Dialoghi sulla coscienza di esistere tra Parmenide e Buddha.

Le vie del domandare

Che cosa accomuna filosofia e meditazione?  Potete capirlo dal fatto stesso che ce lo stiamo chiedendo. Le unisce l’atto di domandare.

Quando c’è solo l’atteggiamento del rispondere le culture si induriscono e si allontanano. Ma per arrivare a una risposta, bisogna essersi fatti una domanda. Il domandare è la cosa più preziosa che abbiamo.

Spesso si confonde la formulazione della domanda con lo stato di domanda. Lo stato di domanda può essere anche pre-verbale, non ha bisogno di una precisa formulazione, è solo aperto su qualcosa di non concluso. Ad esempio, la bellezza di questo vaso con due orchidee, chi può dire di comprenderla? Non la sappiamo penetrare e leggere a fondo, restiamo aperti su di essa. Quel senso di apertura, che è un profondo domandare, accomuna il filosofare con il meditare.

Quindi non si medita rispondendosi –  chi si risponde ha già la sua nozione in tasca e non ha bisogno di meditare. Piuttosto, la meditazione ha un che di incantamento stupito. Di fronte a qualcosa di affascinante o anche solo sconosciuto ci si ritrova in uno stato sospeso. Il coraggio di stare in uno stato aperto è la matrice della filosofia, del sentimento estetico, del sentimento religioso. In ultimo è la matrice di ogni ricerca.

Meditare significa tornare ad uno stato sospeso in cui si è meravigliati dell’esistenza del mondo e della propria esistenza, delle cose belle così come delle cose banali. Non troverete mai qualcuno che disdegni il momento della sospensione e della meraviglia, perché è alla scaturigine di ciò che di più degno e rispettabile noi abbiamo. Tutti hanno rispetto delle espressioni artistiche o delle intuizioni scientifiche in cui, qualcuno, genialmente riapre i giochi e ci fa vedere del nuovo, dell’inatteso. Albert Einstein disse una cosa molto bella: “Il genio si muove tra il semplice e il banale.” Lui per scardinare i fondamenti assunti dalla fisica precedente, si è fatto domande tra il semplice e il banale. Si vede che poi non erano così banali, solo apparivano tali.

Tra Parmenide e l’India: cosa significa essere?

Prendiamo alcuni semplici termini che sono fondamentali per la filosofia occidentale. Il Parmenide “venerando e terribile” secondo Platone, disse: “L’essere è, il non essere non è”. Le cose che sono, sono; le cose che non sono, non sono. Ovvietà, banalità. Sta di fatto che ha tirato una linea tra due significati che a tutt’oggi restano cruciali ed insorpassabili. Per indicare “essere”, in sanscrito si direbbe “Sat”, ma è un termine che significa diverse cose, sia essere, sia realtà, sia verità. Per indicare “le cose che non sono” – il niente di Parmenide – in India la parola che hanno usato è “shunyata” o “tathata”: vacuità o così-ità. Gli Indiani sono stati i veri ideatori-scopritori dello zero in matematica. Era rappresentato da un cerchietto con un puntino in mezzo, e la parola per indicarlo era shunya che vuol dire vuoto, assenza, e un po’ forzandola anche niente. Sta di fatto che hanno intuito il valore di orientare l’attenzione verso qualcosa che non c’è.

Per continuare a muoverci tra il semplice e il banale, ora vi vorrei chiedere: noi sappiamo così, immediatamente, che ci siamo;  ma mi sapreste dire che cosa significa essere?

Molti direbbero che “essere” significa essere descrivibile, percepibile o interpretabile. Però è anche vero che la descrizione, la percezione e l’interpretazione  “ci sono”. E allora?  Il problema si è solo spostato. Qualsiasi significato proviate a dare a “essere” vi trovate a introdurre qualcosa di già essente per spiegarlo. Allora che vuol dire essere?

Come è nato lo zero?

Proviamo a fare un esperimento mentale: mettiamoci nei panni di quel dotto bramino indiano che sentiva che nel far matematica mancava qualche cosa, un significato che poteva divenire capitale per potenziare il calcolo.

Quel bramino ha intuito che poteva simbolizzare il niente con lo zero. Si è detto: qui, di “x” ne ho un bel “niente”! Però lo scrivo che non ce n’è “niente”. Ma che intuizione è quella del niente? Cosa ha visto un giorno quel bramino, per poi scrivere lo zero?

Un primo esperimento:  quanti sono questi ramoscelli di orchidee?

Persona: due.

Franco Bertossa: e il terzo ramoscello di orchidea?

Persona: non c’è.

Franco Bertossa: noi sappiamo dire che “non c’è”. Infatti cogliamo “niente” come assenza in confronto a una presenza lì vicino; cogliamo che il terzo fiore non c’è perché c’è qualcosa – i due fiori a fianco – con cui confrontarlo e così, per confronto, capiamo cosa vuol dire “niente”.

Ora un secondo esperimento: nel caso vi sia una cosa sola, potremmo intuire il niente senza la possibilità di confronto con una presenza? Prima di chiedercelo, vorrei che qualcuno portasse un esempio di “una cosa sola” per eccellenza.

Persona: Uno.

Franco Bertossa: va bene, ma uno è un numero, e ci sono tanti altri numeri.

Persona: l’individuo.

Franco Bertossa: ma siamo tanti individui. Una cosa sola, unica.

Persona: la materia, l’energia.

Franco Bertossa: più semplice.

Persona: l’Universo.

Franco Bertossa: Giusto, l’Universo. Uno può dire: “ma ci sono tanti altri Universi”. Va bene, ma noi possiamo considerarli tutti insieme come il vero “Universo”. È tutto ciò che c’è.

Infatti l’etimologia di Universo consiste di unus e  versus e otteniamo “raccolto in un’unità”. Lo chiamiamo un-iverso perché è la sola cosa, è l’idea che noi abbiamo per intendere “il tutto”.

Allora adesso consideriamo l’Universo; ce lo possiamo rappresentare con questa bottiglia… Tutte le cose possibili, questi fiori, questo bicchiere, stanno all’interno della bottiglia, all’interno dell’unica cosa. Allora potremo forse intuire – non per confronto con altro, come prima – il vero significato di “niente”, quello che affiora quando prendiamo in considerazione che c’è una cosa sola. Quel bramino ha visto che 1 è ben diverso da 0, che qualcosa è ben diverso da niente!

Chi ha creato Dio?

Vi ricordate il catechismo? Entrava il catechista e chiedeva: “Bambini, chi ha fatto il mondo?”. E tutti: “Dio”. Poi c‘era sempre un bambino che tirava la tonaca al frate e chiedeva: “Padre, ma Dio chi l’ha fatto?”. Nel chiederlo, stava facendo un’operazione metafisica straordinaria: gli era stato proposto il mondo da una parte (la bottiglia) e Dio dall’altra (il vetraio), ma lui faceva l’operazione di metterli insieme, metteva il vetraio sulla bottiglia e chiedeva: “Ma tutti e due, Dio e il Mondo, chi li ha fatti?”. L’obiezione suscitava, allora come ora, un attimo di perplessità, di imbarazzo. Nils Bohr, uno dei geniali padri della fisica quantistica, diceva che quando si arriva ad una contraddizione imbarazzante vuol dire che si sta per capire qualcosa. In questo caso restiamo perplessi perché ci eravamo affidati ad una concezione duale, creatore e creato, ma un bambino intuisce che è possibile ridurli a “uno”, il tutto in questa bottiglia. Ora, vedendo tutto dentro alla bottiglia, compreso il vetraio (Dio), che domanda vi viene in mente?

Persona: Qual è la causa prima?

Franco Bertossa: fingiamo che questo foglietto rappresenti la causa prima: ora lo metto nella bottiglia, in quanto la bottiglia include tutto quello che c’è.

Persona: cosa c’è fuori da “uno”, da vetraio-foglietto e bottiglia?

Altra persona: niente!

Franco Bertossa: giusto… non c’è niente, è tutto qui.

Persona: quale è il principio generatore della vita?

Franco Bertossa: quel principio posso rappresentarlo con questo quaderno, e ora lo metto insieme al resto! Come vedete tutto quello che aggiungiamo diventa “uno”. Allora come traduciamo la perplessità che proviamo quando vediamo “il tutto”? cosa vuol dire “essere”?

Persona: che c’è qualcuno che lo sta vedendo?

Franco Bertossa: E’ dentro al tutto anche lui!

Persona: che c’è, che esiste.

Franco Bertossa: ma la domanda è proprio questa: cosa vuol dire “che esiste”?

Persona: che esiste in contrapposizione al nulla.

Franco Bertossa: ecco, questo è il punto. Esiste in contrapposizione a nulla. Questo universo, rappresentato da bottiglia e vetraio, etc., non ha un secondo universo con cui confrontarsi. Come ci possiamo rendere conto che c’è, se non in contrasto col nulla?

Il nulla e il sentire che lo accompagna

Franco Bertossa: Che domande vi suscita il nulla?

Persona: potremmo mettere il nulla insieme agli altri oggetti nella bottiglia?

Franco Bertossa: no, perché sarebbe un qualcosa, non sarebbe nulla.

Persona: ma il nulla è solo una nostra ipotesi, perché il nulla non esiste.

Franco Bertossa: Appunto, questo è il nulla. Il nulla è precisamente il significato di “non esiste”. L’universo esiste, mentre il nulla non è “un qualcosa che non esiste”. Nulla significa: “non c’è”.

Persona: ma l’universo allora è un prodotto del nulla?

Franco Bertossa: se il nulla potesse produrre qualcosa, non sarebbe “nulla”;

Persona: il nulla mi serve per accorgermi dell’esistenza?

Franco Bertossa: sì, ma non è qualche cosa. Nulla è nulla. Quel bramino un giorno si è accorto che mancava il significato di “nulla” e  ci ha messo un simbolo, shunya, che semplicemente indica che lì non c’è niente. Quel momento in cui il bramino si è accorto del nulla è lo stesso che riviviamo quando vediamo l’universo con dentro Dio e tutte le possibili cause e spiegazioni, quando si mostra l’unica cosa in contrapposizione al nulla.

Persona: se il nulla non c’è, cosa significa “accorgersi del nulla”?

Franco Bertossa: questo è un aspetto molto importante esperienzialmente. Nel momento in cui realizzi che ci sei, che il tutto c’è in contrapposizione a “niente”, cosa accade? Cosa sentite?

Persona: mi sento vuoto.

Persona: sento l’assurdo, la non giustificazione.

Persona: manca un senso, uno scopo.

Franco Bertossa: sì, manca un rimando ad altro, a qualcosa cui riferirsi. Cos’altro si sente?

Persona: sento paura

Franco Bertossa: Può anche essere. Quando abbiamo paura cerchiamo rassicurazione, protezione, una alterità che ci protegga e rassicuri. Spesso le persone esprimono paura di restare in questo isolamento senza rapporti, e in effetti non c’è proprio alcun rapporto possibile perché stiamo vedendo “il tutto”. Ma la paura è da esaminare meglio.

Leggere i significati del sentire

Franco Bertossa: Potete essere ancora più chiari. Voi lo state già sentendo, ma non sapete quello che state sentendo, perché manca in generale l’educazione a coltivare il significato di ciò che si sente. Partendo da voi, cosa sentite?

Persona: io ciò che sento posso esprimerlo dicendo: cosa ci sto a fare?

Franco Bertossa: Cosa intendi con “cosa ci sto a fare?”.

Persona: Se non posso più rimandarmi a nient’altro, perché allora io non sono nulla? Perché sono qua e non sono nulla? Cosa ci sto a fare? Perché non si dà il niente di me?

Franco Bertossa: E quando ti chiedi questo, che provi?

Persona: All’inizio sicuramente paura, proprio perché non ho una direzione, un senso. Avrei bisogno di sapere perché ci sono. La prima reazione è paura. Purtroppo non è stupore.

Franco Bertossa: (ridendo)… Forse per questo ti vesti di nero? Ti faccio un’altra domanda. Secondo te è solo una speculazione questa, un costrutto mentale? Può questo nostro percorso di pensiero essere solo un’illusione?

Persona: È il pensiero più semplice che uno possa avere… che  io ci sono e il nulla  non c’è. Quindi, forse non è speculazione, perché è il primo pensiero che uno ha. Io mi sento, io parlo, io sono oppure – alternativa – non ci sono; niente. Non è speculazione ma è… non so.

Franco Bertossa: È tra il semplice e il banale. Tu dici anche che la prima reazione è paura. Ma vediamo meglio. Fanno paura questi fiori? No, infatti diciamo “bellezza”. A volte diciamo stupore, assurdo, vuoto, meraviglia. Ma qual è il precursore di tutte queste reazioni? Un attimo prima che questi fiori diventino “belli”, cosa sono?

Prima c’è questo impatto con l’esistenza priva di rimandi e senza sostegno, come quando uno si trova in una città nuova ed è smarrito. Può urlare “Aiuto! Aiuto!”. Oppure può, come nella pratica della meditazione, imparare ad apprezzare il momento e dire: “che interessante, mi sono perso, non so veramente chi sono né perché ci sono… ora me lo assaporo a fondo”.

Possiamo sentirci smarriti e vivere un momento di paura, ma se cerchiamo il precursore  della paura troviamo l’istante in cui si realizza di essere tutto quel che c’è, in contrapposizione a niente. Quando realizziamo che tutto questo, rappresentato ora da queste orchidee, esiste, chiediamoci anche cosa sia più semplice? Questi fiori o niente?

Quanto costa “niente”? Quanto tempo ci ha messo a crescere “niente”? Di che colore è “niente”?  Le orchidee invece, qualcuno si è preso la briga di andarle a comprare, di sceglierle, di portarle qui. Come disse Leibnitz, “perché il niente è più facile…”. Anzi, il niente è totalmente facile e semplice, non chiede nulla, mentre noi stasera siamo qui a ragionare a chiederci. Ecco il contrasto: ci siamo! invece che niente.

A questa consapevolezza ci risvegliamo attraverso il sentire. Il qui presente maestro Ivan Valentini, musicista, conduce incontri sulla musica in cui guida a decifrare il significato di quel che si sente quando si ascolta un’opera d’arte musicale. Come la filosofia, l’arte è capace di suscitare lo stesso sentire che state esprimendo stasera, e lui aiuta a leggere cosa esso significhi.

L’artista sa a cosa ti vuole aprire, e lo fa ad arte. Tu frequenti quell’arte e senti che ti suscita qualche cosa, esattamente quello che l’artista voleva fosse suscitato. L’arte è una via. La meditazione è una via. La filosofia rigorosa è una via.

Stranezza e coscienza di esistere

Franco Bertossa: Abbiamo parlato di un precursore, di un istante di impatto con l’esistenza in contrasto col nulla, a cui segue una reazione. Cosa sentiamo in quel momento?

Persona: mi tornavano i termini usati prima, sento che non è scontato esserci.

Franco Bertossa: possiamo rintracciare qualcosa di più originario ancora. Prima di dirci che non è scontato, cosa avvertiamo?

Persona: è questione di  un attimo… esserci in quell’attimo di sorpresa.

Franco Bertossa: forse qualcosa di più che sorpresa. Facciamo un altro esperimento: immaginate di entrare in una casa che conoscete bene, dopo essere stati via, magari per un viaggio, e nel frattempo hanno spostato un mobile, o dato una tinteggiatura. Prima ancora di capire cos’è, sentite qualcosa… come lo esprimete?

Persona: “che strano!”

Franco Bertossa: Esatto. Non sai ancora cosa è strano, ma è strano. Poi ti dicono: “Abbiamo cambiato un mobile” e pensi: ecco cos’era, lo sentivo senza sapere bene cosa! Allora, quando noi ci rendiamo conto che esiste il tutto, c’è un sentire che “qualcosa non torna”. Cos’è che non torna?

Persona: io non riesco a staccarmi dall’idea del nulla.

Franco Bertossa: sì, ma ciò che non torna non è il nulla, bensì il suo contrario: che qualcosa c’è. La prima avvisaglia del contrasto è la sensazione di stranezza; poi diviene sorpresa, non-ovvietà, stupore, spavento, bellezza.

Ora vorrei concludere, lasciandovi questo stimolo su cui riflettere: che mai, mai e poi mai, si dà un’esperienza che non sia in primo luogo, immediatamente, di stranezza, e che solo dopo diventa “un volto noto”. Sulle prime vi è un momento subliminale, una prima matrice in cui tutto si dà in un lampo di stranezza e solo successivamente diviene parole, luci, mondo.

Questo stimolo è anche una sfida che si offre alla verifica e alla critica. Ad esempio, fate esperimenti di percezione: quando anche solo spostate lo sguardo, vi è un istante, qualche fotogramma di sconosciutezza. Ma, prima ancora, è di stranezza. E quella stranezza è dovuta alla percezione dell’esistere, alla percezione del tutto-invece-che-nulla.

Innata, profonda, radicata in noi, c’è questa coscienza di esistere. La si può ripescare, riaccendere, coltivare. Gli orientali, la tradizione del buddismo zen, lo hanno fatto. Gli occidentali lo hanno fatto solo a lampi: con le filosofie dell’esistenzialismo e della fenomenologia, con la grande arte. Ma in Occidente non sono diventate una pratica, una via. La nostra epoca è piena di panico, di smarrimento, perché questi momenti di apertura in cui tutto è strano e sconosciuto sono diffusi, ma non c’è una cultura capace di accoglierli.  Al contrario, spesso sono letti come patologie.

Nella filosofia e nell’arte occidentali vi sono stati genii capaci di risvegliare ed esprimere in modo straordinario questi momenti di apertura, ma raramente di integrarli nella vita. Le persone si risvegliano all’esistenza, ma sovente ne vengono bruciate perché non ne sono dovutamente consapevoli, non ne intendono il significato e le rette implicazioni. L’Oriente ha coltivato questa consapevolezza e il buddismo si è reso conto che questo risveglio è il momento cruciale per l’uomo e che bene inteso può portare alla fine della sofferenza. Lo ha chiamato vacuità, shunyata. Non fondamento, ma vacuità. Stupore, sospensione. E propone una via per educarsi a stare in questo.

Un testo molto importante del buddismo, il Vimalakirti nirdesa sutra, ci dice che occorre “imparare la paziente sopportazione del non-creato”.

Buona ricerca.

(Asia Modena, 26 novembre 2006)