Bologna, 1 luglio 2006.

La neurofenomenologia è l’ultimo grande progetto al contempo scientifico, filosofico ed esistenziale al quale Francisco abbia lavorato. Ma, prima di parlarne, vorrei evocare brevemente quella che credo sia la fonte vissuta e unica della sua opera, ed in particolar modo della neurofenomenologia. Questa fonte, così come l’ho percepita, è una volontà molto forte, quasi tirannica, di tenere insieme l’integralità dei fili del tessuto umano, a partire dall’indagine scientifica spinta ad un optimum di rigore fino alla condotta etica costretta ad incarnarsi, passando per questa tacita condizione di possibilità del resto: l’apertura a ciò che accade.

Una frase di un romanzo di Satprem riassume bene il sentimento che mi sembra abbia guidato Francisco lungo tutta la sua vita.

« Una verità che non sia tutto non può essere tutta la verità »

Poiché Francisco non voleva niente di meno che tutta la verità, non poteva ritenersi soddisfatto di una verità che non fosse tutto, di una verità monca, di una verità epurata dal fatto basilare che ciò si dà come cosciente. Non si accontentava di una verità sul vivente che omettesse cosa sia vivere; di una verità sulla mente che escludesse l’esperienza; di una verità astratta sull’esistenza che non si preoccupasse dei mezzi per trasformarla dall’interno. Ma tantomeno si accontentava di una verità mistificatrice che facesse l’elogio di un’ascesi del conoscere; di una verità silenziosa che si stabilisse senza essersi scontrata con i limiti della discorsività razionale. Artificialmente distinte, queste due direzioni di mutua dipendenza erano in effetti simultaneamente in atto in Francisco, con il semplice sorriso dell’evidenza. Ma anche con la cura scrupolosa di mantenere delle barriere durante i lavori, al fine di conferire ad ogni direzione di ricerca un’autonomia sufficiente per completare il suo proprio sviluppo. La fonte unica non implica alcuna confusione, alcun sincretismo, alcun compromesso.

Veniamo ora alla neurofenomenologia. Il punto di partenza di Francisco era l’osservazione evidente secondo la quale ogni descrizione oggettiva emerge come ambito invariato per una comunità di soggetti incarnati, situati e dotati da subito di esperienza cosciente. Abitualmente, tale osservazione è talvolta sottovalutata, talvolta sopravvalutata. Essa è sottovalutata da coloro fra i filosofi che pensano che la costante sia solamente il nostro modo di scoprire una realtà sostanziale sotto le apparenze situate. Ed essa è sopravvalutata da altri filosofi che la utilizzano come arma contro ogni pretesa di una conoscenza autentica. Ora, appunto: Francisco Varela si è guardato bene dal sottovalutare o dal sopravvalutare il primato della situazione o dell’incarnazione attraverso una qualunque teoria dei rapporti “mente-corpo”. Invece, egli ha preso tale primato dell’incarnazione come punto di partenza di una strategia di ricerca. La sua idea centrale era che nell’ambito di un’autentica scienza della coscienza, non si dovrebbe tentare né di assorbire la soggettività in un ambito oggettivo preliminare, né di dare al soggettivo una qualunque supremazia sull’oggettivo. Si dovrebbe piuttosto tornare all’ambito esperienziale a partire dal quale sorge la dicotomia tra soggettività ed oggettività, poi mettere in atto in seno a tale ambito un sistema di mutue costrizioni. All’occorrenza, le mute costrizioni sono imposte tra gli enunciati in prima persona di contenuti fenomenici e le descrizioni in terza persona di quelle fra le costanti fenomeniche che sono stabilite dalle neuroscienze.

Questa scelta strategica ha due conseguenze principali: una conseguenza pratica e una conseguenza epistemologica.

La conseguenza pratica è che l’elaborazione delle proposizioni in prima persona si vede accordare tanta importanza e tanta cura quanto quelle delle proposizioni in terza persona. La conseguenza epistemologica della scelta di Francisco Varela è l’esplosione del quadro dei presupposti della scienza classica. Se si vuole conservare un posto all’esperienza cosciente nell’edificio scientifico, non si può più ridurre la funzione delle scienze alla descrizione di strutture costanti attraverso una gamma più o meno larga di situazioni spazio-temporali, personali, culturali ecc… Il loro fondamento metodologico dev’essere esteso in modo da includere: (1) Mutue relazioni regolate dei rendiconti situati fra loro e (2) Relazioni da un lato fra i rendiconti situati, dall’altro alcuni delle loro costanti.

Resta da capire l’affermazione contenuta già nel titolo dell’articolo-programma di Varela: la neurofenomenologia pretende di offrire un « rimedio » metodologico al « problema difficile » della coscienza. Questo problema, ricordiamolo, consiste nello spiegare perché certi processi cognitivi, neurologici, o più in generale fisici lascino emergere esperienza cosciente. La neurofenomenologia offre qualcosa che somigli da vicino o da lontano a una spiegazione? Ci mostra un legame, l’anello mancante fra il substrato corporale e l’esperienza di essere incarnati? Assolutamente no.

Ma attenzione, queste domande derivano da una cattiva comprensione dei termini impiegati da Varela. Per lui la questione non è risolvere il « problema difficile », e tantomeno di esibire una qualunque spiegazione ultima della coscienza attraverso il suo ipotetico substrato fisico. Soltanto proporre un rimedio, e un rimedio metodologico più che teorico.

Elaborando la neurofenomenologia in questo spirito, Varela è arrivato a mostrare:

    (a) che il problema dell’origine fisico-fisiologica della coscienza non si pone nemmeno, perché suppone che si sia precedentemente attribuito uno statuto di essente fondamentale al dominio fisico-fisiologico, mentre quest’ultimo rappresenta solo un momento nella dialettica del soggetto e dell’oggetto, dell’esperienza e dei suoi contenuti stabilizzati.

    (b) che, una volta inscritti i due versanti – fenomenologico e fisico-fisiologico – in una dinamica d’elaborazione reciproca, l’operatività della scienza che ne risulta sorpassa quella di una scienza della natura come la neurofenomenologia lasciata nell’isolamento (o perlomeno confinata a un dialogo troppo parsimonioso con il suo faccia-a-faccia fenomenologico).

Come i successi del metodo consistente nel sopra-sviluppare la ricerca sui processi neurofisiologi hanno finito per sopra-valorizzare questi ultimi, attribuire loro una preminenza ontologica, e dunque creare di sana pianta l’« abisso esplicativo » e il « problema difficile » della coscienza, allo stesso modo i successi del metodo neurofenomenologico, consistente nel co-sviluppare e nel far entrare in sinergia i versanti esperienziali ed oggettivi, conducono del tutto naturalmente a far perdere consistenza al problema, e a non veder più alcun abisso.

E’ il metodo, non bisogna dimenticarlo, che definisce il campo dei problemi. Un metodo che focalizza esclusivamente la vostra attenzione sugli oggetti di conoscenza e di manipolazione vi conduce a considerarli l’origine di tutto il resto, compresa la vostra stessa esperienza d’attenzione. Al contrario, un metodo come quello della neurofenomenologia che rilassa il vostro raggio d’attenzione e lo porta ad abbracciare l’intera superficie di ciò che può essere vissuto, facendo entrare ciascuno dei suoi momenti, esperienziali e oggettivi, in un processo euristico efficace, fa svanire la tentazione di scambiare per origine assoluta uno di questi momenti escludendo qualsiasi altro.

Se un senso del mistero dimora in questo quadro metodologico allargato, non è quello, specifico e fortemente paradossale, della provenienza fisica dello psichico, dell’origine oggettiva del soggettivo, ma è quello, molto più vasto, dell’essere-al-mondo. Perché c’è esperienza-delle-cose piuttosto che niente? Perché questa vita incarnata, inscritta in un corpo e in un ambito di corpi apparenti (o meno ambiguamente: che appaiono, si mostrano, appariscenti)? Perché questo « mondo così come l’ho trovato » (Wittgenstein), presentato a se stesso a partire da un punto di vista singolare dal suo stesso interno? Questo mistero è inaggirabile, ma si identifica nel residuo che le scienze lasciano dietro di sé nel loro punto cieco che è anche la loro fonte, piuttosto che in uno scopo legittimo da assegnare a queste stesse scienze. Non dovremmo aspettare che le scienze arrivino ad uno stato di riposo finale risultante da un perfetto svelamento della loro propria sorgente, ma che esse si sviluppino in un movimento incessante, produttore di quadri concettuali e d’anticipazioni in divenire. E’ questo l’orientamento che la neurofenomenologia adotta, proponendo un programma di ricerca nella vita cosciente in senso ampio piuttosto che una spiegazione della coscienza.

Ma tutto questo è veramente soddisfacente? Non c’è qualcosa di eccezionale e di fastidioso nel modo di procedere che definisce la neurofenomenologia; qualcosa che la rende irriducibile al sogno della scienza, se non al suo funzionamento? In realtà vedremo:

    (a) Che lo scarto del suo metodo è precisamente ciò che rende la neurofenomenologia atta ad incaricarsi degli aspetti di ciò che accade che sono sistematicamente emarginati dalla corrente centrale della ricerca scientifica;

    (b) Che la sua scelta non la esclude dai valori e dagli ideali che regolano l’impresa della scienza, ma che al contrario li amplifica e li generalizza facendoli reintegrare il loro ambito nutritivo: la vita umana attiva e concreta;

    (c) Che infine, lontano dal rappresentare un’eccezione nel campo delle scienze, la neurofenomenologia potrebbe offrire a scienze mature quanto la fisica e la biologia l’occasione di scoprire che esse stesse hanno intrapreso senza rendersene conto un cammino analogo.

Incontestabilmente, ciò che allontana il metodo della neurofenomenologia dalle norme ammesse è quasi abissale. Come abbiamo visto, una parte cruciale del lavoro scientifico consiste nel respingere ogni residuo soggettivo per non conservarne che alcune costanti strutturali. Più in generale, le scienze della natura riposano sull’esclusione della singolarità degli eventi, della loro unicità storica, a profitto di quanto di tipico, di generale, di ripetibile a volontà possa essere estratto. Tale lineamento del metodo è tanto marcato, tanto profondamente inculcato nei futuri cercatori, che talvolta esso si trasforma in loro in un riflesso di rigetto. Tratti di soggettività in un discorso o una pratica suscitano in molti di loro un movimento di arretramento; elementi di singolarità provocano una reazione di allontanamento; il riferimento all’esperienza ravviva un timore di illusione, di apparenza. Senza nemmeno parlare della partecipazione probabile di questo riflesso condizionato al « malessere nella nostra civiltà », bisogna sottolineare che esso non considera degli interi aspetti della nostra condizione e del nostro ambito di vita.

Consideriamo l’esempio dell’esclusione dei singoli eventi storici. Una simile esclusione ha come risultato di permettere di estrarre delle leggi. Ma in biologia le leggi non sono tutto; esse sono subordinate nella loro applicazione alla considerazione della singolarità della biosfera, dell’unicità degli eventi « di storia naturale » che hanno condotto al suo stato presente. La biologia ha dunque dovuto reintrodurre di conseguenza, nel corso stesso della sua elaborazione, la dimensione di contingenza storica. Ciò ha rappresentato un’autentica rivoluzione al suo interno. Tale rivoluzione è la teoria darwiniana dell’evoluzione, il cui fine è rendere ragione della sequenza singolare di eventi che hanno condotto alle specie che conosciamo, rendendola compatibile con le leggi biologiche ma senza farne la conseguenza inevitabile ed esclusiva di queste leggi.

In modo analogo, l’esclusione a priori dei contenuti soggettivi, in particolare qualitativi, ha lasciato uno spazio vuoto nel campo delle scienze della natura. Un vuoto che si è trovato senza sosta più strettamente circoscritto da uno studio dei suoi correlati fisici o fisiologici, come la lunghezza d’onda, i pigmenti retinali, e la codifica da parte di neuroni specializzati delle aree occipitali della corteccia, per la sensazione di colore, la temperatura ed i ricettori termosensibili per la sensazione di caldo e di freddo, ma che non per questo è stato annullato. Riconsiderare questo spazio vuoto chiedeva un’altra rivoluzione, abbozzata senza sosta, ma anche altrettanto frequentemente rimandata. Una rivoluzione che ha infine compiuto la neurofenomenologia reintroducendo l’esperienza in prima persona in una rete amplificata di costanti: le categorie fenomenologiche, i processi di messa in relazione dei contenuti d’esperienza con i processi neuronali, e anche certamente, ma non solo, gli oggetti della scienza fisiologica. Ciò le ha permesso di fare dell’esperienza cosciente non la conseguenza inevitabile ed esclusiva di una legge concernente il solo dominio oggettivo, ma uno dei partners di un gioco di mutue categorizzazione in un dominio allargato che include tanti aspetti della vita umana quanti sono possibili.

Il darwinismo e la neurofenomenologia rappresentano insomma entrambi un atto di forza destinato a superare l’incompletezza delle scienze naturali. Ma né l’uno né l’altra si oppongono a quelle scienze naturali che superano e completano. Il darwinismo ha di certo abbandonato l’esigenza di riproducibilità degli stati che studia, ma ha favorito l’operatività di un programma di ricerca di paleontologia geologica e genetica che comporta dal canto suo delle clausole di riproducibilità. La neurofenomenologia ha per sua parte abbandonato la clausola dell’esclusione dell’esperienza cosciente, e accantonato l’editto d’occultamento del soggettivo, ma persiste nell’imporre una norma d’intersoggettività generalizzata.

Queste caratteristiche non-convenzionali del darwinismo e della neurofenomenologia sembrano condivisi dall’archetipo delle scienze, cioè la fisica. Riconsideriamo il caso della meccanica quantistica. Questa teoria-quadro della fisica attuale riempie bene il capitolato d’oneri standard di una scienza della natura omettendo la singolarità degli eventi a profitto di costanti e di leggi. Tuttavia, queste leggi regolano non tanto la successione degli eventi stessi, come nella meccanica classica, ma dei simboli generatori di distribuzioni e probabilità. Da allora, c’è qualcosa del materiale organizzato dalla teoria che le rimane fuorimano. La singolarità degli eventi non è inserita in sequenze legali, le leggi sono per costruzione inadatte a renderne conto individualmente. Questa limitazione della teoria si è manifestata attraverso il problema della misura, o se si preferisce attraverso il paradosso del gatto di Schrödinger. Cosa può assicurare il passaggio tra i simboli regolati dalla legge dell’evoluzione della meccanica quantistica, e gli eventi sperimentali singoli, isolati? Non c’è una sorta di « abisso esplicativo » tra gli uni e gli altri? Molto lavoro è stato fatto per provare a colmare quell’abisso. Si è cercato di far rientrare gli eventi singolari nel girone legale, di derivarli a partire dai simboli regolati dalla legge dell’evoluzione della meccanica quantistica, altrimenti detto a partire dai vettori di stato che pure non ne forniscono che la probabilità. Un passo in questa direzione è parso compiuto con le teorie della decoerenza, ma ci si è presto resi conto che la separazione tra il probabile e l’attuale, tra il legale e il singolare, era lontana dall’essere stata abolita da tale mezzo. In verità, ciò che le teorie della decoerenza hanno fornito non è che una delle due direzioni di circolazione di un rapporto di mutua costrizione tra la singolarità degli eventi sperimentali e la generalità delle leggi previdenti. E’ impossibile ridurre la singolarità degli eventi all’ordine legale come vorrebbero fare gli interpreti « realisti » della meccanica quantistica; è altrettanto impossibile conferire l’intera carica di esistenza agli eventi senza prendere in considerazione la loro strutturazione collettiva attraverso le leggi teoriche come vorrebbero fare gli interpreti « empiristi » della meccanica quantistica. Dobbiamo piuttosto ammettere un rapporto di mutua definizione tra i fatti sperimentali e il formalismo, che corrisponde punto per punto al rapporto di mutua costrizione tra contenuti dell’esperienza e configurazioni neuronali della neurofenomenologia. In fisica quantistica come in neurofisiologia, la derivazione del situato a partire da leggi universali è sostituito da una dialettica produttiva del situato e dell’universale.

Ci accorgiamo a questo punto che il rapporto fra fisico e coscienza non è casuale, come sognano i cercatori che seguono il sogno (o la chimera) fisicalista con mezzi sempre più audaci (Penrose), ma puramente strutturale. C’è isomorfismo fra i metodi della scienza della coscienza e i metodi di certi settori avanzati delle scienze fisiche; c’è concordanza delle loro strategie per circoscrivere il punto cieco che entrambe ereditano dall’atto fondatore dell’oggettività; ma non c’è né riducibilità l’una all’altra, né derivabilità dell’una a partire dall’altra.

I risultati di questa ricerca d’isomorfismo tra le configurazioni epistemologiche dei tre dominii scientifici possono essere riassunti nella tabella seguente.

Forma

oggettiva

Singolarità Situazione Spiegazione auspicata Aporia di punto cieco Circolazione
BiologiaEvolu- zionista Leggi dellagenetica Specie Momento presente della storia evolutiva nella biosfera Derivare le speciedalle leggi Contingenza delle specie di fronte alle leggidella genetica Selezione naturale compatibile colle leggi della genetica +Eventi geologici eccezionali (Darwin / Gould)
Scienza della mente Corpo-oggettoProcesso neurologico Esperienzacosciente Corpo proprio, punto di vista in prima persona Derivare la coscienza dalneuronale « Abisso esplicativo » tra cervello e coscienza Neurofenomeno-logia,

costrizioni generative

(Varela)

FisicaQuan-

tistica

Vettore di stato, evoluzione secondo l’equazione di Schrödinger Eventosperimentale Scala macroscopica dello cercatore e del laboratorio Dedurre l’evento singolare dallo stato e dalla sua evoluzione secondo la legge Problema della misura (gatto di Schrödinger) (a) Principio di corrispondenza(Bohr)

(b) Decoerenza (Zurek etc.)

Seguiamo la tabella colonna per colonna. In ognuno dei tre dominii che sono la biologia evolutiva, la scienza della mente e la fisica quantistica, si arriva a definire una formazione oggettiva costante, che prende l’aspetto di un genere d’entità o di una legge. Ma estraendo così delle costanti, mettiamo tra parentesi le variazioni, o le singolarità, che presuppone il procedimento stesso dell’estrazione. Si fa astrazione della situazione di chi ha intrapreso di costituire un dominio d’oggettività. In un secondo tempo, si crede di ritrovare il situato derivandolo dal prodotto oggettivato, e sopra-valorizzato, del proprio stesso oblio. Ma qui si tratta di un’illusione, e ne è la sanzione l’apparizione d’aporie associate all’ignoranza del « punto cieco » obliato. L’inanità del tentativo di rigenerare il singolare a partire dall’universale oggettivo si manifesta sia, al meglio, attraverso delle constatazione di fallimento, sia, al peggio, attraverso dei paradossi apparentemente inestricabili. Riparare l’amnesia inaugurale è tuttavia possibile a condizione di stabilire delle circolazioni reciproche fra il variabile e il costante, fra il singolare e l’universale, evitando accuratamente di proiettare una gerarchia ontologica su di essi (cioè di sopra-investire il secondo a scapito del primo).

Michel Bitbol
CREA / CNRS 1, rue Descartes, 75005 Paris

Traduzione a cura di Linda Altomonte,
Centro Studi ASIA

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