L’infinito non è solo un concetto matematico, ma ha sempre ispirato scienziati, filosofi e artisti sia perché rappresenta una sfida per l’intelletto, sia perché nel corso dei secoli gli sono stati attribuiti i più diversi significati simbolici.
Già Anassimandro, nel VI secolo a.C., pone come origine del mondo l’apéiron, un’unica realtà originaria infinita, o più letteralmente non-limitata, da cui hanno origine le coppie di opposti che governano il mondo: caldo e freddo, asciutto e umido, e così via. L’infinito, dunque, è un principio, anche perché, avvisa Aristotele, “ogni cosa o è principio o deriva da un principio: ma dell’infinito non c’è principio, ché sarebbe il suo limite.”[1]
Dunque l’infinito è il principio senza limiti, da cui deriva ogni cosa e che non ha una forma che lo contenga. Viene alla mente il chaos che, secondo la tradizione orfica, rappresenta il principio di tutto; letteralmente chaos significa “spalancato”; il principio sarebbe un’apertura, uno spazio cavo e buio, un qualcosa di indistinto, un senza-forma. L’infinito rappresenta allora ciò che non è generato ma che può generare qualunque forma, proprio perché esso non ha forma: è indefinito, è una potenzialità assoluta.
Per i pitagorici, ci testimonia Filolao, la comprensione dell’universo avviene grazie al numero: “è la natura del numero che fa conoscere e insegna ad ognuno tutto ciò che è dubbio e ignoto”. Senza la natura del numero, che è una quantità finita, “tutte le cose sarebbero illimitate e oscure e incomprensibili”: l’infinito assume una connotazione negativa ed è associato alla mancanza di conoscenza.
Questo concetto è ripreso da Aristotele, per il quale l’infinito è “ciò al di fuori di cui, se si assume come quantità, è sempre possibile assumere qualche altra cosa”; quindi è ciò che non è completo e che, per definizione, non può essere completabile. Il concetto di infinito si oppone, così, a quello di intero “al di fuori di cui non c’è nulla”, e che, perciò, è perfetto. Aristotele si pone, così, in contrasto con Anassimandro, il cui infinito è immutabile ed eterno, e quindi ha tutte le caratteristiche della divinità.
Aristotele, inoltre, distingue l’infinito in atto da quello in potenza; solo il secondo esiste: possiamo pensare all’infinito solo come a qualcosa che continuamente diviene ma che mai raggiunge il suo essere infinito. Un esempio di infinito in potenza è la serie dei numeri naturali, che possono essere pensati sempre più grandi di ogni quantità definita, ma il termine ultimo non viene mai raggiunto. Un esempio moderno, invece, di infinito in atto è l’insieme di tutti i numeri razionali (cioè di tutte le frazioni) compresi fra 0 e 1: dati due numeri razionali, ne esiste sempre un terzo che si trova fra i primi due (ad esempio la loro media); quindi fra due numeri razionali sono compresi sempre infiniti altri numeri razionali.
Dunque Aristotele ammette solo l’infinito in potenza, che, relativamente alle grandezze fisiche, può essere di due tipi: quello che si ottiene raddoppiando ripetutamente la grandezza di un corpo e quello che si ottiene dimezzando ripetutamente la grandezza di un corpo. L’infinito del primo tipo non è ammissibile, perché si otterrebbe un ente materiale infinito che non può esistere né può essere immaginato: “Se, difatti, si chiama corpo ciò che è limitato da una superficie, non potrebbe esserci corpo infinito né come intelligibile né come sensibile”[2]; inoltre, poiché ogni elemento ha caratteristiche sue proprie (ad esempio l’aria è fredda e il fuoco è caldo), se un elemento fosse infinito distruggerebbe le caratteristiche che con esso contrastano, ma ciò, evidentemente, non è possibile.
Con l’infinito del secondo tipo, invece, un corpo può essere diviso a metà, e poi ancora a metà, superando in piccolezza qualunque grandezza, ma senza mai raggiungere un limite ultimo. Quindi l’infinito applicato alle grandezze può essere solo un infinito per divisione, un infinito comunque limitato da una forma.
L’infinito aristotelico manca di quella caratteristica fondamentale che si trova in Anassimandro che è il suo essere illimitato: “come la materia così anche l’infinito è contenuto all’interno e la forma lo contiene”. Sembra che Aristotele, non potendo negare l’infinito senza cadere in paradossi – come un tempo che abbia inizio e fine o grandezze che non siano divisibili o numeri che non possono essere superati – lo accetta cercando di “addomesticarlo”, di eliminare la sua carica distruttrice ponendolo all’interno di una forma e permettendogli di essere solo in potenza. Anche da ciò deriva l’universo aristotelico formato da sfere concentriche al centro delle quali si trova la Terra: un grande contenitore, un cosmo ordinato, finito e, soprattutto, limitato dal cielo estremo delle stelle fisse.
Bisogna aspettare il XVI secolo affinché l’infinito diventi un simbolo positivo, in quanto espressione dell’infinita bontà del creatore. Troviamo, così Thomas Digges, che nel 1576 scrive che il cielo delle stelle fisse “si estende verso l’alto in altezza sferica infinita”, e al “potere e maestà infiniti [di Dio] conviene solamente questo luogo infinito”[3]. E Giordano Bruno sostiene che “così si magnifica l’eccellenza di Dio, si manifesta la grandezza dell’imperio suo: non si glorifica in uno, ma in soli innumerevoli: non in una terra, un mondo, ma in duecento mila, dico in infiniti.”[4]
L’aspetto paradossale dell’infinito è invece ben evidenziato da Galileo, il quale nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze coglie come i numeri interi possano essere messi in relazione biunivoca con i loro quadrati:
1 2 3 4 5 6 7 8
| | | | | | | | …
1 4 9 16 25 36 49 64
e che quindi ci sono tanti quadrati quanti numeri naturali, anche se ovviamente i quadrati rappresentano solo una parte dei numeri naturali. Allora egli conclude che queste son di quelle difficoltà che derivano dal discorrer che noi facciamo col nostro intelletto finito intorno a gl’infiniti, dandogli quelli attributi che noi diamo alle cose finite e terminate; il che penso che sia inconveniente, perché stimo che questi attributi di maggioranza, minorità ed egualità non convenghino a gl’infiniti, de i quali non si può dire, uno esser maggiore o minore o eguale all’altro.[5]
L’osservazione di Galileo verrà ripresa tre secoli dopo da Cantor, che definirà un insieme infinito come un insieme i cui elementi possono essere messi in corrispondenza biunivoca con gli elementi di un suo sottoinsieme proprio. La proprietà che rappresentava un paradosso per Galileo, diventa la definizione a partire dalla quale Cantor costruisce la sua teoria dei numeri transfiniti.
Mettendo gli elementi di due insiemi in corrispondenza biunivoca, Cantor riesce a “contare” gli elementi degli insiemi infiniti, e scopre che ci sono tanti numeri naturali (interi positivi) quanti numeri razionali (frazioni), ma che ci sono più numeri reali che numeri razionali, malgrado sia i reali che i razionali siano infiniti. Inoltre Cantor riesce a dimostrare che i punti su una retta sono infiniti come i numeri reali (ad ogni numero reale corrisponde un punto e ad ogni punto un numero reale), e che su un piano o nello spazio ci sono tanti punti quanti ce ne sono in una retta o addirittura in un segmento di retta.
L’infinito dei numeri naturali viene chiamato aleph zero, mentre l’infinito dei numeri reali viene chiamato aleph uno. A partire da queste prime due tipologie di infinito Cantor è in grado di creare una intera successione di infiniti, i numeri transfiniti, appunto.
Di fronte a risultati che andavano in modo così evidente contro il senso comune, lo stesso Cantor scrisse: “Lo vedo, ma non ci credo”. Di fatto, alla base della teoria dei numeri transfiniti c’è l’infinito attuale, che Cantor, andando sia contro la tradizione aristotelica che contro alcuni suoi illustri colleghi contemporanei, sosteneva potesse essere reale. Una sua dimostrazione dell’esistenza di un infinito attuale parte dal concetto di Dio e arriva, in primo luogo, alla conclusione della possibilità di un Transfinitum ordinatum traendola dall’altissima perfezione della natura divina; deduce quindi dalla sua potenza e bontà infinita la necessità di una creazione effettivamente compiuta di un Transfinitum.[6]
In queste parole si sente l’eco di Giordano Bruno, che associa l’idea di infinito a quella di divino, e che giustifica l’esistenza di un ente infinito con la necessità di trovare nella creazione qualcosa che rispecchi “l’eccellenza di Dio”.
L’infinito ha ispirato significati contrastanti ed estremi, è stato invocato come simbolo del divino o come espressione di una inaccettabile inconoscibilità; oggi, tuttavia, in un periodo in cui le discussioni sui fondamenti sembrano appartenere a un passato superato e la giustificazione dei risultati scientifici si basa pragmaticamente sul fatto che essi funzionino, l’infinito è diventato un concetto che ha una natura puramente quantitativa.
E forse vale la pena osservare che il fatto che la ricerca scientifica sia riuscita a riconoscere in modo preciso i limiti delle sue possibilità, ci sembra una prestazione dello spirito umano, più grande della tecnicizzazione del nostro mondo, tanto spesso ammirata.[7]

 

Note:
[1] Aristotele, Fisica, III 203b.
[2] Aristotele, Fisica, III 204b.
[3] Citato in A. Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito, Milano, 1988, p. 37.
[4] G. Bruno, De l’infinito universo e mondi, epistola dedicatoria; citato in A. Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito, Milano, 1988, p. 40.
[5] G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, Leida, 1638, Giornata prima. Si veda anche l’edizione on line in http://www.liberliber.it/.
[6] G. Cantor, Gesammelte Abhandlungen; citato in H. Meschkowski, Mutamenti nel pensiero matematico, Torino, 1973, p. 60.
[7] H. Meschkowski, Mutamenti nel pensiero matematico, Torino, 1973, p. 187.