Cambiare la scuola per cambiare la società, con l’intento di limitare la capacità critica dei cittadini e di abituarli ad un rapporto con loro stessi e col mondo il più possibile superficiale, preparando così il terreno per una dittatura silenziosa e mascherata da democrazia. Esagerazioni? Complottismo? Fantascienza? Non se a lanciare l’allarme è un premio Pulitzer statunitense, che punta il dito contro il sistema educativo del suo stesso Paese. Chris Hedges, corrispondente di guerra e giornalista del New York Times, ha recentemente pubblicato un articolo in cui presenta un quadro desolante della scuola nordamericana, esponendo gli intenti che hanno portato ad una forma di istruzione non solo qualitativamente diversa a seconda delle possibilità economiche dei suoi studenti, ma anche chiaramente fondata sulla volontà di inibire alcune preziose facoltà mentali dei ragazzi. Un’accusa grave: quella di imporre una forma di educazione atta a trasformare le teste pensanti dei giovani in nuda volontà di potere, completamente asservita ad un potere più grande e per di più convinta di essere ‘davvero istruita’.

Secondo Hedges, la scuola statunitense “celebra l’addestramento meccanico al lavoro e la singola, amorale abilità nel far soldi. […] Trasforma uno stato democratico in un sistema feudale di padroni e servi delle imprese.” Evidenti, per il giornalista, i provvedimenti attraverso i quali gli studenti sarebbero tacitamente condotti verso una sorta di ‘macello intellettuale’: primo fra tutti la tendenza a giudicarli scolasticamente attraverso quiz a scelta multipla; questo tipo di test “celebra e premia una forma peculiare di intelligenza analitica [,] apprezzata dai gestori e dalle imprese del settore finanziario.  Non vogliono dipendenti che pongano domande scomode o verifichino le strutture e gli assiomi esistenti. Vogliono che essi servano il sistema.  Questi test producono uomini e donne che sanno leggere e far di conto quanto basta per occupare posti di lavoro relativi a funzioni e servizi elementari. I test elevano quelli che hanno i mezzi finanziari per prepararsi ad essi. Premiano quelli che rispettano le regole, memorizzano le formule e mostrano deferenza all’autorità.  I ribelli, gli artisti, i pensatori indipendenti, gli eccentrici e gli iconoclasti – quelli che marciano al suono del proprio tamburo – sono eliminati.” Un altro efficace espediente volto a inibire la capacità critica degli studenti sarebbe anche la progressiva spoliazione della figura dell’insegnante dell’autorità e della credibilità di cui godeva un tempo, da un lato ponendo a capo degli istituti veri e propri dirigenti d’azienda, personaggi quasi totalmente privi di spessore culturale, e dall’altro imponendo ai docenti metodi d’insegnamento palesemente in contrasto con la loro coscienza intellettuale, uccidendo così in loro motivazione e dignità personale.

Ad un lettore italiano che si sia interessato delle trasformazioni subite dalla scuola del Belpaese negli ultimi decenni – e, in particolare, nell’arco degli ultimi dodici mesi – non può non saltare agli occhi come l’analisi di Hedges possa dirsi valida anche per quanto riguarda il nostro sistema educativo: non solo gli studenti sono sempre più spesso giudicati attraverso quiz a scelta multipla, non solo l’offerta formativa è sempre più inconsistente; non solo le scuole sono sempre più simili a piccole aziende e i dirigenti scolastici (denominazione che ha significativamente sostituito quella di ‘presidi’) sono formati di conseguenza, non solo la dignità di educatori e insegnanti è calpestata da una società che non sa più quale valore dare alla formazione dei suoi figli. Non solo. Con gli ultimi provvedimenti legislativi, gli stessi docenti sono selezionati sulla base di prove assolutamente prive di validità da un punto di vista educativo e attitudinale: chiamati a fornire risposte rapide e per nulla articolate, gli insegnanti che passano la selezione sono necessariamente i più veloci e i più adatti ad insegnare quello stesso tipo di ‘non-pensiero’ ai loro studenti, col rischio di formare intere generazioni incapaci di pensare, di approfondire, di possedere il linguaggio e la sottigliezza necessari ad osservare, comprendere realmente e quindi di criticare lo status quo sulla base di un sentire anche etico. Tutto ciò rappresenta un grave pericolo per l’interiorità di ciascuno dei futuri (o attuali) studenti, ma anche, come qualche giorno fa ha affermato anche il nostro Tullio De Mauro, per la democrazia.

Appare chiaro che ci si prepari (sta già accadendo) a inibire, nei più giovani, la capacità di porsi e porre domande, su loro stessi e sul mondo che li circonda. Senza domande non c’è formazione, non c’è critica, non c’è possibilità di crescita interiore e, quindi, di una società più rispettosa dei reali bisogni di ogni essere vivente. Le parole di Hedges riassumono con efficacia a cosa somigli, invece, un’educazione valida, e quali siano le possibilità che essa spalanca: “Il pensiero è un dialogo con il proprio io interiore. Quelli che pensano pongono domande, domande che coloro che detengono l’autorità non vogliono siano poste. Ricordano chi siamo, da dove veniamo e dove dovremmo andare. Restano eternamente scettici e diffidenti nei confronti del potere. E sanno che questa indipendenza morale è l’unica protezione dal male radicale che deriva dall’incoscienza collettiva. Questa capacità di pensare è baluardo contro ogni autorità centralizzata che cerchi di imporre un’obbedienza stupida. C’è un’enorme differenza, come comprese Socrate, tra l’insegnare alle persone cosa pensare e l’insegnar loro come pensare.”