Il seguente aneddoto Chan (lo Zen originario cinese) è esemplare. In esso troviamo la peculiare trasmissione I shin den shin, “dal mio cuore al tuo cuore”. Il protagonista è un giovane monaco zen, Shih-shuang.

Un giorno Shih-shuang stava setacciando del riso quando il maestro Kuiei-shan gli disse: “Non dovresti buttare ciò che i benefattori del nostro monastero ci hanno dato”
Shih-shuang disse:”Non butto niente”
Kuei-shan prese un granello di riso da terra e chiese: “Tu dici di non buttare niente… da dove viene fuori, allora, questo?”

Inizia l’azione del maestro. Egli crea volutamente una speciale ambiguità, nel senso che la domanda ha possibili risposte ragionevoli, come “mi è caduto, mi dispiace”, “viene dalla spiga che lo ha generato, che viene dalla terra e dal seme” ecc., e nel contempo ha una potenzialità diversa, tutta speciale.

Shih-shuang non seppe cosa rispondere…

L’incapacità di rispondere del giovane non è dovuta, ovviamente, all’imbarazzo per la negligenza; egli sta cogliendo la possibilità che il maestro gli offre. Una porta dell’intuizione gli si sta aprendo. E’ fondamentale il ruolo del maestro: egli ora tiene nel palmo della mano il chicco e continua a tenerlo di fronte allo sguardo di Shih-shuang. E’ un maestro e sa cosa fa; ogni suo gesto, ogni sua parola sono volti a risvegliare la coscienza dei suoi monaci. Mentre Shih-shuang continua a fissare quel chicco la sua coscienza sussulta. Vive una trasposizione: da addetto alla cucina a misterioso abitatore del cosmo. Egli vede il chicco di riso alla luce delle parole del maestro “da dove viene fuori questo?” e coglie l’esistenza di quel chicco di riso, la sua singolare, misteriosa esistenza. Gli pare di vedere un chicco di riso per la prima volta.
Certo che potrebbe dire che quel chicco di riso é venuto fuori dal setaccio o che é cresciuto su una piantina di riso germinata da un seme precedente e così via, ma i suoi occhi si stanno aprendo sull’esistenza e queste risposte non valgono più. Egli vede l’universo intero in quel chicco e una sottile perplessità, che pretende ben altre risposte, s’accende fino a diventare muta meraviglia.

Il maestro Kuei-shan continuò: “Non disprezzare questo granello di riso, centomila chicchi nascono da quest’unico granello”.

Un maestro Chan è tale per aver lui stesso già vissuto il risveglio al mistero dell’esistenza a partire da quella perplessità radicale, così al maestro Kuei-shan sicuramente non è sfuggito il momento di apertura nella mente dell’allievo, ma per accertarsene insiste in quell’ambiguità che permette soluzioni sul piano ordinario, in questo caso sotto forma di rimprovero in termini di morale convenzionale, con sfumature spirituali e forse anche intendendo che quel singolo chicco ha la capacità, come ogni “banale” cosa esistente, di risvegliare la coscienza (centomila granelli nascono da quest’unico granello).
Ma il giovane è sulla via decisiva, gli si sta veramente aprendo la mente e sta già contemplando, rapito ed incapacitato, il mistero della nuda esistenza “al di là di cause e condizioni”:

Shih-shuang replicò:
“Sì, centomila granelli nascono da questo granello, ma questo granello da dove nasce?!”

Ecco la conferma! Ha realizzato il mistero dell’esistenza di ogni singola cosa e di tutto. Tutto in uno, uno in tutto, cantò Seng-ts’an, il terzo patriarca Chan, nel celebre Hsin-hsin-ming.

Quando leggo questa storia mi commuovo pensando, oltre al momento straordinario in cui la coscienza di quel giovane s’illuminò, anche a quanto può aver provato il maestro in quella circostanza. Un maestro vive per questo e quando riesce a trasmettere quello che ha già cambiato anche la sua vita, prova una gioia non esprimibile nei termini delle emozioni umane.

Il racconto continua:

Il maestro Kuei-shan rise forte e tornò in camera sua. La sera salì nella sala e disse (rivolto a tutti i monaci): “Attenzione tutti voi! Qui c’è un verme nel riso! ”.

E’ un modo Chan di esprimere gioia ed approvazione. I chicchi di riso sono incoscienti, ma un verme è vivo. Così è con gli uomini. Solo talvolta s’accorgono di essere vivi e si risvegliano alla consapevolezza del meraviglioso mistero in cui si trovano ad esistere.

Qual meraviglia soprannaturale,
Che miracolo è questo?!
Io attingo l’acqua dal pozzo,
Io porto la legna…!

Aveva cantato il grande P’ang Yün, morto all’incirca quando Shih-shuang nasceva.

La domanda che può ora legittimamente sorgere è perché accorgersi del mistero dell’esistenza significhi illuminazione liberatoria.
Si potrebbe, con qualche ragione, sostenere che scoprire l’intrinseco ed ineliminabile mistero dell’esistenza equivalga ascoprire il non senso dell’esistenza e perciò l’infondatezza di ogni valore e di ogni criterio di vita, “e proprio questa é la nostra malattia!” potrebbe gridare qualcuno.
Ebbene, finché non si risveglia la “mente dell”illuminazione”, non si può obiettare nulla a queste critiche alla luce della sola ragione.
Ma proprio per questo il buddismo Chan trasmette direttamente I shin den shin, da maestro ad allievo, ponendo inoltre la meditazione come momento fondamentale, per rapportarsi al mistero in modo più profondo ed autentico.
Le risposte che potrei proporre agli scettici con le sole parole non basterebbero mai. Occorre illuminarsi e quel che qui sostengo è che l’illuminazione è possibile anche oggi, anche a chi ora sta leggendo, come lo era in passato in Cina o in India.
La storia della spiritualità orientale è costellata di questi eventi e sicuramente questo accade alle coscienze degli esseri umani di tutto il mondo, ma altrettanto sicuro è che l’Oriente più di tutti ha saputo valorizzare questi momenti di risveglio edificando una cultura a partire da essi.
Non voglio con ciò sostenere che le loro civiltà siano superiori alle altre e a quella occidentale. Credo che ogni cultura abbia la propria peculiare preziosità. Io sono occidentale e mi piace esserlo. Amo la nostra filosofia, l’arte, le scienze e le mille domande che un occidentale si pone. Ma vi è stato un momento nella mia vita in cui l’Occidente non poteva aiutarmi: quando ero un giovane disperato che urlava la propria domanda di senso all’universo e l’universo taceva, per dirla alla Camus.
Durante quei dieci anni di vuoto l’occidente non poteva aiutarmi, poiché le sue menti migliori, quelle menti che oltre ogni fede, religiosa o politica, osavano accogliere TUTTE le domande, soprattutto le più radicali, erano nelle mie stesse condizioni.
E sebbene fossi appassionato di scienze, allora realizzai quel che Heidegger aveva inteso con “la Scienza non pensa”: essa non ha in sé il pensiero per auto fondarsi, non è capace di fondare i propri presupposti ed è perciò fin dal principio incapace di orientarci nelle grandi domande di senso e di valore.

Le spiegazioni razionali, categoriali, non possono risolvere il mistero dell’esistenza.

La scienza è una figliazione della filosofia e necessariamente subordinata a questa; per di più, nel ‘900, la scienza prevalente è solo scientismo, un mero aspetto degenere del positivismo. Essa non tollera tutte le domande perché non è capace di affrontarle né di sopportarle.

Fu allora che un incontro fortuito (!) con la sapienza orientale mi impostò il problema fondamentale e mi aprì all’aspetto più affascinante e stupefacente del mistero dell’esistenza. Quel che ha vissuto il giovane Shih-shuang l’ho vissuto anch’io e posso datare il momento preciso in cui mi sono risvegliato al fatto meraviglioso che esisto. L’Oriente ha mantenuto le sue promesse. Dopo di me ho visto germogliare quel chicco di riso in tanti giovani che partivano dalle mie stesse domande di senso.

Il dolore, quel dolore profondo che svuota la nostra anima dei colori del mondo, ponendo su uno stesso piano, quello del niente, ogni prospettiva, ogni valore, quel dolore può cessare.
E questa è la promessa che l’Oriente è in grado di mantenere.

Il giovane Shih-shuang, e prima di lui il giovane Siddhartha Gautama, futuro Buddha da cui il Chan deriva, hanno vissuto lo smarrimento esistenziale.
Riflettiamo un attimo sulla parola “smarrimento”.
Pensiamo ad un ragazzino di 13, 14 anni che comincia ad aprire gli occhi sul mondo.
In lui si accendono quelle perplessità alle quali i genitori non riescono più a dare risposte. Entra nella scuola secondaria. Realizza che neppure gli educatori più qualificati possono aiutarlo. Nessuno sa perché esistiamo né perché le cose vadano in un certo modo.
Questo giovane comincia a trarre delicate e rischiose conclusioni: “sono solo e di questa mia solitudine così profonda non ne posso parlare con nessuno”.
Certo anche gli altri giovani vivono la stessa solitudine per gli stessi motivi, ma il fatto è che se non ci si trova inseriti in una cultura che sappia dare nomi ed articolazione a quel che si sente non si riesce neppure a pensarlo né a dirlo in modo efficace.
Così cresciamo in un affollatissimo mondo di isolati (I am not alone in beeing alone, cantava Sting in Message in a bottle) riuscendo a comunicare solo su cose ordinarie o, comunque, assolutamente inadeguate ai nostri più profondi bisogni.
Il risultato è che dai 14 anni ai 25, età in cui ci si comincia ad inserire nel lavoro e perciò si dovrebbe già essere “formati”, la cultura occidentale, oltre una preparazione tecnica che oramai connota anche le facoltà umanistiche, non sa più cosa proporre ai propri figli.
Essi bruciano dal bisogno di senso, ma proprio queste loro domande sono le più temute dagli educatori. Ecco che il disagio diventa ribellione.
Inoltre la sempre più imperante lettura materialista scientifico-tecnica cerca di risolvere il disagio esistenziale con la chimica farmacologica (Prozac e simili), che certamente talvolta è utile e addirittura può salvare vite, ma attenzione al messaggio che così si trasmette, a ciò che il giovane capisce: se il mio disagio è solo biofisico e mi si propone di curarlo coi farmaci, allora tanto vale che faccia da solo: droga.

Nulla è cambiato da quando i Rolling Stones per primi indovinarono il mantra della generazione del dopoguerra: I can get no satisfaction … and I try… and I try…

Da oltre vent’anni lavoro coi giovani e non posso più avere dubbi sul loro reale problema. So che si tratta di una domanda di senso alla quale gli educatori occidentali, a partire dal ‘900, secolo del crollo dei valori tradizionali, in poi, non sanno rispondere.
Ma la domanda di senso è antica, è quel che più ci appartiene, è noi stessi, ed in essa dobbiamo aver fiducia, poiché quel “niente” – niente di senso – che in un primo momento sembra costringerci al nichilismo e alla disperazione, se visto più da vicino, se ci s’illumina ad esso, mostra un Niente ben più significativo, l’unione di Beatitudine e Vacuità, meraviglia senza fine, come dicono i buddisti, la liberazione definitiva dallo smarrimento e dalla sofferenza dell’anima.
E anche su questo non posso più avere dubbi, l’ho già visto succedere troppe volte, ho già visto decine di giovani e non più tali, uscire dalla disperazione più cupa e fiorire affascinati dall’indicibile meraviglia del fatto di stare esistendo.

Il messaggio di Buddha è profondo e onnipervasivo:

Esiste il dolore
Il dolore ha un’origine
Il dolore può cessare
Vi è una via che porta alla cessazione del dolore.

Questa via può iniziare esattamente dove tu ti trovi, nel tuo niente, là dove urli I can get no satisfaction, e terminerà esattamente dove tu ti trovi, ma l’insoddisfazione sarà solo un incubo lontano da cui ti sarai risvegliato.

Maestro,
le montagne, i fiumi,
le centomila cose…
da dove nascono?
La tua domanda…
da dove nasce?