Lezione tenuta da Franco Bertossa il 30 luglio 2008 presso A.S.I.A. Bologna

a cura di Beatrice Benfenati

La medesimezza

Franco Bertossa: «Farò una lezione difficile. All’inizio si capirà poco, ma si comincia così, bisogna avere la pazienza di chi intende praticare seriamente: le cose si guadagnano poco per volta, il che non è in contraddizione con improvvisamente. È un tema estremo dal punto di vista dell’intuizione della pratica. Un tema estremo che ci si trova ad approcciare con l’intelletto, con l’immaginazione, perché non si hanno altri strumenti finché, appunto, non si sblocca una capacità particolare, una capacità più profonda di intuizione, che non è l’intuizione razionale, non è l’intelligenza da primo della classe. L’intelligenza non guasta, ma non è quel tipo di mente che riesce a penetrare tali questioni. È un’intuizione di carattere particolare, di natura diversa da quella mente che dimostra la propria capacità intuendo più rapidamente di altri connessioni fra eventi. È un’intelligenza di una natura, direi, quasi non cerebrale. Per affrontare questo tema maggiore partiamo da un altro aspetto difficile da essere colto, ma che ci fungerà da preliminare; è un tema maggiore un po’ più debole di quello definitivo: la medesimezza.

Qualcosa mi appare e io posso intendere la mia esperienza come un soggetto che guarda un oggetto. L’oggetto sarebbe questo ventaglio che ho in mano, il soggetto testimone del fenomeno sarei io. Invece, dal punto di vista della medesimezza, non è così: nella medesimezza non c’è traduzione, non c’è denominazione, non c’è differenziazione. Il soggetto e l’oggetto sono un modo di intendere basato su una distinzione, su una distanziazione. Questo modo non è in grado di testimoniare la verità della medesimezza. La medesimezza include anche gli argomenti che io via via presento riguardo la medesimezza. Mentre parlerò voi seguirete i miei discorsi e, come sempre accade, vi farete guidare da essi che sono come dita puntate verso qualche cosa. La descrizione si riferisce a qualcosa di descritto; la cosa difficile, il primo seme di medesimezza, è cogliere che non c’è distinzione fra la descrizione e il descritto.

Il nostro modo di procedere usuale è che io pronunci queste frasi, vi indirizzi a qualche cosa da intendere, e voi cerchiate di fare corrispondere ciò a cui vi ho indirizzato con le parole che ho usato per indirizzarvi; quando la descrizione e il descritto vi sembra coincidano, dite: “Ho capito”. Quando anche chiediamo a qualcuno di farci capire meglio, di solito gli chiediamo di dare una descrizione più fedele, più precisa, con delle ragioni, con dei dettagli. Questo è il modo usuale di funzionare: c’è una mente intellettiva e c’è qualche cosa da intelligere, da capire.

Questo modo di svolgersi della nostra mente è basato su una separazione fra soggetto e oggetto, in base alle cose che sappiamo, in base a come le sappiamo, il contesto culturale in cui le sappiamo, in base a questo siamo capaci di capire dell’altro. Chi ha fatto le elementari può andare alle medie, chi ha fatto le medie può andare alle secondarie, chi ha fatto le secondarie può andare all’università, chi ha fatto l’università può fare la specializzazione, può fare il dottorato, chi ha fatto il dottorato può fare il post dottorato, chi ha fatto il post dottorato può aspirare a una carica universitaria, e via via, fino al trono della cultura laica che è la cattedra, e poi può diventare Professore Emerito, vincere il Nobel… è una cosa che si sviluppa per gradini: ogni precedente garantisce la possibilità del successivo. Questo è il modo di intendere basato sullo sviluppo di certe capacità intellettive; sappiamo bene che se riceviamo più stimoli da ragazzi diventiamo più svegli, abbiamo più possibilità e, se abbiamo più possibilità di sviluppare la conoscenza, sapremo capire meglio il mondo. Capire meglio il mondo non è però della stessa natura del capire che sto indicando in questo momento. Capire meglio il mondo è basato su un soggetto e un oggetto: il soggetto è la persona, l’oggetto è il mondo. Il soggetto si potenzia nelle sue possibilità e si rivolge a un mondo per capirlo, per metabolizzarlo in un certo modo che fa cultura. Questo altro modo di intendere non è in contraddizione col precedente, ma non è dipendente dal precedente. Cultura e intelligenza servono per avvicinarsi a questo tipo di intuizione che si libera d’un tratto. Quando si libera ci rendiamo conto che la cultura, l’erudizione, questo modo di intendere ordinario, ci ha aiutato in parte, ma non è stato essenziale. Non è fondamentale per quest’altro tipo di conoscenza che non è fondato, appunto, su soggetto e oggetto.

Mentre io parlerò vi affiderete al modo ordinario di capire: cercherete di capire che cosa sto dicendo, ci saranno termini, parole, collegamenti fra parole, immagini che voi cercherete di riportare all’oggetto che pensate io stia descrivendo, in modo da vedere se la costruzione, mattone per mattone, vi diventa chiara. Come ho detto prima, noi funzioniamo costantemente anche così, solo che non è il modo che sto cercando di indicare. Quando dico ‘indicare’, a questo punto arriviamo al denso del problema: per indicare ci vuole un indice, un indicatore, ma se l’indicatore si impegna a usare un indice per indicare qualche cosa, con cosa indicheremo l’indicatore? Come indicheremo l’indice? Con quale indice indicheremo l’indice? Vedete che si arriva a un certo punto in cui qualche cosa si mostra, però non in quanto indicabile. Allora voi direte: “Adesso ci hai detto ‘indice’ e con la parola ‘indice’ ci hai suscitato un’immagine”. E io rispondo: “Con cosa immagineremo l’immaginare?”. Il passaggio a monte si ripropone sempre: c’è un evento iniziale che si mostra senza essere indicato da qualcos’altro perché, se fosse indicato da qualcos’altro, ci richiederemmo da cosa è indicato quest’ultimo. Quindi la funzione indicativa, transitiva, ha un limite, non sono ammissibili infiniti passaggi a monte: l’indicatore dell’indicatore dell’indicatore dell’indicatore… questo è semplicemente spostare il problema. Rimandare a monte non è una soluzione, in quanto tutta la eventuale catena che in questo modo si riproporrebbe, cioè l’indicatore dell’indicatore dell’indicatore dell’indicatore, tutta insieme, da cosa verrebbe indicata? Come vedete non è una soluzione perché una volta considerata tutta insieme, manca il suo indicatore. Anche della catena sapremmo, dell’indicatore sapremmo.

Il sapere al di là della mente indicante

Allora la domanda è radicale, a questo punto: come si fa a sapere al di là di una mente indicante? Come si fa a sapere al di là di un indicatore? È un sapere di natura diversa. I “saperi” che conosciamo, che abbiamo studiato, che stiamo studiando, sono del genere indicativo; i dati sulla base dei quali riempiamo i nostri libri di argomenti vengono raccolti con un indicatore: qualcuno raccoglie dati, li cataloga, e c’è sempre un soggetto aperto su un mondo che indica oggetti del mondo e li descrive, li riporta su testi e su archivi di dati. Ma questo modo di rapportarsi al mondo non è il solo, è un modo che chiamiamo transitivo. ‘Transitivo’ significa che un atto di conoscenza transita da qui a lì: soggetto-oggetto, conoscente-conosciuto. È un  processo di conoscenza implicante soggetto, oggetto e atto di conoscenza, il quale atto di conoscenza può a sua volta venire ricriticato, migliorato: è il problema dell’epistemologia, cioè della corretta conoscenza.

C’è un altro modo di intuire il mondo che non è quello descrittivo, transitivo, indicativo. A questo altro modo ci si avvicina quando ci si chiede per esempio: come so che so? Come conosco che conosco? Come capisco che capisco? Cosa vuol dire essere cosciente di essere cosciente? Vedete che rapidamente giriamo la freccia intenzionale, la freccia della coscienza, su se stessa; prende in considerazione se stessa, si domanda di se stessa, si chiede: come so che so? Ma qualsiasi risposta sarebbe un’altra volta un sapere e non sarebbe una risposta in quanto la domanda si riproporrebbe: e questo come lo so? Come sono cosciente di essere cosciente? Invero questo genere di conoscenza si svela non attraverso un tenace sforzo alla maniera dello studio che noi conosciamo, si svela in un altro modo: si svela portando il processo di conoscenza a certi suoi limiti. Uno di questi limiti è, per esempio, l’autoreferenza.

Noi usiamo il sapere per indirizzarlo a qualcos’altro. Il sapere è transitivo, si rivolge a qualche cosa, e quindi ricade nel modello di cui ho parlato prima: il soggetto, l’oggetto, il conoscente, il conosciuto. Ma quando mi chiedo: come conosco che conosco? Come so che so? Allora, a qualsiasi sapere che io possa addurre come risposta, la domanda si ripropone: e questo come lo so? Come so che so? Questo sapere che ipoteticamente posso essermi dato: e di questo come so? C’è un sapere iniziale che chiaramente non riesce a rendere conto di se stesso. Tutti noi in questo momento siamo coscienti, sappiamo qualcosa, anche senza oggetto sappiamo: sappiamo almeno di essere coscienti. Come lo so di essere cosciente? Come so che so? Cosa vuol dire essere consapevoli di essere consapevoli? Questo è l’atto dell’autoreferenza, vale a dire un’attività primitiva si ripiega, si rivolge a se stessa chiedendo ragione di stessa. Ma le ragioni al solito modo non le può dare in quanto, se le desse, ricadrebbe nel sapere e dovrebbe rilanciare: e questo come lo so? Come so che so?

Allora vedete che siamo arrivati a un bordo estremo, a un luogo della conoscenza dove richiedere, come risposta, ciò che invece è in questione. Cos’è in questione? Il sapere. Con quale modalità? Domanda: come so che so? Se adduco un sapere a risposta di questo non faccio altro che riproporre il problema. È incontestabile che io sappia, nessuno di noi in questo momento può legittimamente dire di non essere cosciente:  nel momento in cui lo dicesse si smentirebbe, si contraddirebbe: saprebbe di non sapere, ma allora sa. In questo modo vedete che si spuntano le armi della transitività, perché siamo al corrente di essere coscienti, ma non sappiamo come siamo coscienti. Questo è un limite, un limite in genere non affrontato, non conosciuto: è troppo sottile per essere affrontato. Il laboratorio, chiamiamolo così, a disposizione nella cultura corrente non dispone dell’elemento fondamentale, che è l’altro riferimento. Me ne sono reso conto tante volte parlando con filosofi, con teologi, con scienziati; mi sono reso conto che, quando io dicevo coscienza, per me era un fatto: me la sentivo bruciare dentro, la coscienza, ma per loro era un’idea, una teoria. Allora qual è l’altro riferimento? Quando dico coscienza a cosa mi riferisco?

I primi atti della conoscenza

Chi pratica meditazione dovrebbe avere immediatamente chiaro cos’è coscienza: questo primo sguardo indubitabile, a occhi aperti o occhi chiusi è indifferente, sul buio o sulla luce è lo stesso, di giorno o di notte è lo stesso, indifferente, è sempre a monte, lo sta sapendo in questo momento. Quando si parla di questi temi, per quanto mi riguarda e credo anche per voi, c’è costantemente un parlare, ma che allude a quell’altro riferimento, che la cultura dominante non conosce. Quando si dice ‘coscienza’ per gli ordinari studi sulla coscienza è una coscienza generica; ci sono le teorie sulla coscienza, non è l’esperienza della coscienza che può fare chi medita, chi sa immediatamente, evidentemente, riferirsi ad un atto originario. Ma la coscienza non è un’idea, l’idea è nella coscienza: sono cosciente di avere idee, è immediato, mi pulsa, mi brucia addosso, la sento, la sono. Con questo altro riferimento il discorso è possibile. Ho provato tante volte ad affrontare questi temi con uomini di profonda cultura, ma non hanno questo riferimento. Gli è impossibile perché nessuno ha indicato loro l’altro riferimento in base al quale intraprendere questa ricerca. Il so di questo momento non è un’idea, non stiamo parlando di opinioni: il sapere, la coscienza di questo momento, è un fatto, un fatto, denso, indubitabile, inattaccabile. Dunque questo fatto denso, indubitabile, vero, bruciante, è al contempo anche il so, è la coscienza. Perché è la coscienza? Perché per dire che non lo è, dovrei saperlo, con cosa lo saprei? Una coscienza si impone. Allora semplicemente trasponete qualsiasi idea che avete di coscienza a quel fatto: la coscienza sa, il sapere sa, il sapere c’è, non si può negarlo, negarlo vorrebbe dire confermarlo. Dunque troviamo un limite a monte, uno scalino al di là del quale non è sensato supporre qualche cosa. Ragioniamo un attimo su questo fatto. C’è un gradino a monte della nostra esperienza al di là del quale non è sensato supporre qualcos’altro perché, se vi fosse, allora semplicemente faremmo un passo indietro e ci metteremmo su quest’altro gradino che sta a monte, al di là del quale non avrebbe senso supporre qualcos’altro.

C’è un punto iniziale, il punto iniziale è sapere.  Dobbiamo riferirci a qualche cosa che sa. Se diciamo  che a monte di noi non c’è nient’altro o che a monte di noi c’è qualcos’altro, come lo sappiamo? C’è un punto iniziale che è il sapere. Il sapere che non è una pura, semplice funzione mentale, cerebrale, di rilevamento di dati, di operazioni, è un sapere di altra natura. Tutto questo discorso serve a introdurre un fatto: c’è una conoscenza che non si fonda su soggetto-oggetto. D’altra parte c’è una conoscenza che si fonda su soggetto e oggetto. Via via che intendiamo il mondo in un certo modo, incameriamo dati, leggiamo nuovi libri, predichiamo nuove riflessioni, tutto questo viene trattenuto nella nostra memoria; siamo capaci di ripeterlo, di discuterne, e c’è un soggetto che discute, elabora questi discorsi. Quindi c’è indubitabilmente una conoscenza, fondata su soggetto e oggetto, ma non è la conoscenza ultima, perché manca di una domanda fondamentale, cioè: come sappiamo che c’è questa conoscenza fondata su soggetto e oggetto? Con un altro soggetto? Non sta in piedi, l’ho già argomentato.

Si pone un problema molto serio di conoscenza. Passando da un modello di conoscenza soggetto-oggetto, avendo spinto verso l’origine dove c’è un soggetto che si chiede come sa di se stesso, quel che si mostra è appunto una conoscenza altra. Si crea un problema: so di me stesso, so del sapere, ma non può essere un sapere transitivo. Allora di che natura è questa conoscenza? Cos’altro è? È indubitabile che ci sia, ma non può essere riferita a un altro a monte: il sapere del sapere del sapere non ha senso riferirlo a qualcos’altro, però c’è: come lo so? Quando ho creato un serio problema al soggetto chiedendogli: come sai di te stesso?, tranquillamente posso anche coinvolgere e il soggetto e l’oggetto di conoscenza. Ho parlato della triade: soggetto-oggetto-conoscenza, conoscente-conosciuto-conoscenza, vedente-veduto-visione. Il soggetto in questione, l’oggetto e il processo di conoscenza sono tre distinguibili aspetti. Una volta che abbiamo messo in crisi il soggetto chiedendogli di rendere conto della capacità di sapere di se stesso, a quel punto, dal momento che il soggetto come fonte di conoscenza è stato messo in questione, non ci fa problema che vengano messi in questione e il conoscente e il conosciuto: è un unico evento che è messo in questione, cioè il fatto di stare conoscendo, di essere coscienti in questo momento. Come sappiamo che c’è questo unico evento che, in altra situazione, viene diviso in tre parti, in tre aspetti distinguibili: soggetto-oggetto-conoscenza? Come sappiamo di questo unico evento? Come so che questa è una domanda? Come so che esiste questa domanda? Come so che mi sto facendo questa domanda? Avete la risposta? Se mi dite sì, posso porvi lo stesso problema sulla risposta. C’è questa risposta? Cosa vuol dire che c’è questa risposta?

Questi sono i primi atti della conoscenza. Noi tutti attraversiamo queste fasi della conoscenza che sono: essere aperti, accorgerci, domandarci, e confidiamo su questo. Così avviene il processo di conoscenza, così abbiamo studiato quello che abbiamo studiato, ma anche quando leggiamo un libro o un giornale funzioniamo in questo modo e così funzionate in questo stesso momento, mentre mi ascoltate: cercate di capire cosa vi dico. Ma se ci chiediamo di questi stessi atti di conoscenza, se gli atti di conoscenza prendono in considerazione se stessi e si chiedono di se stessi, e provano a conoscere se stessi, che genere di conoscenza è? Come so di me stesso? Come so che so? Come so che questa è una domanda? Chi si sta facendo questa domanda? È proprio una domanda questa? Come so di questa domanda? Come so che esiste questa domanda? Tutte domande lecite. E le risposte? A questo punto, si faceva una distinzione anche nella scrittura, intuendo questi problemi. Per esempio se una proposizione, una frase, era riferita a qualcos’altro, veniva scritta normalmente: oggi fa caldo. Ma se volevamo riferirci alla frase stessa, vale a dire: “questa frase ha cinque parole”, se ci si riferiva a questa stessa frase la si metteva fra virgolette. Via via che io parlerò voi vedrete che vi si apriranno delle possibilità: una possibilità è che tutto quello che io dico voi lo intendiate come riferito a qualcos’altro, al grande quadro che sta essendo descritto da ciò che io dico. L’altro modo di intendere è che il tema non sia ciò a cui le parole si riferiscono, ma le parole stesse. Che cosa ha detto? Giusto. Non ho capito. Perfetto. Introdurre a questo modo di vedere è molto difficile, perché siamo fortissimamente condizionati ad usare ciò che viene detto e che sentiamo per riferirci a qualcos’altro. Se dico che oggi è stata una giornata calda, grazie all’uso di queste parole uno pensa alla giornata. Questo è un modo indicativo delle parole, indica la giornata trascorsa. Provate invece a considerare nella frase “oggi è stata una giornata calda” non ciò che la frase indica, ma l’esistenza della frase stessa, senza altro oggetto, senza altro termine, senza altro riferimento. È difficile perché abbiamo un tic mentale di riferimento a qualcos’altro: le nostre parole, i nostri atti mentali sono sempre come dita puntate verso qualcos’altro. Ma come ho detto prima non è lecito pensare al dito che è indicato da un altro dito che è indicato da un altro dito: tutta questa catena infinita… come ne sapremmo, cos’altro la indica? Come vedete si ripropone il problema di prima: ne sappiamo, ma non ha senso un’indicazione transitiva. Questo altro modo di sapere, che sapere è? Percettivo, concettuale, sensazionale… cos’è? Se noi lo cataloghiamo dicendo che è concettuale, qual è il concetto che indica il concetto? Abbiamo un concetto di che cosa siano i concetti o i concetti stessi, come ogni altro aspetto della nostra esperienza, ci si presentano in un modo originario, senza nessun operatore a monte? Questo primo darsi, questo primo apparire della conoscenza, si mostra sotto una luce più misteriosa in quanto è la conoscenza di nessuno, cioè di nessun altro. Nella tradizione buddhista questo si definisce una conoscenza dei dharma. Ogni evento è un dharma: voi che restate perplessi è un dharma. Gli eventi appaiono, gli eventi svaniscono. Il soggetto non giustifica l’evento in quanto anche il soggetto è un dharma.  Cosa vuol dire sapere? Anche il sapere è un dharma, se riferito a un contenuto. Il sapere che a volte resta frustato perché non sa, perché non ricorda: anche quello è un evento, non è niente, è qualcosa, è diverso da niente. Quel ‘diverso da niente’ è un dharma, è un evento, si mostra, c’è, appare.

Questo è un altro modo di conoscere, estremamente sottile.  Io credo che si debba pervenire a questo. La nostra cultura è incentrata su un sapere da soggetto a oggetto; occorre che ogni evento, ogni istante di esperienza, si mostri in modo tale che non abbia senso pensarlo derivante da qualcos’altro. Questo merita un piccolo approfondimento. Direi che chi è serio nelle scienze oggi non può non essere materialista; se non è materialista è confuso, in quanto non saprebbe giustificare a fondo la propria posizione. Se uno è rigoroso e tira le somme di ciò che oggi si pensa, come si pensa, come si studia e come ci si comporta, non può non essere materialista. È disonesto se dice che non lo è perché, appena gli chiedeste di giustificare una posizione alternativa, non ne sarebbe capace. Se voi partite da un’altra posizione, dalla posizione condivisa dalla cultura contemporanea, non potete non dirvi materialisti perché l’altro riferimento non c’è. “Io sono religioso”, dici, e te lo concediamo e rispettiamo tutti, ma a un certo punto dovrai dire: “Credo in cose che nessuno vede, Deus mihi dixit, Dio mio ha parlato”; però ha parlato a te, a noi non ha detto niente, e noi restiamo con cosa? Con questo: se vuoi tirare le conclusioni estreme di ciò che sei in grado di dire devi dirti materialista, anche se ti proclami di fede; saremo teneri e compassionevoli perché non esigeremo da te che tu dia tutte le ragioni che dovresti dare, perché non sei in grado, ma devi dirti materialista. Questa posizione molto impacciata è un polo nel quale è anche lecito dire che soggetto-oggetto sono finzioni. Nelle neuroscienze, per esempio, si dice che tutto questo è organizzato in modo da far affiorare un complesso di funzioni che chiamiamo ‘soggetto’. Quando si dorme il soggetto non c’è, quando si muore non c’è più, quando non si era nati non c’era. Sulla base di questo, tutto è materia che, organizzata complessamente, fa emergere una funzione che chiamiamo persona, soggetto, coscienza, e che dura quanto dura la vita. Questo è come si intende oggi coscienza. Allora uno direbbe che è esattamente quello che ho detto prima. No, la differenza è sottilissima: manca essere. Vale a dire che questo blocco che si organizza nella complessità e affiora come coscienza non si chiede come sa di se stesso. Non riesce ad arrivare in fondo a questa interrogazione, manca un significato. Prendiamo questa stessa struttura e aggiungiamole un significato: esistenza. Io so della mia esistenza. Quando la coscienza sa di se stessa si riempie di un significato nuovo che la cultura contemporanea non conosce, che è appunto il sapere dell’essere.

Il sapere dell’essere

Essere non è un concetto, perché se vi chiedessi di spiegarmi cosa vuol dire questo concetto non ne sareste in grado: nessuno è in grado di spiegare cosa vuol dire essere, perché ogni spiegazione sarebbe. Un’altra volta siamo in quello spigolo ai confini del mondo: essere non è una parola, non è un concetto, non è una teoria, in quanto parole, concetti e teorie sono. È un sapere differente. La parola differente viene usata per designare questo evento. In Occidente la differenza ontologica è un’intuizione straordinaria di Heidegger; in Oriente è la struttura di base della vacuità, conosciuta da più di duemila anni. Questa à la ragione profonda per cui i Giapponesi intuirono rapidamente che cosa stava dicendo Heidegger, e apprezzarono: furono i primi a tradurre Che cos’è metafisica? Uscì prima in Giappone che nel resto d’Europa. I Giapponesi intuirono rapidamente che stava parlando di qualcosa che faceva parte della loro cultura.

Quando so di sapere, in realtà, so dell’essere del sapere, so che c’è sapere, so che sapere è diverso da niente; essere significa essere diverso da niente, è altro rispetto a niente, non è niente. Il so in ultimo è il sapere d’essere di se stesso. Qui cominciano le vertigini, non pensiate di uscire con un concetto chiaro di questo, perché non si lascia intrappolare in un concetto. Voi non avrete mai chiaro cosa significa differenza, nei termini in cui potete avere chiaro come è fatta una lampadina. Noi possiamo intrappolare in un’idea qualche cosa: il progetto di una lampadina, di un registratore… Mentre la differenza, cioè che sapere è il sapere dell’essere del sapere, non si lascia intrappolare. È una cosa estasiante, io ci passo le mie giornate, è talmente calamitante che ogni volta che torno lì è abissale. È così sottile, sembra di esserci, ce l’ho! E non ce l’hai mai.  È la fonte di tutto.

La vacuità, madre di tutti i Buddha

dicono i Buddhisti. È originario, misterioso questo evento; inafferrabile, perché afferrare è un’attività transitiva, ma l’essere dell’afferrare transitivo non è transitivo. Questo nuovo significato, che è il significato di essere, inteso correttamente, corrisponde ad un’illuminazione. Vale a dire che non è un atto che si intende con l’intelletto; con l’intelletto  si rappresenta, si confronta, si connette, si separa, si distingue, si procede, si deduce, si induce, questi sono gli atti di quell’intelletto. Ma vedere l’essere di tutto questo non è una deduzione, non è una induzione, non è un calcolo, non è nessuno degli atti della mente. Sapere dell’essere della mente non è di quella mente. È un sapere ontologico, è un sapere di natura altra.  Noi adesso restiamo lì, frustrati, con le mani che vogliono afferrare, vorremmo capire… Ma con cosa capiremo che c’è capire?

La verità sul soggetto

Come vedete non si lascia intrappolare. Siamo arrivati al gradino estremo: tutto appare, ma non a un soggetto, in quanto anche il soggetto appare. Questo è sapere dell’essere. A questo punto ogni parola, ogni frase, può essere intesa nel modo altro – non in un altro modo, ma nel modo altro. Vale a dire che, mentre indica qualcosa di transitivo, come il laser pointer sullo schermo durante una conferenza, al contempo è indicato l’essere e dello schermo, del laser pointer, della mano che lo tiene, della mente che parla, e di tutto. Il Mahaprajnaparamita Hridaya Sutra dice:

Forma è vuoto, vuoto è forma. 

Io dico ‘spigolo’, ma è lo stesso. Forma, orizzontale: il mondo nelle sue qualità. Vuoto: l’essere delle qualità.

Forma è vuoto, vuoto è forma. 

Semplicissimo, ma abissale. Il semplice è abissale. Del complicato si arriva a capo, ci vuole una mente eccezionale. Finché è un problema, è risolvibile; ci vorrà molto talento, molta intelligenza o un gruppo di intelligenze, ma ci si arriva a capo. Il mistero è ciò a cui non si arriva a capo. Noi non abbiamo atti ulteriori con cui affrontare il mistero. Il mistero è l’esser stesso degli atti, non ci sono gli atti sugli atti; se ci fossero, allora il mistero sarebbe l’essere degli atti sugli atti, ma saremmo di nuovo in quella struttura di dito su dito su dito. E tutto insieme si mostra essente, misteriosamente essente…

È una soglia molto importante in quanto apre gli occhi sul riferimento altro, che non è il soggetto, ma è la verità del, sul e dal soggetto che è quel so. Chi è il vero soggetto? Il vero soggetto, ma non ha senso chiamarlo soggetto, è il saper d’essere. Però il sapere d’essere è tale per cui, se ci fosse un depositario di questo sapere, si darebbe l’essere del depositario: è sempre differente. Ma differente non vuol dire a monte, a monte, a monte…; non ha più senso andare a monte perché lo vediamo comunque essere. C’è un punto iniziale dove il soggetto svanisce, non ha più senso, oppure resta davanti, ma a monte non c’è niente, non c’è un altro soggetto rispetto al quale l’essere resta davanti, è solo una metafora, un modo di dire. Nella piena percezione del me stesso sento che il fondo corsa non è me stesso; non come cosa là in fondo capace di tutto questo. Se anche c’è quella cosa capace di tutto questo, proprio per il fatto che c’è, non è solo quella cosa, sebbene non sia altro: è l’essere di quella cosa.

All’origine noi troviamo una imprendibile, differente struttura. Non troviamo qualcosa, ma è l’essere di qualcosa. Cos’è quel qualcosa? è  il sapere dell’essere di qualcosa. Non lo afferrerete, provate, ma più provate più uscite da voi stessi perché andate ad afferrare qualche cosa che afferrabile non è perché l’afferramento stesso c’è, e ricade nello stesso mistero. Quando si entra in questo mondo si comincia a vedere non un altro mondo, ma un mondo altro. C’è solo questo (batte la mano sul tatami) siamo ben ancorati e costretti a questo, non c’è nient’altro, non c’è altro. C’è caldo, poi c’è freddo, c’è stanchezza, c’è sonno, c’è fame, c’è gioia, c’è felicità, c’è lavoro, c’è questo. Ma c’è questo, e in quel c’è sta la differenza. In quel c’è si ha il mondo altro, differente. Forma è vuoto, vuoto è forma. Allora si viene iniziati letteralmente a una sapienza, che consiste in: mentre parliamo indicando la cosa, l’indicare stesso appare, non indicato da nient’altro. Allora questo vuol dire sfondare i confini di una certa mente che si colloca in se stessa, che pensa qualcosa di sé, ma non vede l’essere del pensiero di sé. Il significato cruciale, quel significato che sfonda i confini dell’io è appunto essereEssere non è un pensiero, essere non è un concetto, essere non è una teoria, essere non è dubitabile. Non è neanche una teoria dubitabile: se fosse una teoria dubitabile, sarebbe. Questa è una sfida straordinaria a cui non si perviene con la ragione.

Qual è la mente capace di illuminazione?

Come le tradizioni religiose spirituali ben sanno da sempre, per coltivare questo tipo di intuizione occorre ripulire la mente. Nel Buddhismo si dice che preliminare a questa intuizione sia ripulire bodhichittachitta è mente, bodhi è l’illuminazione. Bisogna coltivare quella mente capace di illuminazione. La mente capace di illuminazione, si dice nel Buddhismo Mahayana, è quella che non tiene a se stessa. È una mente per gli altri. Non egoica, non calcolatrice, non furba, è una mente ingenua, che si fa imbrogliare facilmente, che dà facilmente fiducia, è una mente che non pone troppe condizioni. Proprio perché è così ingenua, proprio perché non pone barriere, può vedere al di là di quelle barriere che gli altri pongono. Abbandono è la condizione fondamentale per questo tipo di intuizione; ogni indurimento ci allontana da questo, ogni pretesa ci allontana da questa intuizione. Pretesa, indurimento, furbizia, vantaggio, sono esiti di una mente che calcola, di una mente che vuole, pretende, si colloca in qualche cosa. Ma la mente che si colloca non è capace di stranimento. Cosa vuol dire stranimento? Stranimento vuol dire vedere tutto dal niente. Ogni identificazione è una appropriazione. Nel Buddhismo si chiama upadana, accasamento.

È un meccanismo estremamente umano; ci si immedesima in un ruolo, ci si immedesima anche in stati d’animo, in posizioni, si può diventare anche estremamente feroci per conservare la posizione. Questo momento della immedesimazione è un momento di oscuramento, in realtà. Quando ti immedesimi ti allontani, non stai più vedendo. È come se tutti quanti ci materializzassimo in questo momento. Da dove? In realtà è così. Chi sa perché esiste? Lo sapete perché esistete? Non sappiamo niente, nessuno sa niente. Siamo come materializzati in questo momento. Poi all’interno di questo gioco qualcuno dice: “Io sono il capo, io ho più diritti, io sono più bravo”. Ma siamo tutti qui galleggianti, sospesi sul mistero; in ultimo c’è solo quello che sa meglio degli altri che non sa, questa è la lecita posizione. Invece no: ci si immedesima in positivo, in un ruolo, è un delirio. Questa mente che si immedesima è esattamente l’opposto della mente che può capire la differenza, il fatto d’essere. Se ci si immedesima, ci si allontana dalla possibilità del capire in quel modo altro. Quindi una condizione molto importante è appunto la maturazione del non so, dell’abbandono. Il momento dell’abbandono è la precondizione di una possibilità profonda, estrema.

Il modo di vedere altro

Questo per introdurre quel modo di vedere altro che non è un altro modo, è questo modo visto essere. Non si vede essere con gli occhi, anche gli occhi sono, questa è la differenza. Quando si accende in noi, allora si apre la possibilità del costantemente vivere in questo modo: il modo e il modo altro, che non sono antitetici. Non sono due modi: c’è solo questo, nel suo essere. Allora si parla indicando le cose, vivendo ordinariamente, e al contempo tutto questo è visto essereVisto essere non è dipendente da un altro organo: quello sarebbe un altro modo. Quando dico modo altro intendo dire che non c’è qualcos’altro: c’è questo, ma c’è. È il significato di essere, che non è un significato mentale, che non è un significato culturale, che non è un significato concettuale, perché tutto questo a sua volta èÈ significa ‘differente da niente’. 

Fino a questo punto per barlumi, per intuizioni, si capisce che questo discorso ha un senso, perché essere non si può contestare, ma non basta. Questo deve diventare un’abbacinante certezza, e a questa abbacinante certezza si perviene attraverso un salto, un salto che non è dovuto al pensare: piuttosto ci si arriva attraverso l’esaurimento del pensare. Bisogna a tal punto consumare le possibilità del pensiero prensile, quel pensiero che cerca di prendere le cose. Si trova lì nel vuoto, è inutile, è incapace; a quel punto si accorge di un’altra natura misteriosa di se stesso. Questo evento è fondamentale, se questo non succede non si capisce niente, oppure lo si capisce, ma mentalmente, e non è il vero capire. Questo momento è un momento illuminante, centrale, che è solo l’inizio della strada, non è la fine. Alcuni, quando vivono questo momento, si esaltano al punto tale che pensano di essere arrivati. Fatti loro, facciano quel che vogliono, quel che possono, ma è solo l’inizio, non è la fine. Però rende possibile l’intuizione profonda di questa verità altra che non si smette di coltivare per tutta la vita, in quanto non si lascia imbrigliare, non si lascia esaurire. Per suscitare questa mente altra ci sono varie strategie. Noi usiamo ordinariamente questa mente che è in atto adesso che è la mente del capire, del connettere, del distinguere, del dedurre; a questa mente ipertrofizzata si delega tutto. È sicuramente meglio essere colti che ignoranti e intelligenti più che tonti, però talvolta ho visto persone talmente colte che non hanno più varchi, non hanno più accessi possibili; non si riesce neanche a instaurare un minimo rapporto perché la loro cultura immediatamente condiziona ogni tipo di rapporto. Ci sono persone così intelligenti che sono troppo veloci, l’intelligenza è una funzione. La vera intelligenza secondo me non deve essere eccessiva, perché una persona troppo intelligente in realtà è una persona che fa più operazioni di voi nell’unità di tempo. Spesso però l’immedesimazione in quella intelligenza svia, perché è una ipertrofia: delega a quella funzione ogni problema. La vera intelligenza a mio avviso è la capacità di stabilire i giusti rapporti, di sapere fare le distinzioni, ma respirando. È piuttosto legata a una profonda risonanza che a un rapido calcolo. Magari non mi viene subito la risposta, ma ci penso; ci penso a lungo e magari tra un mese ci re-incontriamo: ho pensato a fondo al nostro problema e ti so dare una risposta più profonda di quella rapida che mi sarebbe venuta se ti avessi risposto subito. In certi casi bisogna dare soluzioni rapide, ma sono soluzioni tecniche; certi ruoli vanno ricoperti da persone veloci, non da persone lente, perché c’è poco tempo e bisogna decidere. In altri casi no; in altri casi ci concediamo tempo, lentezza, profonda risonanza, vibrazione bassa, che ti prende nelle viscere, perché ne va tanto. A questo tipo di intuizione si arriva per consumazione di certe facoltà; la mente va consumata, bisogna portarla al punto dove non ha più possibilità prensile. Quando quella mente viene frustrata, non è che resti niente; restiamo noi frustrati, siamo noi che non capiamo, noi che non siamo capaci, siamo lì. Però siamo, questa è la grande fede. Lo Zen predica:

grande fede, grande determinazione, grande dubbio.

Il mistero ha in sé i termini della soluzione del proprio problema

Noi viviamo in un dubbio: perché esisto? Che senso ha vivere? Ha un senso vivere? ‘Fede’ vuol dire che anche quando siamo completamente frustrati, svuotati, incapaci, siamo ancora qui e sappiamo di essere qui. C’è qualche cosa in noi che sa e questo qualcosa che sa va ridotto a una palla di dubbio. Inghiotti una palla di ferro incandescente e non riesci né a sputarla né a mandarla giù, sta lì, e quella è la pratica. Stacci, con tutta la determinazione possibile, e ad un certo punto, la mente consumata, ogni pretesa sconfitta, d’un tratto ti si aprono gli occhi e vedi. Questa è mente altra, non un’altra mente: la mente che vede l’essere della mente, ed è anche il vero punto di inizio che andrà coltivato per sempre, perché non si lascia esaurire. Non si lascia comprendere, afferrare, finire, sondare fino in fondo, è un abisso senza fine, ma questo abisso senza fine ha in sé la soluzione del proprio problema – non del mistero, perché il mistero resta mistero. Mostra che la sofferenza era la cattiva interpretazione del nostro problema; la sofferenza è un fraintendimento. Intendiamo male la nostra esperienza, ce ne facciamo un’immagine delirante, ci accasiamo in quell’immagine e chiaramente tutto va storto perché è una fantasia, non è la verità. È come se io pensassi di tornare a casa uscendo dalla finestra: è una fantasia, non lo posso fare, devo scendere dalle scale. La nostra vita in genere è un delirio; pensiamo che sia in un modo, non è così, e sbattiamo costantemente la testa contro muri, spigoli. Fa male, fa malissimo. Il mistero ha in sé, e questo lo rende religioso, i termini della propria soluzione; non della risposta, che non c’è, ma della soluzione a quel problema. Il Buddha ha enucleato, evidenziato il problema di dukkha, dell’angoscia esistenziale, della sofferenza più profonda. Il mal di denti non è una vera sofferenza, fa solo male; sofferenza è quando non accetti di avere mal di denti. Gli eventi della vita, le mancanze della vita, sono solo mancanze; se non accetti, quello è dolore. La tua opposizione nella pretesa che debba essere in un altro modo, quello è dukkha, quello è dolore vero, serio. Quel tipo di dolore, dice Buddha, ha una sua ragione profonda, che è appunto nella illusione, nel fraintendimento: le cose non stanno così. Quando ti svegli alla visione altra, quel malessere si risolve. Esperienza più che condivisa da molti di voi: vi ho visti star male, vi ho visti sofferenti e vi ho visti risvegliati.

Questo è il preliminare, una piccola introduzione a temi più profondi, ed è appunto la visione altra. Io adesso vedo con gli occhi e vedo che vedo con gli occhi, ma quando vedo che vedo con gli occhi, vedo l’essere del vedere con gli occhi. (Batte le mani) Sento con le orecchie, e colgo che c’è sentire; non solo sento, c’è sentire. Forma è vuoto, vuoto è forma. Lo spigolo, il come del mondo, il fatto che del mondo, questo è sempre sotto gli occhi, nessuno ne è sprovvisto.  Il requisito minimo è esistere; dal momento che non potete contestarlo, non potete negarlo, avete il requisito minimo. Quando ho detto che avrei introdotto un tema maggiore era proprio questo: la cosa e la cosa altra, la verità e la verità altra, il sapere e il sapere altro, la coscienza e la coscienza altra, che non è un’altra coscienza, è l’essere della coscienza. Non immagazzinatelo come un dato da portare a casa, come un’informazione; va vista sempre: adesso, adesso, adesso. C’è la parola ‘adesso’, la coscienza di adesso, ma c’è, e l’essere di tutto questo, questo è il sapere altro. Questo è muoversi allo spigolo, il come e il fatto che, è l’abisso.

Questo non cambia il mondo. Quando Dōgen andò in Cina si illuminò. Dopo cinque, sei anni, quando era diventato addirittura l’assistente personale del Maestro cinese, Dōgen disse: “Vorrei tornare in Giappone, cosa ne dice il Maestro?”. E il Maestro rispose che era un’ottima idea. Addirittura gli diede delle reliquie molto importanti: la ciotola di un grande maestro, il mantello di un altro grande maestro del passato, gli diede il riconoscimento e gli disse: “Non pensare di cambiare il Giappone, pensa di formare due o anche solo un bravo allievo”. Queste sono quelle cose che mi commuovono. Dietro a questa indicazione c’è qualcosa di commovente per chi insegna. Dedicarsi a uno, o due, se poi sono cinque, sei tanto meglio, ma non pensare di cambiare il mondo. Questa di cambiare il mondo è un’idea occidentale, credo nata fondamentalmente con l’illuminismo: cambiamo il mondo, tutti possono capire, la ragione ci mette sullo stesso piano. Sono sicuramente state conquiste importanti, ma anche travisamenti importanti, perché hanno portato con sé l’idea di cambiare il mondo in quanto…, vediamo un po’ se avete capito la lezione: perché non si cambia il mondo? È attinente al tema di stasera. Quando progettiamo di cambiare il mondo lo progettiamo. Allora bisogna cambiare il progetto, bisogna cambiare il progetto di cambiare il progetto. In realtà noi ci troviamo con un progetto di cui siamo convinti che farà cambiare il mondo. Ma si progetta il progetto? Oppure ci ritroviamo con un progetto? E chi l’ha detto che sia proprio così? Tante ideologie volevano cambiare il mondo, sono collassate su loro stesse. L’opinione orientale che io condivido è che il mondo non sia da cambiare, perché ogni idea di cambiare il mondo, è mondo. Non è che fuori ci sia un progetto per cambiare il mondo che non appartenga al mondo. Ogni idea di cambiare il mondo è già mondo. La visione orientale è questa. Noi ci affacciamo sulla dimensione umana perché siamo da dimensione umana, né meno né più: non siamo animali, non siamo dei, siamo da dimensione umana, con certe capacità e con molti limiti.  L’idea quindi di cambiare il mondo risentirà anche pesantemente dei nostri limiti, delle impostazioni di fondo, dei pregiudizi di fondo. Non è una domanda da non farsi, ma stiamo sulla domanda, non corriamo troppo rapidamente alle conclusioni. Che significa cambiare il mondo? Marx scrisse: “I filosofi fino ad oggi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi, ora si tratta di cambiarlo”. E Heidegger commentava questa proposizione di Marx dicendo: “Ogni cambiamento di mondo deve fondarsi su una interpretazione”. Devi interpretarlo, progettarlo e poi cambiarlo, quindi non si prescinde mai da una interpretazione. Disse Heidegger: “Come vedete è una tesi circolare, è infondata, si contraddice”. Allora restiamo sulla domanda. La mia posizione è questa, ma voi abbiate le vostre: ci affacciamo sulla dimensione mondo, il mondo degli uomini entro il quale pesantemente siamo condizionati e, quando pensiamo a un mondo migliore, lo pensiamo da uomini. Chi l’ha detto che sarà veramente migliore?

Perché dico questo, in rapporto a ciò che ho detto prima? Dico questo perché potrebbe succedere che la nostra visione del mondo cambi completamente a seguito di un’improvvisa esperienza intuitiva. Tutto quello che pensavamo prima potrebbe vanificarsi, il baricentro potrebbe completamente spostarsi. Lo dico anche per un’altra ragione. Quando qualcuno arriva all’illuminazione, in genere fa una sciocchezza: vuole che tutti ci arrivino. Chi ha un’esperienza illuminante subito vuole – a me è successo – che tutti capiscano quella cosa: tutto il mondo deve fondarsi su quella verità, quando in realtà il mondo è intrinsecamente limitato in rapporto a questa esperienza. Intrinsecamente limitato vuol dire intrinsecamente ottuso rispetto a quell’esperienza. Non è come un problema di algebra che tutti imparano a risolvere o come le tabelline che tutti possono imparare. Si attraversa la vita e a questa esperienza non si arriva, oppure vi si arriva e poi la si lascia cadere, ci si dimentica di questo. Il Maestro di Dōgen disse: “Non tornare a casa con l’idea di cambiare il mondo”, perché il mondo è fatto così. Troverai molta gente che capisce, intuisce, ma poi si distrae. Uno o due veramente andranno fino in fondo. Se poi sono cinque, sei tanto meglio, ma non pensare che saranno duecento. E questo lo sto scoprendo anch’io. Come vedete si scopre l’acqua calda.

Questo mi fa dire che ci affacciamo sulla condizione umana con tutto il nostro peso, con tutta l’ottusità, l’inerzia, la incapacità. Siamo proprio impauriti, immedesimati, attaccati. Nati da due giorni, già diciamo: io. Non si vede l’essere dell’io. Io cosa? Cosa vuol dire? Perché io? Perché non niente? Upadana: accasamento, identificazione, appropriazione, attaccamento a una condizione, ottusità. Ramana Maharshi nella sua infinita sapienza diceva a chi voleva cambiare il mondo: “Hai cambiato te stesso? Comincia riformando te stesso”. È una risposta frustrante per noi che vorremmo. Oppure, quando gli facevano notare che però Gandhi si era impegnato, rispondeva che Gandhi non pensava di essere l’artefice del suo impegno. Karma yoga, grande idea indiana: si agisce senza l’idea di essere i protagonisti. Agisci al meglio, fai le cose secondo non un’idea di meglio, ma al meglio, senza la nozione di essere l’agente di questa azione, Gandhi agisce così. Sono idee molto sconcertanti per un Occidentale, ma bisogna sempre chiedersi da dove vengano. Non sono teorie formulate, sono sempre scintille di esperienza d’essere che sfidano a vedere quel mondo altro, non solo a cambiare il mondo in un altro mondo. Per noi Occidentali è uno scandalo: siamo protesi alla giustizia universale, all’eguaglianza; non sto contestando questo fatto, non sto parlando contro. Sto semplicemente dicendo che è importante vedere da dove nasce questa spinta, qual è la sua scaturigine.

1 “Die Philosophen haben die Welt nur verschieden interpretiert, es kommt drauf an, sie zu verändern”. Undicesima delle Tesi su Feuerbach di Marx