Cercare, approfondire, evidenziare la relazione tra AiKido e Meditazione è stata ed è la mia pratica di questi anni ad ASIA. Sotto la guida del Maestro Franco Bertossa le due discipline mi sono state proposte come un’unica Via, percorribile da chiunque abbia un bisogno di verità. “Via” è coinvolgimento totale, ricerca del significato ultimo delle cose e di se stessi; è qualcosa di cui avere sempre rispetto. Si entra nel dojo, luogo della pratica, con sacralità perché qui la nostra domanda trova dignità e sviluppo.

Non voglio parlare dell’AiKido come tecnica o come tentativo di fusione con l’universo; né tanto meno della meditazione come ricerca di un luogo di quiete e pacificazione. Senza nulla togliere a questi aspetti comunque interessanti, ciò che mi preme è evidenziare, attraverso la mia esperienza, il punto di contatto tra una pratica del corpo e una pratica dello spirito. L’AiKido, arte marziale educativa e armoniosa, ha come fine la fusione con il principio universale, aspetto per cui si è soliti pensare ad una sorta di meditazione in movimento. Nel confronto “marziale” non ci sono due Ki, ma un unico Ki nel quale i Ki individuali si fondono. Cosa vuol dire veramente questo? E se anche dopo anni di pratica ci si ritrova ad essere tutt’uno con l’universo, a che pro? Forse la qualità della vita migliora, ma la domanda sulla verità resta irrisolta o parzialmente risolta. Rimane un sapore strano: perché esiste armonia? Perché ricercarla?

La meditazione, invece, presuppone un lavoro sul corpo che crea le condizioni più favorevoli per un contatto con la dimensione interiore: corpo e mente si placano per evidenziare un luogo di quiete e armonia che tante volte viene individuato con il fine della pratica. L’evidenziazione di quel luogo è invece l’inizio della pratica, è il contatto con la parte più profonda di noi che non sempre è pacificante. Se la pratica è permanere nel sapore di se stessi, qual’è la verità di quel sapore? E’ esso stesso risposta finale o fa nascere una domanda?

Cos’è Ki?
Ki è ciò che ci fa in ogni momento, che mi fa mentre parlo, mentre cammino, mentre scrivo… Qualsiasi tentativo di definirlo risulta riduttivo, cerca di contenere l’incontenibile e non spegne la domanda. E’ come chiedersi, cos’è “sentire”?
Perché c’è Ki?
E’ questione ancora più radicale che indaga sull’origine prima della sua manifestazione. Dire che non c’è risposta risolve l’abissale profondità della domanda con una risposta. Perché invece non rimanere nella domanda, percorrerla e portarla fino all’estremo? Perché non chiedersi fin dove è possibile chiedersi?
Cos’è Ki senza sentire? Il flusso che mi attraversa è già Ki, è già manifestazione di vita, di esistenza. Sto in piedi, respiro, mi muovo grazie al Ki.
I miei gesti, i pensieri parlano del Ki che mi attraversa e di come questo si esprime in quello che sono. Il Ki, principio impersonale, si compatta in questo corpo con un sentire molto personale. Ogni volta che entro in contatto con gli eventi, siano essi interni (pensieri, emozioni) o esterni ne scaturisce un sentire, una reazione che è il condensato della relazione che ho col mondo in generale e con l’esistenza, la “mia” esistenza in particolare. Il gesto rivela quel che sento.

Senza questa relazione e la conseguente domanda sulla relazione, il movimento e la ricerca della coordinazione possono diventare espressione sofisticata di precisione (o di un’efficacia marziale), in cui mente e corpo agiscono in sintonia, ma risultano vuoti del significato di Via. Allo stesso modo la meditazione, senza la domanda su ciò che sentiamo può diventare un ritirarsi dal mondo, uno strumento molto raffinato che però non indaga sull’esperienza alla quale ci porta. Il percorso delle due discipline sembra differente solo se si relega alla meditazione il compito di lucidità intellettuale e all’AiKido quello di precisione e qualità del gesto. Se invece si parte dalla loro base comune, il sentire, l’espressione del Ki attraverso il sentire, si apre un campo di indagine incredibilmente vasto.
La base comune è il sentire; da dove allora il mio particolare sentire? C’è un sentire originario, primo contatto con ciò che accade, compreso l’accadimento del sentire stesso? Esistono un gesto, un pensiero così puliti da esprimere quel contatto? La tensione è sempre verso una risposta, un atto conclusivo, ma proviamo ancora una volta a restare nella domanda, ad assaporarla.

Ogni gesto, ogni occhiata, ogni pensiero rivela quel che ci troviamo ad essere. L’AiKido ci pone in situazioni forti, molto dinamiche, veloci, improvvise nelle quali viene fuori il primo approccio, ciò che pensiamo e vogliamo veramente. Possiamo entrare contrastando, possiamo scappare o rimanere inebetiti. Se l’AiKido persegue un gesto semplice, essenziale, allora questo deve essere espressione di una visione del mondo altrettanto pulita.
Nascono altre domande: cos’è un gesto pulito? In che relazione sono il movimento e la visione della realtà? Quanto l’indagine può essere approfondita?
Un gesto è pulito quando rispetta ciò che accade; contrastare la gravità, il rilassamento e la fluidità, vuol dire impedire al Ki di attraversarci senza ostacoli. L’essenzialità è la sua potenza. Essenzialità vuol dire ripulirlo dal di più, riportarlo al rispetto dei principi, di ciò che già si sta facendo a prescindere dal nostro intervento. La prima domanda, la prima relazione è del movimento con se stesso in quanto espressione del nostro contatto con il mondo. Non sottovaluto il lavoro sul corpo, duro e necessario, ma lo relego a “porta di ingresso” per un lavoro di ricerca globale. Si passa dal movimento, si sta nella piacevole riscoperta di ciò che ci attraversa, si impara ad ascoltare sensazioni sottili, ma è necessario accompagnare questa pratica con la domanda, strumento necessario per ogni ulteriore approfondimento. Mentre ci muoviamo o siamo fermi (come in meditazione) “noi sentiamo” ed il sentire va indagato in ogni possibile direzione.
Ciò che il corpo dice è espressione di quel che siamo ancora prima del pensiero consapevole, quando gli eventi, compreso il pensiero stesso, si presentano inaspettatamente.

La ricerca di AiKido e Meditazione è essere presenti a quei momenti. E’ un ravvicinamento estremo al principio, là dove scaturiscono il mondo e la nostra visione del mondo. Da questo punto di vista non ci sono molte differenze tra le due discipline: il fine è il contatto con qualcosa di più grande che si esprime, trova canali in un corpo. Il corpo dice esattamente, attraverso il suo linguaggio, della relazione che abbiamo col mondo e con il fatto che qualcosa stia accadendo. Il corpo dice di come ci muoviamo nella vita, la vita dice di come ci muoviamo con il fatto primo di esistere. La ricerca porta così al principio dove la manifestazione, il come mi muovo o il come sento, sono spogliati di tutto tranne del fatto che stanno accadendo e stanno accadendo proprio così. Noi stiamo accadendo proprio così. Ripulire un gesto è compiere lo stesso percorso a ritroso della meditazione, fino alla semplicità originaria che è domanda aperta, sospensione di ogni giudizio di fronte alla sua indubitabile presenza. Rimanere nella domanda in questo stato essenziale e scarno, vuol dire assaporare il principio perché dica, in tutta la sua potenza, del nostro esserci invece che nulla. Non si può arretrare all’infinito, perdendosi in mondi evanescenti: più si arretra, più c’è solo evidenza. Com’è il contatto e il conseguente gesto che permangono nel sapore della domanda ad ogni istante? Quale tipo di Ki l’attraversa?

AiKido e Meditazione sono così una sola cosa diretta al contatto pulito con quel principio al quale ci riportano. La Via diventa totale: corpo e mente in un’unica direzione, verso l’insondabile mistero che ci abita. Più il gesto è semplice, più dice di “questo”mistero in modo così preciso da non permettere alcun intendimento arbitrario. Sotto questa luce ogni evento diventa interessante, fonte inesauribile di perplessità.
Allora può accadere di rimanere stupefatti, di fronte al “fatto” che si producano movimento, gesto, pensiero, sentire, Ki…. invece che nulla.
Si apre un cammino di consapevolezza che da quella stupefazione originaria cerca di trarre significati, ciò che resta quando le sensazioni passano. Sono anni di pratica dura, a volte buia: si procede senza vedere il gradino successivo. Bisogna tornare mille volte indietro per andare una sola volta avanti, toccare mille volte il principio perché una sola volta nasca un fluire pulito, ripetere mille volte un gesto perché esprima un’essenzialità rivelatrice. Fiorisce una sapienza diversa che cerca nuove vie di espressione, che modella corpo e mente.

Quel che guida è il Ki originario, spinta ineluttabile verso la verità e un maestro, che nei momenti intensi, quando è più facile rispondere che domandare, ci tiene lì, sulla presenza ad ogni contatto. Quale altra possibilità abbiamo, se non essere lucidi quando la vita, l’esistenza ci colpiscono senza preavviso?
Porsi in questa presenza vuol dire guardare dalla prima apertura che nulla sa di sé, ma “sa” con certezza che sta essendo attraverso i nostri occhi, i nostri gesti, la nostra carne. Da dove “presenza”? Cosa veramente conosciamo? Come si apre il mondo con questa consapevolezza? E’ solo un passo indietro, ma ci lascia nudi e disarmati di fronte al fatto che solo esistiamo. Permanere nel “fatto”, così pregno della sua verità, non è pacificante, ma è l’unico riferimento per guardare con occhi diversi.
La Via, se la domanda che ci muove è onesta, è veramente inesorabile.

Fin dal principio
ogni cosa è in sé silenziosa e vuota.
Ma quando viene primavera
e centinaia di fiori sbocciano
il rigogolo giallo canta sul salice.

Poesia zen