Già ne scrissi diverse volte in passato:

ben più della natura fondamentale della coscienza, è recondito il mistero dell’essere, essere perfino della coscienza stessa.

Il sapere fondamentale si riflette nella coscienza, ma la coscienza non è direttamente capace di esso.

Parlo del sapere dell’essere.

Da parte dell’essere, circa il fatto d’essere.

Martin Heidegger

1. Martin Heidegger

Con “essere” intendo un significato che solo Heidegger ha saputo chiarire: essere menziona la “differenza” tra niente e l’altro-rispetto-a-niente.

Cosa significhi niente non si può non saperlo.

Il negarlo lo confermerebbe.
Se provassimo a pensare “non so cosa significhi niente”, ciò equivarrebbe a “del mio sapere del niente: niente”.
Inevitabilmente lo useremmo perfino per contestarlo.

Tutti sappiamo – e non possiamo non sapere – che significhi “niente”.

A partire da ciò, il niente non si dà e questo perché… non esiste.

Il niente è niente.

Mentre gli fa contrasto quel che viviamo ora e che è altro-rispetto-a-niente.

La nostra tradizione ha chiamato “essente” questo altro.

Non va chiamato “essere”, ma “essente”, specifica Heidegger, poiché “essere” intende la differenza tra essente e niente.

E questo è il nostro sapere fondamentale – il sapere dell’essere, da parte dell’essere, circa il fatto d’essere.

D. T. Suzuki

2. D. T. Suzuki

Essere, così, chiarisce che i due termini significano, l’un per l’altro, il totalmente altro.

Il niente non c’è.
L’altro-da-niente lo indichiamo con un “che c’è”, ossia “che è essente”, evidenziando che non è un mero niente.

Se l’altro-rispetto-a-niente si distingue da niente proprio perché non è un mero niente, ma è totalmente altro rispetto a niente, allora esso va inteso anche come la totalità raccogliente tutto l’altro-rispetto-a-niente.

L’essente nella sua totalità, il tutto.

Se di qualcosa diciamo che c’è, allora nega il niente e ricade nell’altro-da-niente.

Così è per la coscienza.
Così è per Dio – se c’è.

….

Sono cosciente?
Dunque sì.

È la coscienza, questa stessa che vivo ed esperisco ora – fosse anche nelle sue più originarie, sottili o spirituali aperture – il termine ultimo del sapere?

No.

Perché è altro da niente.

Se di essa stessa so essere, allora essa è essente, è altro-da-niente e non niente.

E dunque, dove cercare il termine ultimo del sapere?

Nella Differenza.

È un sapere inesistente?

No, poiché ne sto parlando e in esso mi muovo pensando.

È un sapere essente?

No, poiché se lo fosse apparterrebbe solo all’ente e nulla potrebbe saper della Differenza rispetto all’ente.

Il sapere dell’essere è un sapere di cui non si può predicare, poiché ogni predicarne sarebbe, con ciò appartenendo all’altro-rispetto-niente.

I Buddhisti chiamano questo sapere “Prajna”.

Essa non è qualcosa,
Essa non è (un) niente.

La tradizione buddhista illustra la Differenza attraverso la diretta esperienza della vacuità, ovvero della cessazione di ogni possibilità di conoscenza discorsiva di qualechessia fenomeno.

La tradizione buddhista chiama “dharma” i fenomeni.

Ogni dharma è caratterizzato dalla vacuità, dice il Sutra del Cuore.

Essi sono “sospesi, silenziosi e vuoti”, dice lo zen.

La Prajna è la sapienza ultima circa ogni possibile essente, ma essa stessa non è essente – e neppure è un mero niente.

Il saper dell’essere – la Prajna – ha senso solo in rapporto ai dharma.

Senza dharma, neppure il sapere della vacuità dei dharma: la Prajna.

Così, senza essenti, neppure il saper dell’essere degli essenti.

Qui la fenomenologia esistenziale heideggeriana e la Prajnaparamita si incontrano.

Noi occidentali capiremo e, speriamo, realizzeremo la vacuità solo attraverso la luce di Heidegger.

Le due culture hanno un ponte obbligato di congiunzione.

Se si riesce a intendere l’abissalità del mistero.

…..

Foto: 1. Heidegger e 2. D.T. Suzuki
Due grandi luci dell’essere – ma in realtà una sola.