrò in vigore ufficialmente il 26 giugno 1993. Vennero costituiti numerosi panchayat, mirando alla soddisfazione delle esigenze e richieste di tutti i detenuti e operatori del carcere. Ognuno doveva portare il proprio contributo, personale carcerario compreso. L’obiettivo principale era quello di incoraggiare i detenuti a prendere parte volontariamente all’organizzazione delle attività, migliorando di conseguenza l’aspetto disciplinare del carcere. Incentivando l’auto-gestione si cercava di combattere contemporaneamente sia l’apatia creatasi nei reparti sia l’isolamento e la mancanza di dialogo. Di fronte alla possibilità concreta di attuare dei panchayat all’interno del carcere i detenuti risposero in maniera entusiasta.

Il 9 Dicembre del 1993 ( a soli cinque mesi dalla loro ideazione) a Tihar figuravano ben undici panchayat di differente carattere.
Kiran Bedi e i suoi collaboratori erano in continua ricerca di idee e suggerimenti per migliorare il servizio e l’organizzazione carceraria, per questo decisero di adottare anche il metodo gandhiano di shram daan (lavoro o servizio volontario). I carcerati, che fino a quel momento si erano sempre visti esclusi dalla gestione del penitenziario, e dalla organizzazione del loro stesso tempo di detenzione, si trovavano ora nella condizione di poter promuovere attività lavorative e promozionali capaci di rivoluzionare il rapporto carcere-detenuto.
Durante lo shram daan ad esempio, i detenuti dovevano pulire e riordinare le loro baracche, le celle e i cortili delle varie aree di Tihar; soltanto alla fine del lavoro delle squadre di ispettori attribuivano un punteggio di valutazione del compito svolto, sensibilizzando quindi i carcerati ad un maggior impegno.
Il sistema di auto-organizzazione dei detenuti forniva un esempio di auto-governo in condizioni difficili; l’esperimento adottato da Kiran Bedi mostra come il sostegno da parte delle autorità e l’incentivazione della consapevolezza individuale e collettiva possano di fatto costituire il supporto necessario allo sviluppo sociale e personale.

3. Collettività è un obiettivo che riguarda in maniera particolare il rapporto “dentro-fuori” il carcere. Il detenuto vive la società (il “fuori”) in maniera negativa, ostile; spesso questo sentimento di esclusione dalla collettività conduce gli individui incarcerati a covare aggressività, e violenza. Il carcere in una qualche maniera, influirebbe ad aumentare proprio ciò che cerca di epurare: il risentimento.

Kiran Bedi si propose di aumentare lo scambio e l’incontro tra il carcere e la società, permettendo a numerose associazioni di volontari di entrare nelle mura di Tihar e lavorare con i detenuti, costruendo progetti utili alla futura reintegrazione nella società. L’ingresso della comunità esterna era quanto mai necessario al fine di ripristinare un equilibrio tra il vissuto del carcerato e l’idea socialmente costituitasi del carcere come luogo di esclusione.
I giri di ronda[17], le lettere pervenute alla cassetta delle petizioni[18], i resoconti dei vari panchayat evidenziavano all’unisono la necessità impellente dei detenuti di esprimere la loro potenzialità umana repressa proprio dal rigido e sterile regime di vita carcerario. L’obiettivo di Kiran Bedi era quello di usufruire proprio di quella volontà di rinnovo dei detenuti e riuscire a stringere collaborazioni con associazioni esterne all’ambiente carcerario.
Non trascorse molto tempo da quando qualcuno accolse il messaggio della Bedi, la prima organizzazione a bussate alla porta del carcere di Tihar fu: Brahma Kumaris[19]. Brahma Kumaris (World Spiritual University) è un’organizzazione molto nota in India per le sue opere di bene a favore del prossimo.
Le donne che operano come volontarie per l’organizzazione sono solite vestire con un sari[20] bianco e si presentano a tutti come vegetariane e promotrici di una giusta regola alimentare. «Per la società, la Brahma Kumaris spiccava come simbolo di semplicità, di purezza nei pensieri e nei fatti, di pace e non violenza»[21].
Le volontarie entrarono a contatto con i detenuti, soprattutto quelli in attesa di processo ed insegnarono loro ad osservare momenti di “totale silenzio interiore” (attingendo alle tecniche dello yoga e della meditazione) e si occuparono principalmente della cura di tre aspetti generali ed essenziali per la vita carceraria:

a) igiene personale
b) respirazione profonda e yoga
c) esercizi fisici e mentali per mantenere una buona salute

Le visite delle volontarie dell’organizzazione con il tempo si intensificarono e riuscirono a fornire un servizio continuativo e proficuo all’interno delle mura del carcere.
L’ingresso della comunità esterna all’interno del programma riabilitativo di Tihar, promosso da Kiran Bedi, prevedeva la risoluzione di numerose problematiche.
L’impegno delle comunità nell’assolvere alle responsabilità sociali era rivolto alla formazione di: gruppi per l’educazione morale e per il sostegno ai detenuti; gruppi femminili per la necessità delle detenute e dei loro figli; gruppi sanitari per la salute dei detenuti; organizzazione e rifornimento per le festività di tutte le religioni; educatori ed insegnanti a tutti i livelli; gruppi di protezione dell’ambiente; assistenza legale per i bisognosi.
All’educazione morale e spirituale dei detenuti contribuirono molte associazioni, così come alle attività di promozione di arte e cultura[22].
Kiran Bedi è la protagonista del cambiamento avvenuto entro le mura di Tihar, una vera rivoluzione che ha trasformato il carcere più grande dell’Asia in un luogo di meraviglia e riscoperta esistenziale:

«Le prigioni sono luoghi di pena, ma spesso dimentichiamo che servono anche a preparare la libertà. Una prigione è come un fiume che scorre, in cui uomini e donne vanno e vengono.[…] Sono convinta che quando il carcere non prepara i detenuti al loro rilascio, diventa esso stesso uno strumento destabilizzante per la società»[23].

A cura di Silvia Siberini
Centro Studi ASIA

Note:
[1] Tihar è il carcere più grande dell’India e si trova nella capitale, Delhi.
[2] Presso il “peacekeeping departement”dell’ONU.
[3] Tihar on-line: www.tiharprisons.nic.in
[4] K. Bedi, La coscienza di sé. Le carceri trasformate. Il crollo della recidiva, Giuffrè, Milano, 2001.Il titolo originale dell’opera è: It’s always possibile. Trasforming one of the largest prisons in the world.
[5] K. Bedi, ibidem, p. 11.
[6] K. Bedi, ibidem, p. 13.
[7] Riguardo il programma denominato “tre C” troviamo dei riferimenti on-line in lingua italiana, in particolar modo negli articoli di M.Mirella, S.Vecchia e del dott. F.Centone (i contributi in lingua inglese sono numerosi così come quelli in hindi; al fine di rendere agevole la consultazione del materiale di interesse per questa ricerca riporto a seguito i siti internet di maggior interesse: www.kiranbedi.com; www.solidarity_mission.it/Tijar_India.htm).
[8] Via intesa come percorso spirituale.
[9] Nel Capitolo 9 “La meditazione Vipassana e la magica trasformazione”, Kiran Bedi approfondisce la profonda rivoluzione attuatasi all’interno delle mura del carcere di Tihar, grazie all’introduzione e alla riscoperta da parte dei detenuti della meditazione e del “sentimento del sacro”. Il tempo non veniva più vissuto come “vuoto” e privo di valore, ma come occasione/possibilità di risveglio coscienziale.
[10] Siddharta Gautama (“Colui che ha raggiunto lo scopo”, “il discendente di Gotama”) nacque a Kapilavastu, una cittadina a nord di Varanasi, attorno al 563 a.C. Suo padre Úuddhodana, era un principe della stirpe guerriera (kṣatriya) degli Úâkya. La nascita del principe Siddharta fu annunciata, secondo la tradizioni, da diversi segni premonitori. Una settimana dopo il parto la madre Mâyâ-devî muore (proprio come la previsto dalle premonizioni), e il bambino venne affidato alle cure della zia Mahâprajâpatî. Alla sua nascita i sacerdoti e i veggenti riconobbero nel corpo di Siddharta i varii segni (lakṣana, anuvyañjana) che indicavano nel bimbo che egli sarebbe divenuto un “Volgitore della Ruota” (cakra-vartin) o un Buddha. Per Buddha ,infatti non si intende soltanto il Buddha-storico, ma con questo appellativo si è soliti chiamare una serie di esseri umani superiori, che hanno il compito di rivelare, ad ogni ciclo storico, la dottrina salvifica del Dharma (adatta alle esigenze storiche di quel tempo). Buddha significa letteralmente “Svegliato”. Nel “Sutta Nipata” si narra di quando nel tempio degli Úâkya venne presentato il piccolo Siddharta, il sacerdote Asita ne riconobbe subito i segni dell’”Uomo cosmico-archetipo” e pianse perché l’età avanzata non gli avrebbe concesso di ascoltare gli insegnamenti di quel futuro Buddha. Questo episodio ricorda quella riferita dal Vangelo di Luca (2,25-36), dove si narra del levita Simone che quando vide Gesù pianse si gioia per aver visto il futuro Messia.
[11] Nell’introduzione al Canone Buddista (Canone Buddista, Discorsi Brevi, a cura di Pio Filippani-Ronconi, Utet, Torino, 1976), Pio Filippani – Ronconi dice a proposito del Sati-Paṭṭhâna-Sutta: “…è forse la disciplina fondamentale del Buddismo primitivo, il controllo della mente e lo sviluppo dell’attenzione sono la conditio sine qua non per la bodhi (il Risveglio). Ecco le parole del Buddha a questo proposito: «L’attenzione è il sentiero conducente all’immortalità, la disattenzione è il sentiero della morte; gli attenti non muoiono, i disattenti sono come già morti. Costoro che sono già esperti nell’ [esercizio dell’] attenzione, avendo ciò chiaramente conosciuto, gioiscono di essere attenti, rallegrandosi di appartenere agli Eletti. Questi uomini, forti, meditanti, costanti, sempre pieni di energie, sperimentano l’Estinzione, la Suprema Beatitudine. Cresce la gloria dell’uomo attento, che ha rialzato se stesso, che è raccolto in sé, le cui azioni sono pure, che opera con ponderazione, che vive continente e secondo la Legge Mediante l’elevazione interiore, il controllo ed il dominio di sé, il Saggio edifichi un’isola che l’alluvione non sommerga. Gli sciocchi sono dediti alla distrazione, gente di poco intendimento! Il Saggio, invece, custodisce l’attenzione come la ricchezza [più] preziosa. Non abbandonatevi alla distrazione, non abbiate dimestichezza coi piaceri ed i diletti. Il diligente che medita acquista felicità completa. L’uomo accorto, allorché con l’attenzione scaccia la disattenzione, salito sull’alta terrazza della saggezza, sereno, contempla gli stolti, gente turbata dal dolore, come chi è salito in cima ad una montagna guarda la gente che sta in pianura. Attento fra i disattenti, ben sveglio fra gli addormentati, egli, giudizioso, procede distanziando gli altri come un corsiere [distanzia] il ronzino. Fu mediante l’[esercizio dell’] attenzione che Maghavan (Indra), giunse alla supremazia sugli dèi. L’attenzione è pregiata, la disattenzione sempre disprezzata. L’asceta, che si diletta nell’essere attento ed alla disattenzione guarda con paura, procede come il fuoco, bruciando tutti i legami, grandi e piccoli. L’asceta, che si diletta nell’attenzione ed alla disattenzione guarda con paura, non è fatto per perdersi, anzi è ben vicino al Nibbâna (Nirvâṇa).»
[12] Per ciò che concerne i contenuti specifici del Discorso, occorre fare riferimento sia al testo: Buddha. Aforismi e discorsi, a cura di Pio Filippani-Ronconi, Newton, Milano 1994; sia al Canone Buddista. Discorsi brevi, vol.1, a cura di Pio Filippani Ronconi, Utet, Torino, 1976.
[13] Per leggere parte dei resoconti dell’esperienza del maestro di vipassana Ram Singh: http://www.prison.dhamma.org/tihar.htm
[14] Su questo particolare aspetto dell’innovazione portata da Kiran Bedi al carcere di Tihar troviamo un film: Doing time, doing Vipassana (Scontare la pena, fare Vipassana) prodotto da Filona Ariel e Ayelet Henahemi, Karuna Films Ltd; vincitore del premio Golden Spire Award all’International Film Festival di San Francisco nel 1998.
[15] La figura 1, che troviamo a p. (…) di questo paragrafo, esprime attraverso l’immagine il profondo cambiamento avvenuto nel carcere di Tihar grazie alle iniziative adottate da Kiran Bedi e dai suoi collaboratori.
[16] K. Bedi, ibidem, p.301.
[17] Con Giri di Ronda si intende la pratica quotidiana adottata dalla Bedi di effettuare personalmente una visita nei vari reparti del carcere al fine di registrare le problematiche di particolare urgenza.
[18] La cassetta delle petizioni divenne lo strumento integrante i giri di ronda effettuati dalla Bedi e dal personale incaricato. Data la vastità del territorio occupata dalla prigione, si era reso impellente l’utilizzo di un ausilio che riuscisse a raggiungere tutti i detenuti nel minor tempo possibile. La cassetta delle petizioni ricoprì questo ruolo importante, fungendo da tramite tra i detenuti e i responsabili del carcere. Si trattava di una scatola “itinerante”(portata nei vari reparti da un addetto) nella quali i carcerati potevano infilare (come una buca delle lettere) le loro petizioni e/o lamentele. In breve divenne fonte di ispirazione e di collaborazione per il rinnovo della vita carceraria.
[19] Per ciò che concerne l’organizzazione Brahma Kumaris è possibile far riferimento al sito internet in lingua italiana (www.bkwsu.it) oppure al sito internet internazionale (www.brahmakumaris.com).
[20] Il sari è l’abito tradizionale delle donne dell’India. Semplice ed elegante allo stesso tempo, questo capo conferisce alla donna un’immagine poetica. Il sari consiste in un unico pezzo di stoffa (generalmente di cotone o di seta), lungo circa 5 metri e mezzo e alto poco più di un metro, avvolto sapientemente attorno al corpo. La sua particolarità risiede nel ricercato accostamento di colori e nelle decorazioni d’oro o d’argento. Indispensabili per indossare il sari la sottogonna e il choli una maglia che copre il seno e lascia scoperto l’ombelico.
[21] K. Bedi, ibidem, p. 195.
[22] Le istituzioni che contribuirono a questo processo di sviluppo della vita carceraria a Tihar furono: Amici del carcere, associazione nazionale controllo qualità, Gruppo Osho, Chiesa di Dio dei Pentecostali, Chiesa universale di Cristo, scuola del cristianesimo pratico, Ahimsa Priya Samaj, Kirpal Ashram, Fratellanza della croce e della stella, Casa Baha’i, chiesa Ashram di tutti i Santi, Brahma Kumaris, Divisione teatro/danza, Ministero dell’Informazione e delle trasmissioni, Governo dell’India e altri (per un elenco dettagliato si consiglia la consultazione del sito internet di Tihar alla voce: “our associates”.
[23] Kiran Bedi.