Il cuore essenziale dell’esperienza interiore dell’occidentale contemporaneo sta nell’aver colto che il tutto è infondato.

Infondato significa che, semplicemente, quel che esiste non dovrebbe esistere.

Ma che, senza possibile ragione, esiste.

E, poiché ogni Dio o esiste o non esiste, nel caso che esista, anche Egli è un “di troppo” rispetto a nulla.

Un Dio essente è un Dio che contempla stranito il fatto di ritrovarsi ad esistere senza alcuna giustificazione possibile – e ciò anche se fosse eterno, come ci si aspetterebbe da ogni Dio che si rispetti.

Infondatezza, ovvero gratuità, eccedenza rispetto a nulla, ingiustificatezza, vissuti in un senso di assurdità e stupore senza fondo..

Su questo si è affacciato l’europeo del ‘900.

Sull’incedere irrefrenabile del crollo dei miti, un sentimento di stranimento lo ha sorpreso.

L’arte del ‘900 ne è il massimo testimone.

Dalle bucoliche atmosfere dell’800 al Grido di Munch che spazza via secoli di incanto.

Finché ogni esperienza interiore veniva costretta nei miti religiosi che così la giustificavano o, successivamente, nella utopia esplicativa della scienza – “un domani capiremo” – i veri significati venivano distorti.

Ed è comprensibile.

Perché chi getta uno sguardo all’infondato può davvero soccombere al panico.

“E allora perché pensarci? Distraiamoci.” – dirà qualcuno.

Il fatto è che non basta non pensarci.
Se tu non pensi all’infondatezza, sarà essa a pensare a te.

Il momento della visione “tragica” può schiudersi a sorpresa.

Meglio sapere che tali eventi esistono e che significano qualcosa di molto preciso.

E che, sebbene risposte non vi siano, la soluzione esiste.

Tutto è dolore, disse il Buddha.

E se il dolore esiste, la sua essenza è l’infondatezza, il “per nulla.”

Esistere è soffrire per nulla.

Ma la causa del dolore può essere estirpata e sappiamo come si fa, conclude il Buddha.

Ed è vero.

Riecheggia Nagarjuna: il nulla e l’infondatezza (lui dice la vacuità..) mal gestiti portano l’uomo alla rovina.

Ma ciò intende che il nulla e l’infondatezza possano essere anche gestiti bene.

Questo è il Buddhismo: la via per gestire sensatamente ed efficacemente il rapporto col nostro ritrovarci a essere senza perché.

L’alternativa è un cieco dolore o una più o meno durevole illusione di pace – che il nulla inevitabilmente verrà a disturbare.

Perché il nulla “nulleggia” in ogni ente e in ogni esperienza.

Ma ancor pochi sono in grado, o pronti a concedervisi, di intendere pienamente l’infondatezza.

Eppure solo così si attinge al pieno e definitivo significato di “vacuità” che estingue il dolore.

L’infondatezza porta alla vacuità e la giustifica.

Ciò va approfondito con cautela.

Un grande esperto di vacuità, Nagarjuna, ha scritto che “non vi è la benché minima differenza tra vita ordinaria e vacuità (tra samsara e shunyata).”

E allora perché cercare la vacuità? Basta la vita ordinaria..

“Prima di aver studiato lo zen per trent’anni, vedevo le montagne come montagne e i fiumi come fiumi. 
Quando poi sono arrivato a una conoscenza più profonda, è accaduto che le montagne non fossero più montagne e che i fiumi non fossero più fiumi. 
Ma ora che ho colto la vera essenza dello zen mi sento in pace. 
Perché accade che io veda di nuovo, come una volta, le montagne come montagne e, ancora come una volta, i fiumi come fiumi.”
(Ch’ing-yüan Wei-hsin, IX secolo)

Il Buddhismo ha affrontato e attraversato fin dai suoi primordi quello sgomento a cui l’occidentale è giunto solo nel ‘900.

Il Cristianesimo aveva funto da quel mito capace di ricondurre ogni esperienza – anche di infondatezza – alla propria prospettiva di Redenzione e di pace ultraterrena.

Ora, alla luce del significato di “essere” quale infondatezza di ogni “come” di tutto ciò che esiste – che, umano o divino che sia, esiste per niente – credo non abbiamo alternative che di gettare uno sguardo serio alla via aperta dal Buddha.

È l’ora di un Buddhismo europeo.

Sul piano della ricerca pratica, la meditazione e la fenomenologia esistenziale heideggeriana sono integrabili a vicenda.
Sul piano etico lo sono il profondo senso del “non per me” presente sia nella compassione buddhista (karuna) che nell’amore cristiano (agàpe).

Vale la pena di approfondire?

Ascolta le tue viscere.