L’intervista è suddivisa in quattro parti:

 

4. L’INFINITO

Professore, lei in un suo libro (“Guida alla assistenza psicologica al malato grave” Ed. Patron) scrive in forma di racconto di un marinaio che fissa il mare, il cielo, e si ritrova a sprofondare nell’infinito, mentre dall’altro lato si evidenzia quella che lei chiama “coscienza vuota”, una coscienza senza un oggetto d’esperienza.

Questi due poli contengono una domanda, che è: cosa succede da quella parte, dell’infinito, e cosa succede da questa parte cosciente? Questa domanda al momento della morte si fa molto pregnante, ma forse non andrebbe più coltivata in vita?

E’ una di quelle domande senza risposta che però è importantissima come domanda.

In definitiva la morte chiude la mia esistenza ma apre l’infinito.

Quando sono di fronte alla morte devo cercare di sfuggire alle due alternative tra cui si oscilla nella nostra cultura: che la morte sia qualcosa (per il cattolicesimo era sempre qualcosa, si risorge, si va in paradiso, si va all’inferno) o che sia nulla (tende ora a dominare la fase del materialismo nichilistico, per cui la morte è un annullamento). Non possiamo essere certi né che sia nulla né che sia qualcosa, è totalmente arbitrario.

Bisogna sfuggire a questa alternativa che sia tutto o che sia niente: è un grosso punto interrogativo. Allora questo grosso punto interrogativo apre una dimensione: nella scala dell’umanità uno muore ma non resta niente, restano gli altri, e può dire “va bé io vivo la mia vita, questo pezzo che tocca a me, poi do il testimone e tocca agli altri”.

Ma se alla fine finisce anche l’umanità? Che cosa succede? Dove sprofonda tutto questo?

Quando arriviamo a quel pensiero l’uomo si guarda attorno: muore l’umanità, ma noi dove siamo? Siamo su questo ciottolo disperso nell’universo e ci sono nell’universo centoventi miliardi di galassie, ogni galassia ha cento miliardi di stelle e questo è circa solo il dieci percento di quello che si osserva….. anche se poi il sole si spegne e l’umanità finisce… bè, ci saranno state altre umanità prima di questa, e ci saranno altre umanità dopo. Cioè in definitiva se portiamo in fondo il problema, ci rendiamo conto che la morte chiude la vita dell’umanità e apre la vita di altre possibili umanità.

Lei dice che ciò che è non smetterà mai di essere?

No, io dico che ciò che è stato, nel momento in cui concepiamo l’infinito, è possibile un infinità di altre volte. Perché all’infinito è logicamente possibile un infinità di altre volte.

Ma è logicamente possibile un annullamento, un azzeramento?

E com’è mai possibile? Bisognerebbe concepire una forza che interviene dall’esterno.

Ma quella stessa forza “esterna” esisterebbe, sarebbe causa e testimone dell’annullamento.

Appunto, allora l’infinito sarebbe quella forza. Se c’è Dio allora l’infinito è quello, allora chiamiamolo Dio: è la stessa identica cosa, non c’è nessuna differenza.

Quindi è logicamente sostenibile che ciò che è non finisca, perché si può ampliare all’infinito infinite volte, ed è impossibile che scompaia ad un determinato punto?

Certo, mentre una singola specifica cosa che c’è può cessare di esistere. Il problema è che non è concepibile che da un niente venga fuori qualcosa: come fa un niente a dare luogo a qualcosa? Ripugna ad ogni logica. Si può dire: “c’era, ed ora non c’è più”… si sarà trasformata.

Ma non si può dire: “non c’è niente, poi ci sarà qualcosa”. Non è possibile.

Non le sembra pazzesco che tutto questo, che non è mai iniziato, che va avanti da sempre, pure c’è , non è assente, non é un nulla? Questo rilancia sempre più la domanda sul senso: anche se tutto fosse infinito e si ripetesse infinite volte, perché c’è?

All’infinito troveremo la risposta.

E perché ci sarà una risposta?

Il problema è che nel momento in cui appare l’infinito non ci possiamo più fermare nel farci la domanda. Si apre una dimensione: l’umanità se lo porrà finché ci sarà, quando non ci sarà più l’umanità se lo porrà un’altra umanità.

Come il passaggio di un testimone… Lei ha ampliato moltissimo la domanda, oltre le civiltà e oltre i mondi, ma se la riporto nel mio vissuto, la struttura è identica. Nel nucleo di me stesso c’è lo stesso essere che si ripropone su scala intergalattica.

Sì, però il problema è se in me c’è o meno l’idea dell’infinito. Questo è il problema di fondo, perché posso avere o non avere questa apertura verso l’infinito.

Può nascere questa apertura in una persona che non ce l’ha?

Sì che può nascere: è il frutto di una crescita, di ampliamento dei propri orizzonti. Un bambino o un animale, esseri “biologici”, sono chiusi nel loro presente, nel loro habitat naturale, nel loro territorio, lo delimitano pisciandoci attorno e sono a posto, è finita lì.

Un essere personale ha l’ampiezza del mondo interiore.
Un essere umano ha l’ampiezza dell’umanità.
Ma poi c’è la spiritualità c’è l’oltre, c’è l’infinito.

Questa comprensione può essere risolutiva per chi si pone il problema della propria morte, e dell’angoscia che prova facendosi domande su cos’è e che senso ha?

Certo, purché la persona riesca ad andare oltre sé. Il problema è questo, se c’è l’apertura. L’idea dell’infinito apre per la persona una dimensione che lo porta oltre sè, che è la dimensione della spiritualità: quella che non è materiale né nel senso della materia biologica, né nel senso della materia dei vissuti, né nel senso della materia dei rapporti.

Cerco di essere più preciso: se io vengo qui e lei mi spiega questa cosa, potrei dire che capisco la spiegazione, però se io vengo qua con un pungolo interiore e capisco razionalmente, il pungolo può rimanere, e le domande possono riproporsi con la loro dose di angoscia. C’è soluzione?

No, non c’è soluzione, però c’è una concretezza: c’è una dimensione concreta nella quale si può tradurre questa cosa cosi apparentemente astratta, ed è precisamente la relazione etica tra due persone nel loro faccia a faccia, in cui uno aiuta l’altro. Ma se lo aiuti, non sei mai sicuro se effettivamente l’hai aiutato, e se lo chiedi a lui, spesso neanche lui lo sa.

E’ senza soluzione, nel senso che l’importante è che io mi assuma la responsabilità anche di sbagliare nel darti l’aiuto, il che vuol dire che nel momento in cui tu mi dici che non ti ho aiutato, io sono disposto a ripartire all’infinito.

Nel racconto del marinaio viene descritta come una realizzazione, lui si ritrova con questa domanda e scatta qualcosa. Che cosa?

Sì, scatta qualcosa: si coglie la dimensione dell’oltre sé. Ma quando si raggiunge questa dimensione si è già oltre sé, non si può raggiungere.

Allora il problema è stare in un’apertura, stare in un orizzonte: se tu vuoi toccare quello che c’è nell’orizzonte sei fregato. E’ un’apertura.
Per cui la morte si può dire che apre: quando tu pensi alla morte dici: “ va bè si muore… e poi?” questo apre la dimensione dell’infinito.

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Intervista a cura di Roberto Ferrari e Marco Besa
Centro Studi ASIA