Il regista dentro allo show

Truman show

Una scena che ricorda un quadro di Magritte

Alcuni gradini salgono dal mare verso il cielo, sulla linea dell’orizzonte. In cima ai gradini, una porta che sembra sospesa e un uomo in procinto di varcarla. Da una parte un mondo luminoso, quello in cui è vissuto fino a quel momento, dall’altra il buio totale. Una voce proveniente dall’alto, nascosta tra nuvole che lasciano filtrare raggi di divina bellezza, cerca di convincerlo a restare. Inizialmente con voce suadente e rassicurante, facendo leva sui suoi sentimenti e i suoi ricordi, poi, cambiando tono, ricordandogli le sue paure. L’uomo si volta verso gli spettatori, saluta facendo un inchino e attraversa la porta. Le trasmissioni sono interrotte. Gli affezionati telespettatori applaudono felici per quell’uscita dal set ma, un istante dopo, si chiedono grottescamente quale sarà il prossimo spettacolo. Per alcuni secondi lo schermo cinematografico rimane buio, prima che compaiano i titoli di coda. Si tratta della scena finale di “The Truman Show”, l’ultimo film di Peter Weir, nella quale si trova, a mio avviso, la chiave interpretativa dell’opera. Attraverso una sorta di scatole cinesi (set televisivo – telespettatori – sala cinematografica), ci si ritrova improvvisamente immersi nel proprio “scenario”. Ci si può distrarre velocemente chiedendosi come proseguire la serata o commentando intellettualmente il film, o rimanere ammutoliti per il senso di perplessità e di estraniazione che riesce a suscitare. La critica cinematografica lo ha interpretato come denuncia allo strapotere del sistema televisivo o come metafora del rapporto tra uomo e Dio, ma si presta anche ad un altro livello di lettura, molto più inquietante, che riguarda il rapporto dell’uomo con il fatto d’esserci, il senso di estraneità nei confronti del mondo che lo circonda e il bisogno di verità che ne deriva.

La storia narra di un personaggio che, fin dalla nascita, vive a sua insaputa dentro al più grande set televisivo mai esistito: un’intera isola circondata da un finto mare e coperta da un’enorme cupola. Tutto è preciso, perfetto, come in una commedia hollywoodiana degli anni Cinquanta: la moglie sorridente, i vicini di casa cordiali, le casette bianche con il giardino intorno. Una perfezione che sin dall’inizio ha in sé qualcosa di stridente, di surreale. Tutti, tranne lui, sanno che si tratta di una finzione. Tutto ciò che succede all’interno del set è deciso dall'”alto”. Chiuso in una mega stanza dei comandi, il regista Christoff, non solo ha potere assoluto sul giorno e sulla notte, sulla pioggia e le onde del mare, ma manovra la vita di Truman a suo piacimento, organizzando la rete di relazioni che lo circonda e allontanando violentemente dal set tutti quei personaggi che talvolta cercano di dirgli la verità. In particolare una ragazza nei confronti della quale Truman si sente istintivamente attratto e della quale conserverà un nostalgico ricordo.

L’unica nota dolente, per il regista, è che il protagonista del suo show, sin da piccolo, manifesta una certa ansia di conoscenza, una spiccata curiosità nei confronti del resto del mondo. Uscito dalla pancia prima del tempo, già da bambino esprime il desiderio di voler fare l’esploratore, rimanendo perplesso di fronte alla maestra che cerca di scoraggiarlo: “Non c’è niente da esplorare Truman, conosciamo già tutto!”. A questo punto il regista gli induce due sentimenti inibitori: la paura e il senso di colpa. Un giorno in cui, ancora piccolo, esce in barca con il padre e lo convince ad andare ancora avanti anziché rientrare, Christoff scatena un’immane tempesta e fa in modo che il padre muoia annegato. Da quel giorno Truman è praticamente bloccato all’interno dell’isola a causa della sua paura ad affrontare l’acqua.

Date questa premesse, com’è possibile che alla fine del film il protagonista riesca a superare la sua paura, affrontando nuovamente il mare in tempesta ed arrivi a sbattere contro ai confini del set? Durante lo svolgimento del film succede qualcosa: Truman diventa consapevole della sua condizione. Ma che cosa ha a che fare questa vicenda con noi? A prima vista può sembrare che il regista (del film) alluda a due realtà. Una totalmente costretta e finta in cui vive il protagonista, e una libera e vera fuori dal set. A maggior ragione può sembrare che il nostro mondo possieda queste caratteristiche. Ma riflettendoci attentamente, sono forse liberi gli altri protagonisti dello show che pur essendo consapevolmente attori sono anch’essi costretti ad una vita che non gli appartiene, a simulare sentimenti che non provano, a dire frasi che il regista gli suggerisce nell’orecchio? Nell’ingannare Truman non ingannano anche se stessi con quell’illusione di libertà e normalità, come appare in un momento di disperazione della moglie che si lamenta che la situazione in cui si trova “non è professionale”? E quei telespettatori che si trovano sempre alla stessa ora e nello stesso luogo a subire le emozioni che gli suscitano le vicende di una persona che non conoscono nemmeno, sono forse liberi? ciascuno di loro totalmente immerso e identificato nel proprio sistema di vita. Ciascuno di loro totalmente privo di perplessità e consapevolezza. E quando il film si interrompe con quella assurda domanda e alcuni secondi di schermo nero, lo spettatore non si sente come Truman estraneo ad una realtà che non ha scelto e con una porta buia davanti?

Ma quali sono i condizionamenti a cui il regista allude?

Certamente si può pensare ad un sistema sociale dominato dai mass-media. Ma in questo caso, se pur difficilmente, si può sempre pensare di riuscire a liberarsene, magari cominciando con lo spegnere la televisione. Oppure il film può fare pensare ad una serie di condizionamenti personali, psicologici. In fondo alla fine Truman si libera anche dalle ossessioni del suo passato e supera le paure che gli hanno provocato. Ma se invece Peter Weir alludesse al sistema “esistenza”? In questo caso il problema sarebbe un po’ più complesso. Come ci si libera dal condizionamento dell’esistenza? In fondo anche noi, come Truman, ci troviamo dalla nascita in un mondo in cui non abbiamo scelto di essere, fatto di eventi totalmente arbitra-ri. Perché il sole sorge e tramonta tutti i giorni e quando piove piove? Perché ci è capitato di incontrare pro prio le persone che abbiamo incontrato, a cominciare dai nostri genitori, e non altre? Arbitrario sta ad indicare che non c’è un motivo sensato perché le cose accadano proprio così. Potrebbero essere in tutt’altro modo. Ma se l’arbitrarietà degli eventi esterni ci può sembrare irrilevante forse può essere più sconcertante pensare che i sentimenti e le emozioni che ci abitano sono provocate da fattori totalmente indipendenti dalla nostra volontà. Tutti noi facciamo costantemente l’esperienza di provare delle sensazioni che non scegliamo, come appare soprattutto evidente quando non sono piacevoli. E in fondo cosa importa che siano il frutto del progetto di un mega regista, di Dio, o di nessuno? E se riusciamo a trovare il colpevole dei nostri problemi, a sua volta costui non sarà forse stato vittima di qualcos’altro? E così via in una lunga catena che non arriva a sbattere contro le cause prime (questa sarebbe un’interessante osservazione che gli psicanalisti potrebbero far rilevare ai loro pazienti). Tutto questo per arrivare a dire che siamo costretti ad esistere esattamente così come siamo. La gabbia è così stretta che finisce per coincidere con il prigioniero… L’unica differenza sostanziale tra noi e Truman è che noi non avremo il piacere di dialogare con il regista, ma, se anche così fosse, non cambierebbe niente, come avremo modo di vedere in seguito. Certo si può obiettare che ciò che accade a Truman sia solo una finzione, mentre la nostra vita è vera. In realtà dal punto di vista di ciò che lui prova, che suo padre non fosse veramente suo padre e non fosse nemmeno morto, non cambia assolutamente nulla. E dal nostro punto di vista, che cosa ci fa dire che un passato del quale ora non restano nient’altro che ricordi e sensazioni sia successo veramente o sia stato solo un sogno? Quante volte ci portiamo dietro sensazioni dovute ad eventi che abbiamo solo sognato? E quali prove abbiamo che il mondo che ci circonda ora sia illusione o realtà? In fondo la vita potrebbe essere solo un sogno, più lungo degli altri… Tutte queste domande potrebbero sembrare deliranti, se non fosse per il fatto che sono tutte rigorosamente prive di risposta. Se solo per un istante realizziamo questo, il mondo, con tutte le sue certezze, comincia a vacillare, proprio come accade a Truman, man mano che si rende conto di vivere dentro ad un enorme set. Questo, a mio parere, è l’aspetto più interessante di tutto il film: Truman ad un certo punto si rende conto di essere “in onda, senza saperlo”. Ma come è possibile che una persona nata, cresciuta e vissuta solo in un mondo, ad un certo punto diventi consapevole di quel mondo che è l’unico che lui conosca? Come può un pesce accorgersi dell’acqua in cui è immerso senza averne mai sperimentato l’assenza? A questo proposito è interessante osservare che, come ben mette in evidenza Douglas R. Hofstadter in “Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante”, una delle proprietà della mente umana è quella di saper “uscire dal sistema”. Che significa che posso scrivere essendo totalmente immersa in ciò che sto facendo e, ad un certo punto, accorgermi che sto scrivendo. Posso leggere, ed accorgermi che sto leggendo. Posso inoltre accorgermi che mi sono accorta e così via attraverso un gioco di salti di livello. Ma la cosa veramente speciale è che la coscienza ha la capacità di accorgersi di se stessa e del mondo che la circonda (la suddivisione in realtà è puramente fittizia visto che, per quel che mi riguarda, il mondo, ogget-tivo o sognato che sia, sta accadendo all’interno della mia mente). Come avviene questa particolarissima “uscita dal sistema”?

Nell’ordinatissimo set in cui vive Truman ogni tanto accadono degli episodi assurdi, surreali, proprio come in un quadro di Magritte in cui la precisione fotografica contrasta con qualche particolare fuori posto che rende la scena impossibile. Un attrezzo che cade dal cielo, la pioggia che scende solo su di lui, conversazioni con la moglie interrotte da insensati stacchi pubblicitari. Rotture di inerzia alla normalità, piccoli indizi che provocano la nascita del senso di perplessità. Ma l’elemento più rilevante è quando Truman, girando in macchina, si sintonizza sulla frequenza della trasmissione di cui fa parte e sente descrivere i suoi stessi movimenti. In quel momento vive un esperienza di totale estraniazione: è se stesso e altro da se stesso, si è accorto del sistema. Quel che accade nella vita è che non è necessario che una chiave inglese ci cada in testa dal ciclo perché nasca la perplessità: capita che ogni tanto le cose perdano la loro illusione di normalità e brillino di stranezza, rivelando il loro puro esserci; accade anche che la coscienza riesca a provare questa stessa perplessità nei propri confronti, vivendo una sorta di estraniazione in cui è se stessa e domanda su se stessa. Nel domandarsi prende in considerazione due possibilità, di cui una non realizzata: la sua assenza. La coscienza diventa consapevole di sé grazie a questo contrasto. L’ultimo salto di livello è reso possibile dall’unica cosa totalmente mancante: il nulla. Ed ecco che, nel concepire il nulla, come Truman, siamo andati a sbattere contro ai confini del set. L’universo è immensamente grande, ma nel contrasto con il nulla delimitiamo una linea di confine netta, per mezzo della quale possiamo coglierlo come sistema finito, possiamo concepire “il Tutto”. Irrimediabile e catastrofica considerazione!! Fine di qualsiasi ipotetica rassicurante simmetria. Tutto ciò che non è nulla viene a trovarsi dalla stessa parte: il Creatore con il creato, la causa con l’effetto, lo spirito con la materia, qualsiasi altro ipotetico mondo assieme a questo mondo, il regista dentro allo show.

Possiamo concepire infiniti mondi migliori secondo alcuni parametri, ma nessuno meno arbitrario di questo. Attraverso la percezione della stranezza, esperienza che abitualmente viene considerata patologica, possiamo arrivare ad una consapevolezza che ce ne spiega il significato: se siamo impossibilitati a capire perché il mondo esiste, potremo mai sapere cos’è? La molteplicità dei fenomeni rende possibile delle operazioni di traduzione. Possiamo dare un nome alle cose, conoscere la loro funzione, confrontarle con altre, inserirle in una categoria, ma in realtà, cosa sono prima di tutto questo? Con cosa è possibile confrontare o tradurre “il tutto”? Che cosa può dire la mente di se stessa senza utilizzare un oggetto in essa contenuto?

Quando questa consapevolezza irrompe in una coscienza tutto è come prima ma niente è più come prima. Una porta si è spalancata per sempre sul mistero. Non potranno più esserci amici a convincerci della normalità dell’esistenza, ne dèi a rassicurarci. Una volta fatto un salto fuori dal sistema è impossibile dimenticarselo. Dal momento in cui Truman ha scoperto di essere dentro ad un set, ha anche realizzato che tutto ciò con cui si è identificato fino a quel momento non gli appartiene. Alla fine non può che trovare il coraggio di attraversare il mare perché non riesce più ad aderire nemmeno alla sua paura. A questo punto interviene la magia dell’evento domanda. Lo strumento che consente la messa a fuoco del problema diventa soluzione al problema. Anche una domanda, come tutto ciò che non è nulla, è costretta ad essere arbitrariamente così com’è, intraducibile a se stessa, ma, proprio nel rendersi conto di questo, rilancia se stessa. Il sistema è contemporaneamente chiuso e aperto, statico e dinamico, congelato e sfumato. Nel momento in cui il mistero si accorge di se stesso, supera se stesso, si trascende completamente. Nell’attraversare la porta spalancata sul buio Truman va incontro alla sua domanda e non alla sua libertà. Non sa che cosa troverà oltre alla porta: se il passato non gli appartiene, tantomeno gli appartiene il futuro. L’unica cosa certa è che una domanda sta accadendo ora. Una domanda che è anche l’unica possibile risposta. Il finale del film è sospensivo e non conclusivo. E quello stesso senso di sospensione è rilanciato contro lo spettatore con quello schermo nero.

Forse tutto questo non è stato così chiaramente presente nella mente di Peter Weir, quando ha concepito il film. Ma tutto ciò, prima ancora di trovare le parole per dirsi, si esprime attraverso un sentimento. Un sentimento che innegabilmente si ritrova in altre opere del regista, a cominciare dall’indimenticabile “Picnic a Hanging Rock”, un film giocato dall’inizio alla fine su un senso di sospensione, di mancanza di soluzione. La frase con cui inizia, “la vita è sogno, nient’altro che sogno, il sogno di un sogno”, non si spalanca forse su un’abissale domanda: il sogno di chi? E quella misteriosa roccia antropomorfica che sospende lo scorrere del tempo, che cos’è? Perché c’è? Da quando si trova lì? Senza dimenticare “Fearless”, che evidentemente racconta di una coscienza che nel momento in cui teme di nullificarsi si accorge potentemente di se stessa e supera ogni paura scoprendosi realtà trascendente. Ma va anche oltre a ciò in un finale in cui il protagonista, trovandosi in un tunnel che separa questo mondo, dal luminoso mondo dello spirito, anziché raggiungerlo attratto dal grande fascino che emana, si volta e torna indietro scoppiando in una fragorosa risata perché ha realizzato che questo, o qualsiasi altro mondo, semplicemente sono…