L’intervista è suddivisa in quattro parti:

 

3. LA MORTE “UMANA”

Nella modalità “umana”, e andiamo al terzo passo, ci si identifica non con la persona ma con l’umanità: quando muoio io è una tragedia, però ci sono gli altri. Se io mi concepisco come un anello di una catena, per cui la morte non riguarda solo me, non è così angosciante.

Ma anche in questo caso è come se una persona si convincesse della reale esistenza degli altri, del mondo: però non sa se è vero o falso, se gli altri sono reali o solo una sua proiezione.

Eccome se sa che è vero, è verissimo, nel senso che quando muori, la tua morte non riguarda solo te, riguarda anche gli altri che restano, così come la tua vita. E’ un caso raro, ma tu quando muori puoi percepire la tua morte come un fatto non soltanto personale, ma che è in relazione con gli altri. Per cui mentre la buona morte per l’essere biologico è la morte istantanea e indolore, per l’essere personale non c’è oppure è la morte con la speranza di non morire, in tutte le sue versioni da quella scientifica a quella parapsicologica, nel caso dell’essere umano la buona morte è la morte che non rovina i rapporti, che non porta solitudine, che non toglie senso a tutta la vita. Il bisogno dell’essere “umano” è che la morte non rovini i suoi rapporti: per esempio, vuole morire facendo la pace con quelli con cui ha litigato, non lasciando un brutto ricordo di sè. Un essere “umano” non si suiciderà mai, perché sa che il suicidio per gli altri che restano, se gli vuole bene, è una cosa insormontabile. E’ una persona che morendo, quando sarebbe più autorizzata a pensare a sè, si apre agli altri, perchè la sua morte li riguarda.

Ma quanto spesso accade che un morente non si ponga il problema della sofferenza, nè quello di sperare in una vita nell’aldilà, che magari ha affetti e le relazioni non siano il suo problema… però si ponga proprio un problema del tipo: “se adesso mi tocca morire, che senso ha tutto, a cosa serve vivere?” ?

Questo è un altro problema ancora, ed anche questo è un problema che non bisogna aspettare di stare in punto di morte per porselo. “Allora aspetta, ma che senso ha vivere (non solo per me, tutto il Vivere) se poi si deve morire, se poi tutto finisce?”.

Come dice De Martino, una delle crisi che la morte determina è la crisi del senso, la crisi della storia. Se io ho lottato per costruire delle cose per certi fini ma poi devo morire e lasciare tutto, questo
riguarda la persona ma anche tutta la storia, è una cosa che mette in crisi l’umanità.

Infatti oggi che viviamo in un’epoca in cui l’uomo si identifica come essere biologico, e la cultura spinge in questa direzione, la storia è finita. Non esiste più l’identificarsi con una storia che continua. Una delle cose più difficili oggi è pensare alle nuove generazioni: come lo lasciamo il mondo alle nuove generazioni? “Chi se ne frega, finché sono vivo penso a me, poi quando morirò ci penseranno loro!” Non c’è il senso di far parte della storia. Questo è un atteggiamento che riguarda il primo e può riguardare anche il secondo modello esistenziale, che si arroccano nella difesa di sè e se ne fregano del resto.

Il fatto che la morte toglie senso alla vita è un problema “umano” e allora il punto è: perché la morte non tolga senso alla vita è necessario che la morte abbia un senso per la vita.

Bisognerebbe che la vita avesse un senso. Quale?

Glielo potrebbe dare la morte. Solitamente si pensa che il senso sia dalla parte della vita… non potrebbe essere dalla parte della morte?

Questo è il punto di fondo; per esempio dal punto di vista etico, che utilità ci sarebbe a fare il male per ottenere dei vantaggi se poi alla fine io devo morire? non me li goderò mai questi vantaggi. Il bene si fonda sulla impossibilità di godere i frutti del male perchè c’è la morte che ti limita, e se tu lo capisci, non ti conviene fare il male.
Se non si morisse si potrebbe fare tutto, ogni male. Allora la vita è vana, sì d’accordo, ma è vano anche il male. Quindi la morte potrebbe essere il fondamento del bene: se ad un certo punto non si morisse più, noi che siamo vivi impediremmo di vivere a tutti quegli altri che possono venire al mondo, sarebbe giusto?

Ma che cosa giustifica che ci sia questo bene?

Si giustifica da sé, non ha bisogno di giustificazioni. Il male ha bisogno di essere giustificato il bene no.

Ma anche il bene esiste, come il male.

Chi mai si è chiesto “perché c’è tanto bene?”. Il bene è fine a se stesso. Infatti se non è disinteressato, se deve essere giustificato in qualche modo, non è bene. E’ come se uno dicesse: “io ti do gratis
qualcosa” e l’altro: ”ma perché me l’hai data?”. Non appena ti chiedi -perché?- lo vuoi giustificare.

Non chiedo una giustificazione per diffidenza sulla sua effettiva natura di bene, ma come esistente. Poniamo che ci sia un Dio che è sommo Bene: forse per questa sua qualità egli giustifica il fatto di esserci?

No, ma qui secondo me bisogna riferirsi ad altro. E’ chiaro che qui ci sono cose non dette per cui forse si saltano dei passaggi. No, il punto di fondo è che, se tu ti identifichi come essere “umano”, morire non riguarda solo te: questo vuol dire che si muore sempre non solo per sè, ma anche per gli altri, il che vuol dire che è importante come si muore. Allora un conto per esempio è morire per mano d’altri e un conto è morire naturalmente. O che mentre muori l’altro ti difende dalla morte, ti aiuta a fare in modo di morire il più tardi possibile.

Quindi lei dice: la morte fonda il bene, inteso come il bene nelle relazioni.

Certo, non il bene astratto, il bene inteso nel rapporto: io ho paura, io sono fragile, io sono mortale… l’altro che fa rispetto a questo? cerca di approfittarne? oppure mi difende da questo naturale
indebolimento?

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Intervista a cura di Roberto Ferrari e Marco Besa
Centro Studi ASIA