Estate: tutto rallenta. O sembra farlo. O vorrebbe, data l’afa. Ma rallentare comporta un fastidioso contrappasso: la noia. Quella che ormai insorge dopo pochi secondi di inattività: basta guardarsi attorno – o osservare se stessi – per scoprire quanto velocemente si estrae lo smart phone per colmare una pausa, un’attesa, una sospensione. La stasi da riempire va dal tempo ‘inutile’ trascorso ad aspettare il proprio turno ad un qualsiasi sportello all’intervallo d’incertezza entro cui galleggia un semplice dubbio (questioni magari insignificanti, come la scelta di un vestito), fino alla domanda che fatalmente si pone, prima o poi, qualunque membro di qualsiasi social network: che ne sarà della mia vita virtuale dopo la mia morte reale? Insomma, niente a cui la rete non possa rispondere, come tempo fa sottolineava Evgeny Morozov su un suo articolo riportato da Repubblica. Eppure ci sono questioni che ci obbligano a rallentare. O almeno dovrebbero.

In un mondo in cui ogni problema sembra DOVER e, quindi (???), POTER avere una soluzione rapida e semplice, il segreto per una vita scevra dall’inquietudine del tempo vuoto o di una domanda senza una risposta ‘facile’ è apparentemente altrettanto rapida e semplice: basta affidarsi alla tecnica. Meglio ancora: alla tecnologia. Come fa notare Morozov, tutte le “imperfezioni” che punteggiano la superficie altrimenti piana della realtà, dai piccoli dubbi quotidiani alla fame in Africa, fino ad arrivare alla disdicevole prospettiva, tuttora inevitabile, della morte, diventano problemi certo fastidiosi, ma facilmente risolvibili, se osservati alla luce delle sorprendenti possibilità messe a disposizione dalle ricerche della Silicon Valley: è pronto un servizio web per “condurre sondaggi istantanei nella cerchia di amici per chiedere consiglio su qualunque cosa: dalla scelta dell’abito da sposa, al tipo di bevanda da ordinare al bar e presto, forse, al candidato da votare alle elezioni. […] I rischi di bocciatura sono ridotti al minimo. Sappiamo con largo anticipo quanti ‘mi piace’ totalizzerà su Facebook ogni nostra decisione”. I conti tornano, quando si legge che in Gran Bretagna i ragazzi chiedono consiglio alla rete molto più spesso che non ai nonni, sempre più esclusi dal dialogo coi nipoti perché “possono sbagliare consiglio”. Esiste poi un’app per continuare a twittare anche dopo morti: “Analizzando i tweet pregressi il servizio imparerà a conoscere le tue preferenze, i tuoi gusti, la tua sintassi così da personalizzare i testi dall’aldilà composti in automatico”. Come ti trasformo una profonda questione esistenziale in un bug.

Ma si badi, questo “soluzionismo”, come lo chiama Morozov, si nutre anche dell’intento filantropico di chi ha a cuore un pilastro etico quale il rispetto dei diritti umani: “Africa? Ecco la app giusta, titola davvero così il sito web dell’edizione Britannica di Wired. C’è nessuno che può prestarla alla World Bank, per favore?”. Ovviamente, precisiamo, tutto questo non ha nulla a che vedere con le molte petizioni che usano il web come veicolo: Amnesty International, Avaaz e altre organizzazioni internazionali ugualmente affidabili non si servono certo di app, ma di qualche minuto del nostro prezioso tempo e di dati personali che, come la cronaca internazionale ha ampiamente dimostrato, sono comunque già in possesso di abnormi banche dati governative. Su questo sì possiamo stare davvero ‘tranquilli’…

Ciò che l’articolo di Morozov propone non è certo l’assurda velleità di demonizzare la tecnologia (ambizione con cui spesso si confonde ciò che è solo l’invito a una sana riflessione su noi stessi), bensì l’altrettanto assurda aspirazione a chiudere con una superficialità che sfiora l’idiozia questioni estremamente gravi, o solo molto più complesse di quanto appaia allo sguardo alterato di una società appiattita sul proprio bisogno di soddisfazioni immediate. Una società tanto debole da non trovare più nemmeno la forza di assumersi il carico di inquietudine di un dubbio, di una possibilità, di un congiuntivo che apra all’incertezza. Ancora Morozov: “Ogni volta che le imprese tecnologiche lamentano che il nostro mondo in frantumi va aggiustato, dovremmo immediatamente chiederci: come facciamo a sapere se è rotto esattamente come dice la Silicon Valley? E se i tecnici si sbagliassero e fossero proprio la frustrazione, l’incoerenza, la smemoratezza, forse addirittura la faziosità le caratteristiche che ci consentono di trasformarci […] nei complessi attori sociali che siamo?”.

Siamo in grado, chiediamo in aggiunta, di sostenere l’idea di un mondo e di un io intrinsecamente ‘imperfetti’, che ci costringono a inciampi, ruzzoloni, ferite individuali e collettive? Possiamo tornare ad accogliere la lentezza necessaria a ponderare con attenzione i dubbi che ci riguardano più da vicino, e tornare artefici anche delle nostre (naturali) piccole e grandi sconfitte? Siamo in grado, in una parola, di relazionarci con limiti e limitazioni contingenti e universali? La risposta è nella reazione di chi legge queste stesse domande. Domande le cui risposte, per quanto si cerchi, non si trovano su Google.