Attivazione di alcuni neuroni specchioQuando si pensa a Parma, le buone forchette pensano a prosciutti e formaggi, gli amanti d’opera lirica alla patria di Verdi; pochi sanno che in questa città sul confine della Pianura Padana è stata fatta una delle scoperte più significative dell’attuale ricerca sul cervello. La realizzò una quindicina di anni fa un gruppo di giovani medici che nel loro tempo libero, nei laboratori fisiologici dell’università locale, facevano esperimenti su particolari neuroni – cellule grigie cui dobbiamo la facoltà dell’imitazione, della compassione e verosimilmente anche del parlare. La scoperta venne celebrata in tutto il mondo, ma all’epoca i suoi protagonisti si sottrassero all’attività di ricerca globalizzata: dopo i consueti anni di cattedra a Boston e Berkeley, invece di esercitare in entrambe le parti dell’Atlantico, tornarono a Parma per lavorare nuovamente assieme. Vittorio Gallese è uno di loro. Nato a Parma, al ristorante parla con lo stesso entusiasmo della finezza di un antipasto di fegato d’oca come delle straordinarie peculiarità della corteccia cerebrale. E sopra la porta del suo studio, là dove altrove in Italia pende il crocifisso, vigila il ritratto di Verdi.

Professor Gallese, la scoperta più importante della Sua vita Le è riuscita quando esercitava in prigione come medico.

A quell’epoca avevo già alle spalle il mio impiego in qualità di ufficiale della sanità dell’aeronautica e volevo fare ricerca. L’università non mi offriva alcun posto. Ma in prigione ce n’era uno libero. Inoltre durante il giorno lavoravo non retribuito al laboratorio, mentre la notte e il week-end mi guadagnavo da vivere in prigione. E’ andata così per cinque anni. Nel 1992 ottenni un lavoro… all’università di Tokyo.

Quando dormiva?

Dormivo a malapena. Ma il periodo in prigione mi ha umanamente molto arricchito.

Provava compassione per i suoi pazienti? Deve aver saputo perché erano dentro.

In qualche modo cercavo di sapere il meno possibile sui loro antecedenti. In quanto medico volevo guarire, non giudicare. Ma naturalmente il più delle volte non andava così, perché i crimini figuravano negli atti e nella stampa locale. Tuttavia, curiosamente non mi sentivo a disagio con i detenuti – perfino con i serial killer e con uomini che avevano sciolto le loro vittime nell’acido. I sorveglianti mi chiedevano sempre: “Perché ti prendi tanta cura di gente del genere?”.

Già, perché?

Se dell’omicida avessi soltanto letto sulla stampa, presumibilmente avrei sentito soltanto ripugnanza. Ma questi uomini mi stavano davanti in carne e ossa, parlavano delle loro donne, avevano una storia personale, come me. Non erano esseri diversi. E, non meno importante, condividevamo uno stesso ambiente. Sette porte si chiudevano dietro di me lungo il tratto che dalla strada portava al mio ufficio; sapevo esattamente com’ è quando si è tagliati fuori dal mondo esterno. Poiché in fin dei conti vivevo con loro, non mi risultava difficile immedesimarmi nei miei pazienti. La compassione non si dà facilmente: nasce dalla situazione… Stiamo cominciando appena ad esaminare con metodo simili effetti: come muta l’empatia con il contesto nel quale gli uomini si incontrano? E in che modo essa dipende dal patrimonio ereditario e dalla storia delle persone?

Sicuramente non l’ha portata la prigione a dedicarsi a queste domande in quanto ricercatore.

Assolutamente no. Il mio approccio era molto più basilare: inizialmente all’istituto volevamo solo capire meglio come il cervello dà gli ordini d’azione ai muscoli. Che con ciò fossimo anche sulle tracce dell’empatia, a quel tempo ancora non lo sospettavamo.

Ciò che trovaste fu un meccanismo con cui il cervello può leggere i pensieri e i sentimenti degli altri. Alcuni colleghi hanno spiegato come la Sua scoperta sia tanto significativa quanto lo fu la decodificazione del codice genetico DNA. Come ci si sente dopo un successo simile?

Ormai perfino in Dr. House, la serie televisiva americana, si parla dei neuroni specchio. Ma per la verità io ci rifletto poco. Non so nemmeno se nozioni che vengono da ambiti della scienza tanto diversi come la genetica e la ricerca sul cervello si possano comparare fra loro tanto semplicemente. E dopotutto non ho scoperto i neuroni specchio da solo: eravamo e siamo un gruppo di ricercatori che lavorano insieme, dei quali tra l’altro a quel tempo molti lavoravano senza essere retribuiti. Ne fanno parte Giacomo Rizzolatti (il leader del gruppo), Leonardo Fogassi, e Luciano Fadiga. Tuttavia sapevamo sin dall’inizio che la nostra era una scoperta molto importante. E ciò che nel lavoro spinge tutti noi sempre oltre è che la portata della nostra scoperta potrebbe essere anche maggiore di quanto possiamo valutare quando la compiamo.

Si racconta che non sarebbe mai diventato uno fra i più celebri neuroricercatori se a quel tempo non avesse rubato le noccioline a una delle Sue scimmie.

Sì, fu veramente una scoperta fortuita. Stavamo registrando nella scimmia l’attività elettrica dai neuroni che regolano il movimento. Sempre, quando le scimmie allungavano la mano verso il cibo, questi neuroni diventavano attivi. Allora sentivamo uno scoppiettio nelle nostre apparecchiature. Ma quando io stesso, una volta, tesi il braccio verso le noccioline, lo scoppiettio si manifestò ugualmente – come se la scimmia si fosse mossa. Eppure stava solo a guardare, tranquilla. Dopo un attimo capimmo che il cervello della scimmia si comportava effettivamente come se si immedesimasse nelle azioni di chi stava effettuando l’esperimento. Quando l’animale osserva il movimento di un altro, questi neuroni riflettono il comportamento della persona di fronte. Per questo li chiamammo “neuroni specchio”.

La stessa cosa accade nella mia testa ora, mentre Lei tende la mano verso la Sua tazza di caffè: una parte del mio cervello risuona per così dire a tempo con il Suo.

E’ così. Solo poche settimane fa un collega da Los Angeles ha fatto un resoconto sui neuroni specchio negli uomini. Fino a quel momento avevamo solo evidenze indirette circa la loro esistenza.

Con i quali gli ultimi dubbi sulle ragioni del successo dello sport in televisione sarebbero infine eliminati. Milioni di persone sul divano del loro soggiorno vedono (il calciatore) Michael Ballack non solo attraverso le sue azioni – ma sono Ballack!

Almeno finché non scompare di nuovo dallo schermo. Solo, l’eco non è ugualmente forte in tutti. In un calciatore dilettante che conosce bene i movimenti visti, i neuroni specchio si attivano molto più intensamente che in uno spettatore che non abbandona mai il proprio divano.

Però, se il mio cervello segue movimenti altrui tanto precisamente, perché allora non li eseguo? Cosa mi tiene fermo sulla poltrona, mentre Ballack dribbla?

La catena degli ordini nella testa viene bloccata ad un livello antecedente l’esecuzione. Ma spesso questo “freno” si allenta – allora la gente mima spontaneamente le persone davanti a lei. I fans del calcio balzano in piedi quando vedono i loro compagni di tifo fare la stessa cosa allo stadio.

Risate e sbadigli sono notoriamente contagiosi…

…e negli uomini che soffrono di una malattia chiamata “ecoprassia” il freno generalmente non funziona. Sono costretti a imitare tutto ciò che fa chi sta davanti a loro. Un collega francese raccontò di come, accompagnando un paziente di questo genere, si avvicinò alla ringhiera di un balcone dell’ospedale, aprì i pantaloni e fece pipì di sotto. Il poveruomo non poté fare altro che eseguire subito la stessa cosa.

Siccome solo per via del semplice osservare nel mio cervello vengono suscitati gli impulsi giusti, un siffatto meccanismo sembra come fatto per questo: che ci impossessiamo di un nuovo comportamento, copiandolo da altri.

Nessun essere vivente imita tanto e tanto agevolmente quanto gli esseri umani. Proporzionalmente abbiamo di gran lunga più neuroni specchio di tutti gli altri animali. Uno scimpanzé deve osservare per cinque anni prima di poter lui stesso rompere una noce, usando una pietra come martello e un’altra come incudine. Un bambino lo impara in pochi minuti.

Forse dovrei allenarmi di meno, e invece semplicemente limitarmi ad osservare più spesso il mio insegnante tedesco, per migliorare la mia tecnica nelle competizioni di barca a remi.

Ancora meglio: diventerà perfino più forte seguendo da solo i movimenti di un altro. Due esperimenti l’hanno da poco dimostrato, di cui uno con un sollevatore di pesi giapponese. Persone che guardavano video di sport ma che non si allenavano, dopo poco potevano distintamente esercitare più forza di prima con i muscoli corrispondenti. Presumibilmente dipende da questo, che il cervello impara a regolare la contrazione dei muscoli in modo più efficace.

C’è da chiedersi per quale ragione la gente comunemente si tormenti nelle palestre. Di fatto, a cosa esattamente si rivolgono i neuroni specchio? Dobbiamo assolutamente vedere i movimenti di un altro?

No. Nei nostri esperimenti si attivavano anche se allungavamo la mano verso un oggetto invisibile alle scimmie. Gli animali potevano solo sentirci.

Questo lo trovo più che straordinario: evidentemente si riflettevano nel cervello degli animali non i movimenti, ma le intenzioni dell’altro.

I loro neuroni specchio riconoscono addirittura perché io persegua una determinata intenzione. A seconda che mi allunghi verso la tazza per bere o per sparecchiare il tavolo, si attivano in loro neuroni diversi. Negli esperimenti abbiamo dimostrato anche questo.

Abbiamo neuroni che leggono i pensieri. Come possono delle singole cellule grigie essere tanto scaltre?

Esse ricevono informazioni da molti altri centri nel cervello – nel caso della tazza di caffè sul fatto che è già vuota. E non si nasce con i neuroni specchio per il comportamento a tavola: il sistema ha imparato cosa fanno gli uomini nel loro ambiente.

E quindi lo capiamo senza doverci riflettere oltre.

Esatto. Percepiamo le intenzioni delle persone che ci stanno di fronte come se fossero le nostre. Gli psicologi si sono profondamente ingannati. Secondo l’opinione vigente, infatti, devo capire innanzitutto me stesso, prima di poter percepire le intenzioni altrui. Ma non è così: nella maggior parte dei casi non ho bisogno di alcuna teoria sugli stati mentali, né sui miei né sui Suoi. Quindi il meccanismo dei neuroni specchio ci offre un accesso diretto al mondo interiore degli altri. Solo gli autistici sono costretti alla strada più lunga, perché prima devono sempre riflettere sugli altri.

Cosa differenzia gli autistici dalle altre persone?

Non possono immedesimarsi. Per questo devono in ogni momento ponderare cosa nella persona che sta loro davanti può probabilmente accadere – questo è faticoso e spesso funziona in modo incorretto. Ci sono prove a questo riguardo: negli autistici il meccanismo dello specchio è disturbato. Quando un bambino sano La osserva fare qualcosa, come mangiare delle fragole, automaticamente anche in lui ogni volta si attiverà la muscolatura della bocca, non appena Lei avvicina un frutto al Suo viso. In un bambino autistico non è così. Di conseguenza alcuni bambini hanno anche insolite difficoltà nell’imparare una serie di movimenti.

Agire e percepire sono interconnessi.

E’ possibile allenare la capacità di immedesimazione?

Una chiave per questo sta verosimilmente nel migliorare le percezioni corporee. Stiamo cercando di scoprire se sia possibile aiutare persone con disturbi autistici: danzare, recitare, anche fare musica potrebbe contribuire al migliorarsi delle facoltà motorie, e con questo anche la capacità di immedesimazione. Oltre a ciò abbiamo appunto cominciato esperimenti per sapere come si esplica negli autistici l’empatia per il contatto tattile esperito dagli altri.

Nelle ultime pubblicazioni sui neuroni specchio il discorso verte solo su movimenti e intenzioni. Un paio di anni fa, Lei ha fatto un’ulteriore, importante scoperta: il cervello riproduce anche sensazioni sconosciute. Quando vedo il modo in cui qualcuno è accarezzato, nella mia testa si attiva qualcosa come se ricevessi io stesso il massaggio.

Sì, quindi negli uomini ci sono aree del cervello che mappano le sensazioni tattili munite di neuroni rispecchianti.

E reagiscono altrettanto le parti del cervello che creano la sensazione di dolore. Questo è da chiamare letteralmente “compassione”.

Non proprio. Forse è vero che i Suoi meccanismi per il dolore si avviano quando Lei mi vede sulla sedia del dentista, e verosimilmente il Suo viso si contrae se il trapano si avvicina alla mia bocca. Ma nel Suo cervello non riceve alcun segnale di dolore nel proprio corpo. Da questo si conclude che si tratta di un problema mio, non Suo – la sensazione è attenuata.

C’è una differenza fra immedesimazione e compassione: io posso per così dire scivolare sotto la sua pelle, tuttavia paradossalmente non ho l’obbligo di condividere tutte le Sue sensazioni. Questa è immedesimazione. Provo compassione quando faccio esperienza anche delle Sue sensazioni.

Il concetto tedesco di “Einfühlung” coglie nel segno. Quindi è fondamentale che Lei si trasferisca dentro di me intuitivamente e non proprio intellettualmente – anche se in Lei un reale sentimento viene appena suscitato. Questo accade effettivamente solo in un passaggio successivo, quando prova “compassione” – pietà, ad esempio. Ma a questo si arriva molto più raramente.

Se l’empatia – in altri l’immedesimazione – è un automatismo del cervello, ci dev’essere una soglia alta per la compassione. Altrimenti sentiremmo tutti la sofferenza che osserviamo come nostra. Le infinite crudeltà della storia non ci sarebbero mai state. E nemmeno chirurghi e dentisti.

Effettivamente empatia e compassione si possono completamente separare l’una dall’altra. Pensi soltanto a un sadico: prova piacere proprio perché può immedesimarsi nel dolore della sua vittima.

Da cosa dipende che immedesimazione diventi compassione?

Questa è una domanda cruciale. Ne sappiamo ancora molto poco.

Le madri spesso raccontano di sentire come proprie le sofferenze dei bambini.

Alcuni colleghi a Roma hanno appunto dimostrato che nelle madri che allattano le strutture cerebrali per il dolore reagiscono in modo particolarmente intenso alla visione di video di lattanti che strillano. Ma questa attività è anche maggiore quando si mostra alle madri il loro bambino. E solo in questo caso in loro si attivano contemporaneamente le aree del cervello per controllare i movimenti. Evidentemente le donne si preparano, ancor prima di accorgersene, a prestare soccorso.

Ci sono persone che per natura sono più compassionevoli di altre?

Sicuramente. Probabilmente è proporzionale a quanto una persona rispecchia la mimica altrui. Il cervello costruisce infatti un sentimento a partire dai movimenti dei muscoli del viso. Quando la coda dell’occhio e la bocca si contraggono in un sorriso naturale, l’umore si alza; se invece assumiamo un’espressione triste, si abbassa. Negli esperimenti emerge quindi che le persone che inconsciamente assumono l’espressione di un altro viso più intensamente, sono ugualmente anche più capaci di empatia.

Questi sono coloro che in “Via col vento” alla fine scoppiano in lacrime con Leslie Howard.

Sì.

Stranamente noi cerchiamo certe esperienze. Certo vogliamo che un film o una pièce teatrale ci commuova. Perché?

Forse occasionalmente ci fa bene vedere gli altri soffrire. Conosce il filosofo René Girard? Lui argomentava che gli attori vengono simbolicamente sacrificati sul palcoscenico. Così la società scarica incessantemente la propria propensione alla violenza in modo innocuo. Credo che questa teoria sia molto valida.

Vuole dire che Tristano e Isotta muoiono per amore perché io sopporti meglio l’inevitabile risentimento all’interno del mio matrimonio?

Un’opera fantastica! Malgrado non sia di Verdi. L’ho vista a Tokyo, con René Kollo nel ruolo principale.

Ma intenso almeno tanto quanto la liberazione dalla violenza è sicuramente l’effetto contrario. Quando le persone vedono violenza, questa contagia. Qualche scienziato afferma che i giovani imiterebbero proprio i crimini che film e videogiochi mostrano loro.

Su questo sarei scettico. Perché non conosco un solo studio che dimostri davvero che c’è un nesso fra il nostro congenito talento nell’imitare, la violenza dei media e la brutalità nella vita reale. A mio parere i giochi orrorifici e i film operano in altro modo: essi abituano le persone allo spettacolo della crudeltà. La violenza diventa banale e finisce per apparire accettabile allo scopo di risolvere i conflitti. A questo punto si dovrebbe però anche dire che nella storia non è mai accaduto che un numero così grande di persone abbiano convissuto tanto pacificamente quanto accade oggi. Le epoche più antiche erano molto più brutali, anche senza videogiochi. Ma ci sono aspetti della contemporaneità più preoccupanti.

Quali?

L’avanzata del mondo virtuale. Comunichiamo sempre di più con telefono e computer; le occasioni in cui le persone si incontrano in carne ed ossa si riducono sempre di più. Ora sappiamo dai nostri esperimenti che ciò non è assolutamente indifferente, per la capacità di immedesimazione, se Lei vede un’altra persona solo su un monitor o se le sta davanti, occhi negli occhi. Per questo un’esperienza a teatro è spesso più intensa che l’assistere a un film. E se Lei si limita a scambiare con i Suoi interlocutori solo delle e-mail, o come molti giovani oggi a incontrarsi virtualmente nelle chatroom elettroniche, la Sua immagine di loro si dissolve completamente.

Spogliamo di fisicità le persone con cui coltiviamo una relazione.

Sì. E questo non può non avere grosse ripercussioni sulle nostre capacità sociali e intellettuali. Solo, non sappiamo ancora quali. In ogni caso l’intelligenza sociale si è sviluppata durante l’evoluzione per incontri diretti, non virtuali.

Certo Lei trae vantaggio dal fatto che oggi Le è possibile collaborare tanto velocemente in Internet con dei colleghi in Giappone quanto lo sarebbe se Le sedessero accanto. Difficilmente, comunque, lo sviluppo della tecnica potrà essere arrestato.

Neanch’io voglio che questo accada. Tuttavia la nostra conversazione si svolgerebbe di certo in modo molto diverso, se ci parlassimo al telefono invece di sederci qui, a Parma, uno di fronte all’altro. Se quindi la comunicazione elettronica si diffonde sempre più, dovremo presumibilmente trovare forme totalmente nuove di rapporto. Un piccolo progresso potrebbe essere costituito dall’uso dei videotelefoni.

Senza un’immagine del corpo dell’altro da vedere, non ci può essere immedesimazione – almeno se si intende il “sentire” propriamente l’altro dall’interno.

No. Lei può tentare di immedesimarsi negli altri, similmente a come lo fanno gli autistici. Ma questa strada è molto più complicata, e innanzitutto si fanno molti errori. Per questo cerchiamo la vicinanza delle persone che ci capiscono senza lunghe spiegazioni, semplicemente guardandoci.

Così ci possono essere le migliori amicizie fra persone che per il resto condividono appena degli interessi…

Perché altre corrispondenze sono molto più determinanti. “Comprendere l’altro, cioè creare in noi il suo sentimento”, scrisse a ragione Friedrich Nieztsche. Quando due persone non possono farlo, naufragano matrimoni fra partner che sembrano fatti l’uno per l’altra.

Non conosco nessun neuroscienziato che citi, appassionato quanto Lei, pensatori come Nietzsche, Husserl e lo stesso Heidegger. Cosa Le dà la filosofia?

Molti colleghi vedono le riflessioni filosofiche come una sorta di aggiunta che serve a questo: rendere la propria ricerca più appetibile per un vasto pubblico. Questo va bene, purché ci si occupi di problemi molto distanti dall’esperienza umana – ad esempio di come i canali ionici trasmettano segnali elettrici fra i neuroni.

Ma provi a studiare fenomeni come l’immedesimazione o addirittura la coscienza: non può trattare la filosofia come la ciliegina sulla torta della Sua ricerca. Quindi, ciò che Lei indaga assolutamente non può essere separato dalla Sua personale visione del mondo. E’ quindi molto più difficile porre in anticipo le domande giuste. In questo aiuta enormemente il sistematico procedimento di analisi dei filosofi.

In 2500 anni di storia della filosofia tutte le grandi domande dell’esistenza umana sono già state poste molte volte. L’uomo di scienza allora deve solo trovare la formulazione più indovinata per la sua ricerca?

Non è così facile. Piuttosto, ci si inventa una filosofia su misura. Si cercano al di fuori del proprio ristretto ambito i pensatori le cui idee ci sembrano particolarmente stimolanti per i nostri esperimenti. Per me ad esempio sono i fenomenologi come Edmund Husserl…

…un matematico e filosofo austriaco, che si occupò intensivamente, nella svolta del XX secolo, della corporeità di tutti gli ambiti della cognizione.

E quindi nemmeno la fecondazione delle scienze naturali attraverso la filosofia è una strada a senso unico. La nostra ricerca conduce al fatto che i filosofi, dal canto loro, pongono nuove domande, e così si procede.

Qui l’Europa attraverso il lavoro in laboratorio fa così fortemente riferimento alla storia del pensiero, mi pare un accesso molto europeo. Gli Americani, che spesso sono presi a modello della scienza, sono in questo molto più pragmatici.

Sì, dirigono più intensamente il loro interesse sui problemi che al momento sembrano loro risolvibili.

Sono anche costretti, perché nelle loro università imperversa molta più competizione. Quindi devono produrre risultati – e non possono assolutamente prendersi grossi rischi, o meditare su conseguenze teoriche di più ampia portata delle loro ricerche. Mi sembra che noi Europei possiamo dare un significativo contributo alla scienza già attraverso la nostra eredità culturale.

Cosa può imparare la filosofia dalle neuroscienze sull’empatia?

Che non ci si può ancora immaginare la mente umana senza corpo.

Con ciò Lei si oppone a un quadro che, dalla marcia trionfale dei computer, appare a molti già quasi ovvia: la mente umana funziona come un computer, il suo carattere e i suoi ricordi sono solo una gigantesca serie di dati. Se fosse così, si potrebbe almeno teoricamente trasferire tutte le informazioni che costituiscono la Sua personalità dal cervello su un super calcolatore, e lì portarle al funzionamento. In un certo qual modo vivrebbe così di nuovo sul chip di silicio.

Totale fesseria. Perché, come oggi sappiamo, il nostro intero pensare e sentire si fonda sul fatto che osserviamo i corpi di altri uomini, che prendiamo le cose e le manipoliamo. Aumentano anche i dati sperimentali sul fatto che siamo debitori a simili abilità motorie anche per altri aspetti, come quello del linguaggio. La nostra mente esiste solo nel mondo corporeo.

Ed è per questo motivo irrimediabilmente mortale.

Sicuramente. Certo, nel continuare a perseguire fini di ampia portata rendiamo sopportabile questa prospettiva. Quando l’imperatore della Cina ordinò la costruzione della Grande Muraglia sapeva bene che non sarebbe mai vissuto tanto da vederne l’ultimazione. Tuttavia impiegò tutta la sua potenza in questa impresa. Così, noi viviamo nuovamente nei cervelli delle generazioni successive. Anche questa è una sorta di eco. Grazie ad essa l’umanità ha potuto creare la cultura e liberarsi dal vincolo dell’evoluzione biologica.

E’ concesso a pochi uomini di progettare la Grande Muraglia o, come Verdi, di scrivere 26 opere.

E’ importante? Anche se una persona diffonde solo un po’ di sapere, dà un contributo a questa cultura che vince la mortalità. Ma forse, per sentire in questo modo, si deve – come me in quanto Italiano – imbattersi ad ogni passo sulle tracce del passato.

 


Articolo originale apparso su Die Zeit, Maggio 2008

Traduzione di Linda Altomonte
Consulenza linguistica: Manuela Ritte
Centro studi ASIA

Si ringrazia per la supervisione il prof. Vittorio Gallese

Sullo stesso argomento un interessante estratto di una lezione del Professore alle Vacances de l’Esprit 2007