Come so che il mondo esiste?

Negli articoli precedenti – quelli de “l’arcobaleno non esiste se non lo guardi” – si è sollevata una duplice questione: una riguardo al solipsismo, che in realtà non volevo sollevare, l’altra, che più mi premeva, sulla realtà come esito di “imputazione” di essenza intrinseca, ovvero di realtà (tutta) dipendente da dall’interpretazione mentale.

Il perno della questione è se vi sia una realtà “là fuori” la quale esista autonomamente al di là dell’imputazione di essenza donatale.

Con “imputazione di essenza” intendo riferirmi a una teoria (dottrina, visione… non so come intenderla) buddhista, la Via di Mezzo di Nagarjuna, ripresa dall’amico Michel Bitbol, filosofo della meccanica quantistica, in un confronto tra le due.

Riassumo la tesi centrale della Via di Mezzo, o Madhyamika.

La realtà di ogni cosa è esito di una “imputazione di essenza”, ovvero di una qualità che sembra caratterizzarla così da poterne affermare l’esistenza.
La “cosa” (il mio dito mentre batte sulla tastiera, una nuvola che vaga nel cielo, un pensiero che sorge da uno stimolo, l’arcobaleno dopo la pioggia…) non esiste di per sé, ma solo dipendentemente da una serie di cofattori.

Non esiste la “arcobalenità”, ma solo una imputazione di qualità e realtà dell’arcobaleno da parte di una mente.

E ciò vale per tutto, nulla escluso.

Dunque nulla esiste dotato di intrinseca essenza, ma solo relazionalmente e come esito della suddetta imputazione da parte della “mente”.

Ciò porta alla “vacuità”, alla posizione estrema del Buddhismo per la cui estrema realizzazione la Via di Mezzo è solo una delle possibilità.

Con questo non si vuole affatto intendere che non si dia nulla del tutto, ma solo che nulla esista autonomamente, intrinsecamente, di per sé; ciò che esiste può esistere solo alla maniera della “co-produzione condizionata” (pratitya-samutpada).

Tale esistenza co-prodotta necessita di un fattore essenziale: l’imputazione mentale.

Potremmo anche dire che necessita dell’interpretazione da parte di una mente invece che di imputazione, ma “interpretazione” lascerebbe facilmente intendere che “là fuori” vi sia una realtà oggettiva che solo attende di essere interpretata, mentre con “imputazione” ciò non è lasciato pensare.

I fattori in gioco nella co-produzione sono anch’essi, ciascuno, co-prodotti e i loro co-produttori pure e così via.

L’esito è che nulla può essere inteso come esistente autonomamente, ma solo come co-prodotto.

Concludevo il penultimo articolo in questo modo: “Il problema se la mente stessa esista intrinsecamente va affrontato in meditazione”.

Lo confermo.

Ad ogni modo, per restare su “la realtà” qualificata del mondo non esiste se non la imputo esistente” – nucleo dell’intento del “post dell’arcobaleno” –, ciò mi convince.

Poiché è necessario partire proprio da qui: è vero, falso o incerto ciò che mi convince essere tale.

Tale affermazione non può non sottostare a se stessa, e dunque è vera.
O sei convinto che no?
Dunque sottostà a se stessa.

Ogni statuto io dia all’esperienza – autonoma, oggettiva, materiale, ideale, co-prodotta ma materiale, co-prodotta ma mentale, ecc… –, detto statuto deve essere assunto perché convincente.

Ma il fatto che sia convincente non garantisce la sua verità. Garantisce solo che io vi creda.

Anzi: che “vi sia” credito, poiché anche un “io-che-crede” sottostà a tale credito.

Ma come, si obietterà, forse che il credere non è dell’io?

Ebbene – e proprio perciò ho detto che tali profondità vanno indagate in meditazione –, anche l’io, con le sue radicali funzioni quali il dubitare e il credere, è oggetto di imputazione.

Dunque chi o cosa sta al fondo?

Chi, cosa imputa?

Come non è possibile fare ricerche scientifiche esaustive solo teoricamente, ma occorre l’esperimento che le confermi o smentisca, così non è possibile fare indagini approfondite sull’io e sul “sapere” fondamentale senza l’adeguato laboratorio: la meditazione.

Se dunque il credito sta alla base – credere che è o che non è così o cosà –, con ciò affermiamo anche che la realtà tutta è esito di imputazione.

Vi è, però, un altro cruciale aspetto, ovvero che la realtà tutta intera – la nostra imputazione di essa – si comporta con una certa coerenza narrativa.

Tale coerenza narrativa dipende da una visione del mondo e ve ne sono diverse: magica, poetica, religiosa, scientifica…

L’imputazione segue una delle suddette visioni e trova in esse una coerenza convincente.

Chi segue la visione religiosa, o meglio ne è mosso, vede nei fenomeni i segni del divino (es. piove o meno, ci si ammala o si guarisce, per intervento divino), mentre chi segue la visione post galileiana cercherà di intendere la realtà attraverso la misura, le leggi naturali e così via.

Al principio, dunque e comunque, sta un “sono convinto che…”.

Senza tale convinzione non ha senso credere che “là fuori” il mondo si dia in un certo modo.

E dunque ogni visione è fede, anche quella scientifica, solo che quest’ultima ha una grande coerenza logica interna e una “grande economia di spiegazione del flusso dei fenomeni”, per dirla alla Ernst Mach.

Ma la visione scientifica non è onnicomprensiva.

L’amico Michel Bitbol parla di “luoghi ciechi della conoscenza scientifica”. La visione oggettivante non può pervenire, ad esempio, all’autoreferenza vissuta (studiare chi sta studiando, mentre lo fa: autostudio more oggettivo…), ai trascendentali kantiani (condizione sempre già presente per poter avviare una indagine) e alle dimensioni non calcolabili, quali i sentimenti esistenziali (spaesamento, angoscia…).

Qui la scienza non può nulla perché lo esclude il suo stesso statuto.

Dunque eccoci aperti su un mondo la cui realtà resta misteriosa e possiamo solo dire che, di volta in volta, essa è quale più crediamo che sia.

Quel “credere” è attività concomitante alla consapevolezza, non è solo un’opinione di cui si abbia coscienza.

A cosa risponde la storia che viviamo? Io direi ad una patita ricerca di senso, che comporta sofferenza proprio perché il senso ultimo non esiste.

La soluzione della tensione al senso non sta nel trovarlo, ma nella vacuità.

Lungo tale percorso verso la “pacificazione della discorsività”, per dirla con Nagarjuna, costruiamo narrazioni. Esse si sviluppano lungo il tetralemma nagarjuniano, il Chatuskoti.

Di qualcosa si può affermare che

1. è
2. non è
3. e è e non è
4. né che è né che non è

La 3. e la 4. sono incomprensibili all’Occidentale.

Forse la 3. può essere vagamente compresa in ambito non logico, ma psichico: “Odi et amo” di Catullo; in amore accade che al contempo mi trovi sia a odiare che ad amare.

Ma sulla 4. non posso darvi esempi perché pertengono a sfere molto iniziatiche del Buddhismo.

Semplicemente non sarebbe comprensibile senza i dovuti passi preparatori (molti anni di pratica meditativa sono necessari).

Ecco: la 1. e la 2. sono l’ambito logico entro cui esclusivamente ci muoviamo noi occidentali e in ciò siamo campioni planetari grazie al rigore scientifico.

La tensione al senso che crea mondi secondo imputazione, segue le logiche suddette:

1. e 2. ontologia
3. vissuto esistenziale
4. “etica” – fine della sofferenza.

Se, fondato sulla sola logica duale (1. e 2.), pare arduo accettare che quel che vedo sia “come sogno”, ma, allorché un certo “sfondamento” accade, tutto torna, e solo così torna.

“Come sogno, come magia, come una città di Gandharva; così si enunciano il sorgere, il durare, il trapassare.”

La logica della non contraddizione sopravvive dopo lo sfondamento, ma non è il termine ultimo della conoscenza, così come non lo è più l’io.

Sia i maestri Tibetani che quelli Giapponesi sono molto attenti a non portare a tali limiti chi non sia preparato seguito con attenzione, perché, come dice Nagarjuna:

“La Vacuità male intesa manda in rovina l’uomo di corto vedere, così come il serpente male afferrato o una formula magica male applicata. E per questo la mente del Buddha si era ritratta dall’insegnamento (totale) del Dharma, pensando alle difficoltà che avrebbero avuto gli uomini di corto vedere a penetrarla.”

Munch, un esempio di vacuità male intesa.

Edward Munch: Anxiety, 1894. Munch, un esempio di vacuità male intesa.

Poiché la questione è profondissima e anche potenzialmente destabilizzante, e poiché lo spazio e l’occasione non sono adeguati, questo è quanto sono riuscito a mettere giù in questa domenica pomeriggio silenziosa e solitaria.

Magari a qualcuno verrà voglia di approfondire.

Foto: Munch, un esempio di vacuità male intesa.