Vi presentiamo il testo dell’intervento di Beatrice Benfenati dal titolo Il sentire intenso che accompagna la gravidanza, il parto, il dopo parto è da ascoltare o da sedare? L’intervento è stato pronunciato in occasione del Seminario Meditación: Acompañando el nacimiento, la vida y la muerte, svoltosi lo scorso 6 dicembre all’Università “Alberto Hurtado” di Santiago de Chile, e rappresenta un nuovo tentativo, da parte della relatrice, di fare luce sul ruolo delle sensazioni, interiori e fisiche, che la donna prova nel momento in cui si trova ad affrontare la nascita del proprio bambino – sensazioni che, spesso, si ha la tendenza a negare o sopire. Buona lettura!

Tutta la vita, dalla nascita alla morte, è degna di grande rispetto; tuttavia penso che ci siano momenti speciali, come la nascita, che sono porte di accesso a significati che ci riguardano profondamente. Per questo motivo, pur tenendo in massima considerazione chi si occupa di tutelare la naturalità della nascita, credo sia altrettanto importante tutelarne la sacralità.

Quando parlo di “sacro”, intendo qualcosa di cui avere sempre rispetto perché custode di un valore. Un valore, prima di tutto, viene sentito: è un sentire particolare a dirci che ‘quella cosa ha valore’. Possiamo non sapere ancora dirci perché abbia valore, però lo sentiamo intensamente. Nessuno, infatti, resta indifferente alla notizia dell’arrivo di un bambino: anche se non ci riguarda direttamente, se ci ascoltiamo bene qualcosa in noi reagisce sempre e non banalmente. Perché? Cosa viene evocato, in quel momento? Il medico francese Michel Odent dice che la nascita, in ogni cultura, in modi diversi, è sempre stata disturbata con rituali, divieti…[1] Perché? Se vi è capitato di ascoltare le domande dei bambini piccoli in grado di parlare, ai quali era appena nato un fratellino o una sorellina, avete sentito esprimere chiaramente quel sentire; indicando il neonato chiedono: «Chi è? Da dove viene? Dov’era prima di essere nella pancia? Perché è qui?». Domande bellissime alle quali nessuno di noi sa rispondere. Più che domande sono espressione di incapacitazione e di meraviglia rispetto al mistero di ritrovarci a esistere invece che non esistere.

Ecco quello che sente una donna quando sa di aspettare un bambino: incapacitazione, meraviglia, ma anche senso di inadeguatezza perché è qualcosa di veramente grande che sta accadendo in lei. Sente anche l’irreversibilità di quello che è accaduto, che lei non sarà mai più quella di prima e non sa ancora cosa diventerà. Oscilla tra meraviglia e timore – ed ecco la sensazione della nausea che noi, troppo velocemente, consideriamo solo un problema digestivo o ormonale: quella nausea dice invece che la donna è in uno stato sospeso, in cui non è più quella di prima, ma non è ancora madre. Chi è allora? Sarebbe un momento molto fertile da un punto di vista di crescita interiore e anche la sensazione non piacevole data dalla nausea potrebbe diventare interessante, se capissimo di quale domanda essa veicoli, se ne capissimo il valore.

Così è alla fine della gravidanza, quando subentra quel sentire che troppo frettolosamente chiamiamo “paura” e cerchiamo di sedare con la promessa del parto con analgesia epidurale o con un cesareo programmato. Ma è veramente paura o somiglia molto alla paura? Perché nessuno si accorge che, oltre a quel sentire che la futura madre chiama “paura”, c’è anche attrazione, c’è fascino per il parto? E che somiglia molto a quelle situazioni a cui teniamo tantissimo (non parleremmo d’altro!), che aspettiamo, ma allo stesso tempo non sappiamo come accadranno? La donna è intimorita perché sente che avverrà qualcosa, in lei, che è più grande di lei e del quale non può avere controllo. È intimorita, non impaurita: un pericolo ci fa paura, mentre affrontare l’incognita del travaglio intimorisce, a meno che qualcuno non ci abbia insegnato che è pericoloso, e quindi ad averne paura. Nel timore siamo “morbidi”: rispettosi, in uno stato di attesa; nella paura ci induriamo, ci chiudiamo. Nominare correttamente ciò che si sente, capirete, è fondamentale per l’atteggiamento che ne seguirà.

Quando il bambino vorrà nascere, poi, la sensazione dolorosa di ogni contrazione non va temuta, ma compresa: sta indicando alla donna quali posizioni assumere perché il bambino possa venire al mondo e quali non assumere perché sarebbero di ostacolo. Quella sensazione non piacevole non è un nemico, ma un prezioso consigliere che sta difendendo la nascita del bambino.

In seguito avverrà l’incontro col bambino stesso, incontro che, prima di suscitare immensa gioia, spesso è anticipato da un senso di stranezza, di sconosciutezza verso la presenza del neonato, verso il suo sguardo intensissimo. Dall’interno spingono le domande che ognuno di noi dovrebbe potersi porre davanti a un neonato: chi è? Da dove viene? Come è possibile che da un ovulo e uno spermatozoo sia nato proprio “qualcuno”? Sono domande radicali che, presto comprendiamo, non riguardano solo il bambino, ma anche noi. La presenza del neonato le sta solo evocando.

Questo è un momento delicatissimo: se la donna non comprende pienamente il significato e il valore delle sensazioni che la abitano in quel primo incontro col bambino, avendo difficoltà per esempio a toccarlo, può trarre la conclusione di non essere una brava madre perché non sente subito e solo “felicità”; tale fraintendimento potrebbe inoltre creare i presupposti per una possibile depressione post parto. La presenza del bambino, per i significati che evoca – così facili da sentire, ma difficili da nominare correttamente – incute rispetto, ed è quindi naturale che la madre possa aver bisogno di tempo prima di riuscire a toccare il figlio. Non è mancanza di istinto materno: è sentire il sacro.

Potrei dire molto di più sul sentire significativo che accompagna la nascita, ma vorrei tenermi il tempo di ricordarvi che quel sentire, quando non risulta piacevole, viene considerato ormai dalla nostra società come inutile, disturbante e quindi da evitare. Da oltre trent’anni seguo donne dalla gravidanza al dopo parto e devo dire con tristezza che sono sempre meno numerose quelle che sono state educate a dare valore anche alle sensazioni non piacevoli; non ricevono questo prezioso insegnamento neppure da chi dovrebbe prendersi cura di loro e tratta ogni dolore allo stesso modo: alle prime nausee, subito un farmaco per farle cessare velocemente, il timore degli ultimi mesi di gravidanza viene messo a tacere con la prenotazione dell’analgesia epidurale, il dolore della contrazione (che è lì per guidare la donna nel travaglio e proteggere il bambino) viene sedato, la sensazione di stranezza che potrebbe ricordarci che non è così chiaro chi siamo, che non è scontato il perché ci siamo anziché non esserci, viene temuta, nascosta spesso dalla donna stessa, perché se emerge verrà considerata un’anomalia, una patologia, e quindi curata. Si ritiene che parto e sentire vadano separati. Non ci si chiede degli effetti che seguono la separazione tra la donna e ciò che le sta accadendo, cioè la nascita di suo figlio. Non si pensa che potrebbe esserci una relazione tra l’interruzione del rapporto tra la donna e il suo bambino, interruzione causata dall’analgesia epidurale, e le successive difficoltà nell’essere madre, che non di rado si trasformano in vere e proprie depressioni.

Ci rendiamo conto che stiamo confondendo il senso del mistero con la paura, la sconosciutezza col pericolo, la meraviglia con l’ansia, il rispetto verso il bambino con l’inadeguatezza? È un fatto tristissimo che, secondo me, ci sta gravemente impoverendo. Nella nostra società tutto il dolore viene considerato allo stesso modo: è sempre da evitare. Ma quando il dolore è portatore di significati che ci riguardano così profondamente, e noi soltanto ci preoccupiamo di sedarlo, ci accorgiamo che stiamo mettendo a tacere anche le voci più importanti che ci abitano? Domande che fanno di noi degli esseri umani, che si sono sempre chiesti su loro stessi, sul senso di essere qui, proprio grazie a quel sentire non piacevole? Quale futuro si prospetta se le sensazioni più significative vengono regolarmente sedate? Cosa diventeremo?

Occorre ritrovare un rapporto diverso con la sofferenza.

Una volta che la sensazione è stata riconosciuta come “dolore”, la mente comincia a leggerla, a tradurla in un certo modo, determinando così il tipo di esperienza che ne seguirà: nella stessa sensazione dolorosa della contrazione nel travaglio, per esempio, una donna ben preparata potrà vedere un’indicazione preziosa del suo corpo che la guiderà nella scelta delle posizioni da assumere durante le contrazioni, e ne sarà grata; un’altra donna, non educata al significato del dolore, potrebbe invece vedere un’ingiustizia che sta inutilmente subendo ed entrare in conflitto col suo corpo e con quello che sta accadendo. Non è difficile immaginare che gli esiti possano essere completamente diversi.

È possibile una relazione diversa con la sofferenza?

Occorre una Via, nel senso orientale del termine. Una Via, in Oriente, è qualcosa da praticare per tutta la vita, che di giorno in giorno educa, trasforma, fino alla morte. Che insegna a vivere e a morire. In Occidente non conosciamo il significato di “Via”: noi ci iscriviamo a un corso per un periodo limitato, un corso che ci dia delle informazioni. A un corso non si chiede di educarci.

Intraprendere una Via – e la Via della meditazione è perfetta, per questo – significa aver bisogno di imparare. Cosa ci può insegnare la meditazione? Innanzitutto a raccoglierci in noi stessi, a stare con noi stessi, nell’immobilità, nel silenzio. Ad ascoltarci, osservarci e trovare interesse in quel che sentiamo al di là del fatto che sia piacevole oppure no. L’interesse permette di prenderci il tempo di ascoltarci a lungo e capire cosa ci sta dicendo quel che sentiamo. Cogliere che quel che sentiamo può avere valore, ci riguarda, ci dice che in quel che sta accadendo ne va molto di noi. Quel sentire va poi tradotto correttamente, nominato correttamente, evitando di confondere una sensazione con un’altra che le somiglia, e anche questo richiede concentrazione, osservazione, precisione, ascolto prolungati.

La postura immobile della meditazione favorisce l’allineamento della colonna vertebrale, il quale, a sua volta, permette il perdurare dell’attenzione; quando il corpo è fermo, quando la colonna vertebrale è diritta, la mente è in grado di restare concentrata su se stessa e indagare.

In Oriente è risaputo da millenni che mente e corpo non sono separati e che per coltivare una buona qualità della mente occorre partire dal corpo, dal respiro, calmandoli attraverso una Via. E una Via va praticata regolarmente, quotidianamente.

La gravidanza, il parto, il dopo parto sono accompagnati da una tempesta di sensazioni che, se indagate alla luce di una Via, possono diventare per la donna un’esperienza fondamentale per la sua crescita. Ho letto che presso popolazioni che noi chiamiamo “primitive”, la donna è considerata in grado di affrontare la prova del parto e ci si aspetta che ne esca più saggia: il parto è un’iniziazione che la prepara a diventare madre e quindi educatrice, esempio per suo figlio.

La domanda con la quale vorrei concludere questo intervento è la seguente: in Occidente non si pratica una Via perché non se ne sente il bisogno oppure perché non si conosce più questa possibilità?

Anni fa, quando la religione aveva ancora un ruolo importante nelle vite della maggior parte dei nostri genitori e nonni, era quella la loro Via; la vita era scandita da appuntamenti significativi: la messa, i sacramenti, la preghiera… Nella azioni della giornata c’era una ricerca di condotta morale, c’erano principi da rispettare, valori ai quali aspirare. Oggigiorno, chi non segue un cammino religioso e neppure una Via quale senso darà alle proprie azioni? Al rispetto di cosa educherà il proprio figlio? A quale forza attingerà per affrontare momenti di sofferenza per la perdita di una persona cara? Come si preparerà alla propria morte?

 


[1] Odent, La Scientificazione dell’amore, pag. 23.

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