Francesco Guccini, cantautore italiano tra i più importanti e influenti, si racconta riattraversando la sua carriera artistica, la grande passione per la letteratura e il pensiero della morte. La domanda -che considera il senso ultimo della nostra vita- attraversa tutto il suo percorso e continua a guidarlo nella spinta umana a capire, al di là dei pregiudizi e dei dogmi di comodo.
 
 
 

L’intervista

Nelle Sue canzoni è frequente la presenza/assenza di ‘radici’: l’Uomo cerca di radicare se stesso, o meglio di ritrovare un fondamento che talvolta gli sembra di intravvedere nel ricordo di vite altrui, vissute d’appresso o solo sfiorate, ma inesorabilmente perse. Che cosa, secondo Lei, si ha necessità di fondare? Ed è veramente possibile trovare queste radici?

Sono due domande, tutto sommato… Le radici sono una cosa che ho scoperto all’inizio degli anni Settanta, quando molti volevano fare tabula rasa del passato e ricominciare da zero; io invece mi sono mosso nella direzione opposta, cioè cercare di ritrovare delle radici, appunto, qualcosa che altri prima di me avevano fatto, soprattutto in linea parentale. Mi sembrava importante questa casa, questo mulino dei miei nonni; mi sembrava importante riscoprire chi fossero quelle persone, che vite avessero fatto… Questo, dicevo, in direzione opposta a quella del ‘tabula rasa’, e infatti nel disco che uscì allora, quello del ’72 (appunto Radici) c’erano nella foto di copertina i miei bisnonni con dietro i quattro figli, tra i quali mio nonno e il mio prozio, che poi ho cantato in una canzone, Amerigo… Noi avremmo bisogno di diverse vite per riuscire a fare tutto quello che ci piacerebbe fare, ma ne abbiamo una soltanto: le altre vite si possono trovare magari leggendo, cercando di impadronirsi di vite altrui… adesso non ricordo esattamente chi ha detto “Abbiamo bisogno di altre vite, la nostra non ci basta”; l’ho anche citato diverse volte, un autore di origine ebraica, credo… vede, comincia l’artereo… e quindi impadronirsi di altre vite leggendo; oppure, tra le altre cose che ho detto, è anche possibile immaginare delle altre vite, le famose “case intraviste da un treno”, cioè pensare là dentro chi ci può essere, e che vita fa… la nostra paragonata a quella… Oppure riflettere sul fatto che si vive con una persona, ma si potrebbe vivere con tantissime altre persone, e questa è una cosa che ci manca… Ovviamente non solo ci sia accontenta, ma fa anche piacere vivere con la stessa persona… comunque sono sensazioni che a volte possono nascere, ecco.

In Un altro giorno è andato appare il verso: “… vorresti alzarti in cielo a urlare chi sei tu…”. In molti altri Suoi componimenti (da “Lo specchio vede un viso noto,/ma hai sempre quella solita paura,/che un giorno ti rifletta il vuoto” in Due anni dopo, al “gioco/della tua identità” della Canzone dei dodici mesi, fino a protagonisti anonimi come Il pensionato, Il matto, La ziatta, e a personaggi tanto celebri da esser diventati simboli – Gulliver, Cirano, Don Chisciotte, Odỳsseus ecc…–), appare evidente che la questione dell’Io è elemento fondamentale della Sua ‘produzione artistica’…

Sono questioni diverse, perchè Il pensionato, Il matto, La ziatta sono personaggi anonimi, in fondo, invece gli altri (Gulliver, Cirano, Don Chisciotte, Odỳsseus) sono personaggi letterari famosi, ben conosciuti; il discorso quindi si forma in maniera diversa: c’è il personaggio anonimo, che però non tratto come l’entomologo che esamina un insetto, ma chiedendomi sempre il paragone fra due vite: cos’è la sua, cos’è la mia… parlo de Il pensionato; fra l’altro questa era la sua stanza, aveva un letto proprio qui… era molto diversa, la casa. Paragonare queste due esistenze parallele – perché vivevamo in modo molto diverso – nel loro svolgimento. Mentre gli altri sono più personaggi simbolici; a parte il fatto che Gulliver, secondo me, è diverso dagli altri tre, perché rappresenta l’impossibilità di viaggiare, di viaggiare veramente. E qui ritorniamo al discorso delle molte vite: uno oggi si illude di conoscere un posto perché c’è stato due o tre settimane in vacanza, mentre invece bisognerebbe abitarci degli anni, non so, avere una famiglia, avere una casa… poi tornare… ma anche questo è impossibile, quindi… Gulliver è quello che torna, racconta cos’ha fatto e gli altri non capiscono, perché non hanno visto, non hanno avuto le stesse esperienze, ognuna diversa da quelle degli altri. Odỳsseus, invece, va a cercare qualche cosa che sa che forse non potrà trovare, ma sa anche che bisogna cercarlo; quindi l’importanza di domandarsi, di cercare. Sono due facce di persone diverse, ci sono vari aspetti: ogni personaggio ha un po’ la sua storia, ecco, così come la Ziatta, così come il Pensionato.

Proprio a questo proposito vorrei chiederle: che cos’è per Lei identità?

Mah, identità è il bagaglio di esperienze che ognuno di noi mette assieme nell’arco di una vita; è importante sapere con chi ho passato l’infanzia, con chi ho passato l’adolescenza e la giovinezza, tanti episodi che formano il carattere, formano la personalità.

Lei sembra spesso trovare un’identità plausibile – almeno momentanea – nell’emilianità: non è necessario ricordare tutte le Sue iniziative in favore di un regionalismo che non è mai fine a se stesso, bensì si propone come ricerca linguistica e musicale (traduzioni in dialetto pavanese, la redazione di un vocabolario Italiano–Pavanese, ma anche le canzoni in dialetto bolognese o modenese, lo stesso lessico da Lei usato e la pronuncia ‘emiliana’ di parole anche straniere…); se in Aemilia definisce quella dell’Emiliano un “brutta razza”, è anche vero che essa offre un ‘rifugio’ a un Io tanto difficile da autodefinire… Secondo Lei è possibile trovare un’identità autentica, che non muti? Se sì, dove?

Mah, oddìo, al giorno d’oggi direi che identificare uno dal punto di vista regionalistico è molto superficiale. A parte il fatto poi che io sono emiliano fino a un certo punto: certo, lo sono, ma sono cresciuto in un paesino al limite… anzi, adesso Pavana è in Toscana, anche se è sul confine, anche se è una Toscana molto annacquata. Mio padre era di Pavana, quindi io ho trovato modo di vedere che fra i miei parenti di Pavana e i miei parenti di Carpi (mia mamma è una carpigiana) c’è una differenza enorme dal punto di vista culturale: come livello di studio erano identici, cioè non avevano studiato, ma come cultura profonda, di radici, insomma… molto, molto diversa. E io partecipo più a quella pavanese che a quella emiliana vera e propria: Modena mi è sempre andata stretta, ecco… A Bologna poi sono arrivato nel ’60: era una Bologna molto diversa da quella attuale, e quindi non è che io sia proprio un emiliano, anche se il mio accento è emiliano, ma con tante piccole inflessioni toscane: dico ‘pósto’ e non ‘pòsto’, dico ‘pèsca’ e ‘pésca’, distinguo altre cose, ad esempio, che cadono alla toscana: dico ‘perchè’ all’emiliana invece che ‘perché’ alla toscana, per dire; sono imbastardito perché da piccolo ho imparato a parlare a Pavana. E non mi definirei assolutamente emiliano. Poi certo fare al giorno d’oggi una distinzione come fanno certi padani, insomma, certi leghisti, da ‘Patria padana’, mi sembra assurdo.

Cos’è l’appartenenza? L’emilianità somiglia di più ad una sorta di appartenenza o ad un’identità?

Si tende ad appartenere a una cultura… ammesso che questa cultura ci possa ancora essere, però, perché oggi la televisione livella tutto, praticamente. Si trova poi più una cultura nei piccoli centri, che rimangono ancora attaccati a certe tradizioni, che nelle città: qui ovviamente c’è più mescolanza, più fermento. Personalmente, a Pavana sento ancora questo senso di appartenenza: è un piccolo popolo, sono ancora molto legati gli uni agli altri, se c’è un funerale ci vanno tutti, ci si aiuta… Non sono sempre solo rose e fiori, intendiamoci. Però c’è un’appartenenza. Politicamente parlando, al paese ho degli amici di vecchissima data che sono completamente diversi da me: io sono di Sinistra, loro non lo sono; però ci conosciamo da tanto tempo. Ho un amico che tutte le mattine va a comperare per sé il giornale: per me compra L’Unità e Repubblica, poi me li porta a casa, per dire. Quest’amicizia non l’avrei in città con uno che la pensa diversamente da me: sarebbe molto più difficile, credo. Là c’è questo senso di appartenere a delle tradizioni: abbiamo passato l’infanzia assieme, abbiamo passato esperienze di fiumi, di boschi. Questo può essere un senso d’appartenenza.

Non mi dilungherò sul carattere politico delle Sue canzoni, sul quale è già stato detto molto, se non per osservare questo aspetto della Sua opera da un punto di vista più filosofico che ideologico. Lei racconta un tentativo di rivolta sociale e politica che ha avuto un inizio ed una fine storici, ma pure la ricerca di un’intima coerenza della Sua vita privata che continua tuttora e che diventa rivolta quotidiana, discreta e costante. A Suo parere, può essere la rivolta (sociale e/o privata) una forma di identità, un tentativo di afferrare/affermare se stessi?

Mah, io non sono d’accordo sul fatto che le mie canzoni siano ‘politiche’; o quantomeno, lo sono perché ciascuno di noi è un individuo politico, ma più che altro, se devo proprio definirle, direi ‘esistenziali’, da un certo punto di vista, ma assolutamente non politiche. Ho sempre detto che fare una canzone politica è come fare l’inno alla squadra di calcio: se uno fa l’inno alla squadra di calcio o lo fa positivo o non lo fa. La politica ha bisogno anche della critica, ha bisogno anche dell’ironia. La locomotiva forse era una canzone politica, ma qua si ritorna al discorso delle radici: in quel disco c’erano vari aspetti delle radici, e uno di questi era relativo al periodo fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento: ho fatto una canzone ‘à la’, cioè proprio ‘nello stile di’ quelli che facevano canzoni anarchiche in quegli anni: uso parole, nel contesto della canzone, che altrove non userei mai… Non credo a una rivolta fatta con le canzoni, né quantomeno a un certo tipo di rivolta che riguarda secoli passati o esperienze passate, sicuramente non contemporanee.

Lei non crede alla rivolta fatta con le canzoni, ma da un punto di vista esistenziale (della morte, della vita e delle domande che ci si pone al riguardo), c’è un ruolo – e se c’è quale – dell’artista?

‘Artista’ non è una parola che mi compete, io non mi sento artista. Ma il suo ruolo è quello di suscitare pensieri, forse, suscitare non dico meditazioni ma dare qualcosa cui pensare, anche semplicemente raccontando una storia, inventando dei personaggi. A volte, poi, inventando dei personaggi ci si sente – scherzosamente – un demiurgo: io ho scritto dei gialli e mi dicevo “Mah, questo lo facciamo morire? Ma no…”. (Ride). Ovviamente in maniera scherzosa e superficiale. Però le canzoni, i libri hanno un potere… ci son dei libri importantissimi, altri che non sono ugualmente importanti, che però possono anche solo divertire. Che non è poco.

Tutto quanto è arte può formare una persona?

Sì, sicuramente. O, se non formare totalmente, aiutare la formazione. Io ho vissuto di libri, e penso che i libri siano stati molto importanti. Ne vede qui accanto una ‘piccola’ parte… (Ride). Ma sicuramente sono necessari. Poi magari non tutti possono partecipare alla sagra del libro in questo modo, o in genere ci si appaga con molto meno…

Mi può dire quali sono stati i testi che sono stati fondamentali per la Sua formazione?

Oh, beh… (Ride) Questo è molto difficile… difficilissimo da dire…

Magari solo i principali, quelli che Lei considera i più importanti, o cui è più legato…

 

Ho cominciato a leggere Pinocchio a cinque anni, quindi prima di andare a scuola, e da allora non ho più smesso… Da ragazzino tutti i testi di avventura, poi gli Americani (eravamo molto ‘americani’, in quel periodo): Hemingway, Dos Passos, Steinbeck… E in seguito sono arrivati Borges e i classici… E’ difficilissimo rispondere perché sono un grande lettore; ascolto molta meno musica di quanto non si pensi, e invece leggo moltissimo: in una settimana anche due, tre libri!

Lei si è trovato ad esprimersi tramite musica e parole. Cosa si tenta di dire? Perché cercare sempre nuove parole, nuove melodie, nuovi modi di esprimersi?

Cercare nuove parole, nuove melodie, nuovi modi di esprimersi è un po’ grossa…(Ride) Io non lo so perché, è un modo di raccontare, ecco… Da piccolo avevo il desiderio di fare lo scrittore, quindi il narratore: ci sono riuscito con diversi libri, al di là delle canzoni; si cerca sempre di trovare nuovi stimoli, ma che poi si riesca veramente a farlo, è un altro discorso… però non so che cosa tento di dire; cerco di raccontare e, raccontando, di esprimere forse dubbi, paure, perplessità, speranze… Insomma, questo è un po’ il succo. Recentemente ho scritto un pezzo – che si chiama appunto Una canzone – in cui dico che cos’è una canzone: la canzone ha tante cose dentro: può essere allegra, può esser triste, può raccontare di una persona, può raccontare di un ricordo… sono tante le cose che una canzone può raccontare.

Perché, secondo Lei, l’Uomo non può fare a meno, o meglio: continua a raccontare?

L’Uomo… mica tutti, voglio dire… a molta gente forse non frega niente (ride), a molta gente non frega niente di questo. Certuni lo fanno, ma non credo che sia una condizione umana totale. A volte sì a volte no, non è che sia così diffusa, questa cosa…

Gulliver si ostina a narrare “vuoti gusci di parole” a chi non capirà il senso delle sue avventure, i Suoi Cirano e Don Chisciotte lottano malgrado tutto contro la mediocrità, Odỳsseus e Cristoforo Colombo inseguono ciascuno il proprio sogno con tenacia al limite dell’eroismo, anche se “la memoria confonde e dà l’oblio”… Cosa si cerca, in realtà? Perché la conoscenza non basta mai?

La conoscenza è fallace, perché non è mai totale; la conoscenza è sempre parziale, non possiamo conoscere e sapere le cose veramente: si va per intuizione, ma la conoscenza totale non c’è. Dicevo però che Gulliver è diverso da quegli altri, è proprio l’impossibilità di trasformare un’esperienza personale in un’esperienza collettiva. Gulliver racconta ma gli altri non capiscono, perché non hanno visto; ecco perché i “vuoti gusci di parole”: perché le parole ballano, le parole non hanno mai un significato preciso, dato una volta per tutte… il significato varia a seconda del tempo: spesso nella storia delle parole si parte da un significato e si arriva ad un altro addirittura opposto. Ricordo che da piccolo mio nonno mi diceva di non fare del ‘bordello’, e io pensavo a ‘confusione’… solo da più grande ho scoperto che il significato vero della parola ‘bordello’ era un altro. (Ride) Non ho lottato contro la mediocrità, ma proprio contro l’essere chiusi in un sistema; più che lotta contro la mediocrità è lotta contro un sistema che chiude: ecco perché Don Chisciotte parte, ecco perché Cristoforo Colombo va… E’ il discorso relativo anche a Odỳsseus, che “dei remi fa ali al folle volo”, come dice Dante. Questi personaggi devono cercare, sapendo però che è impossibile conoscere veramente, sapere veramente.

In componimenti come Lettera o Vite Lei sembra negare la possibilità di scoprire ciò che in una canzone del 1970 dal titolo emblematico chiamava “la verità”: “Non sappiam più cosa dire,/ma non c’è niente da sentire,/ogni discorso s’è perduto/nell’urlo dolce di un minuto…”. Poiché “nel nulla sfuma ormai la verità”, se ne può forse cogliere un po’ “mentre l’ora se ne va”, ma “in quattro re non hai la verità”. Questa negazione si trova in molte altre canzoni gucciniane, prima fra tutte Quello che non…, di cui però Lei, in un’altra occasione, ha minimizzato il valore ‘filosofico’ (“Una negazione che tutti hanno definito montaliana e che invece è, più semplicemente, lo sfogo di uno…”). Fino a che punto, allora, la negazione è ‘una questione privata’ o in che misura, invece, potremmo definirla intrinseca, relativa alla verità di cui parlano questi versi?

E’ il discorso che facevo prima. La ricerca di un qualche cosa che dev’essere fatta anche se si sa bene che non si arriva alla vera conoscenza, non si arriva alla vera Verità, diciamo. Forse chi ha una Fede allora pensa… o c’è chi crede ciecamente nella Scienza, ma anche gli scienziati congetturano su universi probabili, non su universi sicuri…

Poi forse anche quella è una forma di fede… no?

Beh sì, però la fede uno ce l’ha, crede in certe cose e buonasera, ecco. Invece l’atteggiamento di chi non ce l’ha è quello che dice “Mah, io cerco, perché sento questa spinta, anche se so che alla Verità non si arriva”. C’è un’altra canzone, quella della Bambina portoghese, che è fatta proprio di due tronchi: l’inizio e la fine contrastano con quelli centrali… A quei tempi certi amici, certi conoscenti, giuravano sulla fede politica, e quindi avevano la verità in tasca; io sostenevo che era impossibile, conoscere veramente, anche attraverso una fede politica (che è un altro tipo di fede, appunto). E la Bambina portoghese è invece questa adolescente che, trovandosi in un punto geografico particolare, cioè alla fine del continente europeo, l’inizio dell’Atlantico, intuisce un qualche cosa che può significare: come quando ci si trova di fronte a certi problemi linguistici, nei quali sembra di avvicinarsi alla soluzione ma poi la soluzione sfugge via… Ecco, l’adolescente spensierata ha un attimo di…e poi lascia perdere, insomma, aveva altre cose da fare. Forse con un’intuizione si può arrivare vicino alla Verità, ma senza toccarla, senza mai riuscire a metterci le mani sopra.

Gulliver sembra non capire, “con la mente grossolana del gigante”, il segreto di quest’universo “quasi esagerato”: afferra solo, e con precisione ‘urlata’, che “da tempo e mare non s’impara niente”. Ma qual è la domanda cui lui come il mittente di Lettera e molti altri protagonisti delle Sue canzoni non trovano risposta?

E’ quello che ho detto: cioè, è in questione il problema di trovare un qualche cosa che in fondo è impossibile trovare. L’universo è “quasi esagerato” perché è troppo grosso, voglio dire… (ride) qualcuno di noi ogni tanto legge sul giornale che esplodono galassie, poi ci sono i buchi neri, poi ci sono miliardi e miliardi di stelle… e allora uno pensa alla Terra così grande e così piccola allo stesso tempo e dice “Ma allora io che cosa sono qui in mezzo?”. Poi naturalmente si fa come la Bambina portoghese: si pensa ad altro, si fanno altre cose… E quindi sono questi i momenti particolari che dànno la misura della nostra condizione, della nostra povera condizione. Fortunatamente il più delle volte pensiamo ad altro: pensiamo, non so, “questa sera vado a cena con degli amici”, “domani andrò al cinema”, “dopodomani… devo rifare il bollo della macchina”, cose che sono contingenti. Il bollo della macchina… se uno pensa veramente ai miliardi di galassie che ci sono uno dice “Ma cosa me ne frega del bollo della macchina?”; eppure bisogna farlo, perché se faccio un viaggio e mi trovo senza bollo mi fan la multa… anche se io non ho la patente.

Risposta non c’è, ma in una canzone (Shomér ma mi-llailah) si propone la domanda come unica risposta possibile: “Ma ora capisco il mio non capire/che la risposta non ci sarà/che la risposta sull’avvenire/è in una vice che chiederà:/Shomér ma mi-llailah?”. Come può una domanda tanto profonda soddisfare se stessa?

Beh, perché bisogna domandare!

Ma se non c’è risposta che senso ha questo anelito a cercare?

L’anelito a cercare dev’esser fine a se stesso e basta! Deve bastare, perché se no non c’è soluzione. Voglio dire che altrimenti uno si affloscia, dice “Chissenefrega! Basta, tanto…”. Invece no, deve andare avanti, sforzarsi, continuare a domandarsi, continuare a leggere, continuare ad avere degli interessi di un certo tipo, altrimenti è finita.

Allora domandarsi potrebbe essere un senso…

Certo, è l’unico senso, forse. E’ proprio la risposta della sentinella, che dice “La notte sta per finire, ma il giorno non è arrivato, comunque tornate, domandate, insistete…” Isaia dice questo, no? “Risposte non ne ho, ma l’importante è che voi torniate a domandare, insistere, chiedere”.

Quindi anche cercare altre vite, o immaginarsele, è un po’ immaginare le domande degli altri?

Quello sì, può essere una soluzione, ma soprattutto è essenziale continuare ad essere curiosi.

Lei attribuisce un senso alle domande che ci si fa, per quanto queste domande non portino ad una soluzione ‘definitiva’…

Non è che sia sempre lì a farmi queste domande…

Certo… ma qual è il ruolo di questo ‘senso’ di fronte al pensiero della morte?

(Sospira) La scorsa settimana è morto un amico che aveva due mesi in più di me; ero con altri amici al funerale e dicevamo tra noi che c’è un tempo in cui si va solo a dei matrimoni e poi c’è un tempo in cui si va solo a dei funerali. Il problema è che siamo in lista d’attesa – speriamo non domani, chiaramente… La morte fa paura. A meno che non ci sia, nella vecchiaia, un senso di appagamento della vita, per cui uno dice “Ormai è finita, ho fatto quello che dovevo fare”. Questa poi può essere una speranza: anni fa ho incontrato per caso, su al paese, un anziano che credevo morto da tempo, invece era ancora vivo. E gli dico: “Ma guarda chi c’è, come va come non va, come state?” (là ci si dà del ‘voi’). E lui fa “Cristo si dev’essere dimenticato di me… perché non mi prende con sé? Io non capisco più niente di questo mondo, non capisco più la gente, le abitudini…”: si sentiva un sopravvissuto. Ora credo che sia morto, parlo di diversi anni fa. C’è caso che la vecchiaia appaghi, forse. Ma vedo, d’altra parte, degli anziani ancora attivissimi, che lavorano; penso a Enzo Biagi, che avrà più di ottant’anni (ottantatre, ottantaquattro…?)[ancora in vita al momento dell’intervista, ndr.], che conosce la morte: gli è morta la moglie, l’ha vissuta da vicino perché ha avuto diversi by-pass… però è ancora attivo, è ancora vivace. Tuttavia, pure nella sua attività, coltiva una specie di… una specie di rassegnazione. Ecco, penso che forse si arrivi anche a questo, tutto sommato, o almeno lo spero.

Lei non l’ha raggiunto?

No, questo no. Ma poco a poco ci sia avvicina. Quando si è giovani ci si ritiene immortali, perché c’è tanto, tanto tempo davanti; poi passati i cinquanta uno si rende conto che gli anni che ha vissuto sono sicuramente meno di quelli che avrà da vivere, perché a meno che uno non diventi centenario – caso rarissimo –si muore prima dei cento. Allora uno comincia a pensarci: “Insomma, i cinquanta che ho vissuto sono di più di quelli che mi spettano, mi toccano…”. (Sospira). Certo, questi sono pensieri così, come dicevo prima non è che ci pensi tutti i giorni. E però, quando muore un amico, com’è morto Gaber, com’è morto Victor Sogliani, com’è morto Bonvi, come Augusto dei Nomadi, De André, tutti in maniera diversa, ma sono compagni di strada, che ho conosciuto… li ho conosciuti quando eravamo tutti più giovani. E questi sono già andati, ci siam già salutati… tiriamo avanti, cerchiamo di pensarci il meno possibile.

Se “Dio è morto” è anche vero che risorge nella speranza del “mondo che faremo”. In “Cirano”, poi, Lei sfida non solo i preti, che nel loro cuore hanno già tradito il loro Dio, ma anche i materialisti, col loro “chiodo fisso/che Dio è morto e l’uomo/è solo in questo abisso”. Vorrei chiederLe – ma, essendo una domanda molto personale, può non rispondermi: Lei nutre una sorta di ‘laico senso o sentimento del sacro’? E se la risposta è affermativa, cosa è ‘sacro’ che trascende anche Dio?

I preti e i materialisti sono diverse facce di uno stesso integralismo; ovviamente non tutti i preti e non tutti i materialisti sono così. L’integralismo per me è un gran difetto, perché l’integralista è sicuro della propria verità, e per la propria verità compie anche misfatti orrendi, e questo tutti gli integralisti, siano essi cattolici, siano essi musulmani, o ebrei. Io ho un senso, da laico, da agnostico (non sono ateo perché si fa troppa fatica: essere agnostico è una via, per così dire, ‘di mezzo’…), ho un vago senso di… di… un panteistico senso delle cose, della natura; io penso che dopo la morte non ci sia niente, però penso sempre ai miei vecchi, quelli di Radici (e così torniamo all’inizio di questa chiacchierata), come se ci fossero ancora, come se fossero presenti, anche se so benissimo che non lo sono più… Più che il senso del sacro, un senso… di spiritualità, senza chiamare in causa l’anima (ovviamente non credo all’esistenza dell’anima), però un senso di ‘umanesimo’. Ecco, questa forse è la parola giusta. Quindi il sacro dell’umanesimo, il sacro dello spirito umano che si domanda, che cerca di andare avanti, a volte soprattutto sapendo che non risolverà se stesso dal punto di vista di una ‘coscienza che si placa’, ma di una coscienza che sempre dev’essere in movimento.

a cura di Linda Altomonte
Redazione Centro Studi ASIA