L’abbandono
di Martin Heidegger,
Il Nuovo Melangolo 1998

 

Martin Heidegger, in una conferenza pubblica del 1952 a Messkirch, letta in occasione della commemorazione del compositore Conradin Kreutzer e raccolta in questo volume(*) a cura di Fabris per il Nuovo Melangolo, introduce in modo del tutto originale il problema della trasformazione del rapporto con le cose, che diviene “industriale”, nel senso che la tecnica si instaura a tutti i livelli dell’agire e del consentire, senza che però l’uomo comprenda il senso di questo dominio. Ma apre anche a un discorso più ampio che tocca il problema dello sradicamento dell’uomo dalla sua terra, l’impoverimento del pensiero che diviene prettamente calcolante e, infine, mostra la possibilità di una disposizione diversa verso le cose che permetta di non “perdersi” totalmente nel loro uso.

Lo sradicamento dell’uomo dalla sua terra significa per Heidegger la caduta delle tradizioni rurali, ma pure un impoverimento del linguaggio e un sempre più distante rapporto con la tradizione. Il filosofo vede nella vita quotidiana tutti i segni di una trasformazione profonda, che allontana l’uomo dal campo dietro casa o dal cielo sopra la propria cascina per avvicinarlo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione, ad un mondo meraviglioso ma povero, ordinario: esso giunge nelle nostre vite attraverso le nuove possibilità tecniche – i mass media – che “ci sorprendono, ci incalzano, stimolano la curiosità dell’uomo”.

Heidegger mette in luce chiaramente che l’avanzata della tecnica nelle nostre vite non può non essere legata all’impoverimento del pensiero, che diventa sempre più preoccupato del risultato e dello scopo, che diventa determinato al fine, che “calcola incessantemente nuovi modi. […] Il pensiero calcolante insegue senza tregua un’occasione dopo l’altra, non si arresta mai alla meditazione (Besinnung).” Ma non c’è solo questa possibilità. “Il pensiero meditante richiede da noi che non restiamo attaccati in maniera unilaterale ad un’unica rappresentazione, che non corriamo sempre più oltre su un unico binario, nell’unica direzione in cui ci costringe una rappresentazione”.

Il pericolo su cui Heidegger ci mette in guardia è il dominio di un tipo soltanto di pensiero, che è proprio quello del calcolo e della visione tecnica; in questo modo il nostro pensiero si inaridisce, anche se questo può accadere solo perché “essendo uomini possediamo in fondo al nostro essere la capacità di pensare”.

Egli afferma che la tecnica nasconde un fine che noi, attualmente, non conosciamo. La tecnica non è qualcosa da temere, da rifuggire o da esorcizzare, ma piuttosto essa deve destare in noi nuove domande, come quella riguardo a come sia sorto l’intendimento tecnico dell’ente, che diventa oggetto, strumento, fondo da cui attingere. Il pensatore tedesco, in maniera davvero mirabile, pensa l’ecologia in modo profondo e urgente, quando dice che pur essendo chiaro che la Terra abbia risorse finite, il ciclo tecnico si comporta come se il fondo fosse infinito; questo, lucidamente visto agli albori dello sviluppo industriale post-bellico, ora torna d’attualità con l’imminente fine delle risorse petrolifere, dell’acqua, delle foreste vergini, della diversità biologica.

Heidegger si pone e ci pone, infine, una domanda: è possibile riaprirsi a una disposizione verso le cose, che egli chiama oggetti e non più enti(1), che sia al contempo di uso ma anche di disponibilità a lasciarle a se stesse? Occorre, in ultimo, un rapporto con la tecnica che sia un “sì e un no” nel senso non di una incertezza di fronte alle cose, bensì di un’accettazione del loro uso in quanto ” qualcosa che non è nulla di assoluto, ma che dipende esso stesso da qualcosa di più alto”. La disposizione emozionale riconoscibile come un contegno che permette di dire sì e no alla tecnica: egli la chiama abbandono (Gelassenheit).

Heidegger, inoltre, indica che il fatto che ignoriamo dove ci stia portando il dominio tecnico sul mondo è qualcosa che, appunto, ci è sconosciuto. Quindi “il modo in cui ci teniamo aperti al senso della tecnica lo chiamiamo: l’apertura al mistero (Geheimnis)”.
Ci sono dunque due importanti aspetti che Heidegger cerca di risvegliare: un nuovo rapporto con gli oggetti che è un “sì e no” e il fatto che non possiamo fare a meno di stare in rapporto col mistero.
Attraverso questi due cardini, egli tenta di riaprire una possibilità per un nuovo fondamento, qualcosa su cui tornare ad affidarsi, qualcosa per cui abbiano ancora senso le parole di Johann Peter Hebel:
“Siamo disposti o no ad ammetterlo, siamo piante che
debbono crescere radicate nella terra, se vogliono fiorire
nell’etere e dare i loro frutti”.

(*) Nel volume è presente anche un dialogo a tre, “Per indicare il luogo dell’abbandono”. Un’avvertenza dello stesso Heidegger ricorda che il dialogo è avvenuto nel 1944/45, successivamente messo per iscritto, tra un maestro, un erudito e uno scienziato.
(1) Li chiama oggetti e non enti (essenti, che sono) perché ente (o essente) fa riferimento alla differenza ontologica, ossia il fatto che innanzitutto l’ente è – invece che niente. L’oggetto è una degradazione dell’ente al solo uso.