Dal significato all’evidenza e alla verità

La sesta ricerca, intitolata Elementi di una chiarificazione fenomenologica della conoscenza, si chiede quale sia l’origine delle nostre idee di significato, rappresentazione, giudizio.

Per Husserl il significato è in relazione ad un’intuizione significante e questa si riempie [13] massimamente nell’evidenza che ha luogo nella sfera immanente della coscienza fenomenologicamente ridotta.

Bisogna però passare attraverso un chiarimento del rapporto tra evidenza e verità.

Per Husserl la verità precede l’evidenza perché

«il sentimento dell’evidenza non può avere altra condizione preliminare essenziale se non la verità del contenuto giudicativo corrispondente.» [14]

Dove non c’è alcuna verità non può esserci neppure un vedere, in altre parole, alcuna evidenza.»

Evidenza

L’evidenza messa in risalto dall’osservazione fenomenologica riguarda il manifestarsi come tale, che diventa oggetto d’indagine. E’ l’evidenza intuitiva, priva di mediazioni, grazie a cui il soggetto coglie ogni cosa. Su di essa Husserl vuole fondare la conoscenza.

Perché Husserl le riconosce una tale importanza? L’evidenza è qualcosa che ci colpisce nostro malgrado. All’evidenza non si è mai preparati. L’evidenza non aspetta il nostro assenso per imporsi, è la verità assoluta dell’evidenza della nostra stessa mente e dei suoi tentativi di pensiero, di giudizio. È pre e oltre mentale.

Ma cosa è evidente? Un oggetto, qualcosa, diremmo ad un primo sguardo. Eppure Husserl, nella sua analisi dell’esperienza, mira a mostrare qualcos’altro.

Intuizione sensibile e intuizione categoriale

Osservando l’attività cosciente Husserl afferma che percepire è intuire immediatamente qualche cosa in un modo peculiare. Davanti al nostro sguardo stanno sicuramente degli oggetti (questo foglio, queste parole, la scrivania) colti da un’intuizione sensibile. Che cosa sta a fondamento di questa? Per Husserl è l’hyle ossia ciò che produce un’affezione di tipo sensibile, cioè le datità sensibili (il blu, il nero, l’estensione spaziale, ecc.).

Husserl si chiede se a tutte le parti ed a tutte le forme del significato espresso corrispondono anche parti e forme della percezione. In tal caso tra l’intendere significante e l’intuire riempente sussisterebbe un parallelismo,

«l’espressione sarebbe un rispecchiamento in immagine della percezione, anche se prodotto in un materiale nuovo, una ex-pressione (Aus-druck) nella sostanza del significare.» [15]

La sua risposta è che il fatto che un oggetto sia un oggetto non scaturisce da un’intuizione sensibile. Quindi le espressioni contengono, in forma manifesta o celata, un’integrazione contenente l’essere.

Ad esempio dicendo «foglio bianco» intendo che «questo è un foglio e che è bianco».

È dunque impraticabile l’idea che l’espressione sia una sorta di rispecchiamento in immagine della percezione sensibile. Nel nostro dire c’è un residuo che non trova corrispondenza nel percepito.

Bisogna allora fare una distinzione tra sostanza sensibile e forma categoriale, tra intuizione sensibile e intuizione categoriale, ed è proprio questa, enucleata nella VI Ricerca, che si rivelò fondamentale ad Heidegger per la determinazione del significato molteplice dell’essente». [16]

Tradizionalmente l’oggetto veniva definito come «cosa» o «sostanza», che per Kant sono categorie dell’intelletto. Secondo questa visione l’oggetto scaturisce dal disporre in maniera determinata il molteplice dei dati materiali ad opera della conoscenza.

Ma se di un oggetto posso vedere il colore, non altrettanto vedo l’essere-colorato. Se posso avere la sensazione della levigatezza, non altrettanto quella dell’essere-levigato. Questa osservazione portò Kant ad affermare che l’essere non è un predicato reale. Fino ad un certo punto Husserl è d’accordo con lui:

«Nell’oggetto l’essere non è nulla, non è una sua parte, non è una qualità, una figura, una forma, una proprietà costitutiva e neanche qualcosa che si aggiunga dall’esterno: l’essere non è assolutamente nulla di percepibile.»   [17]

ma c’è una differenza:

«in linea generale, il riempimento intuitivo, e quindi anche immaginativo, degli atti categoriali è fondato in atti sensibili. Ma la mera sensibilità non può mai dare riempimento a intuizioni categoriali, o più precisamente a intuizioni che includono forme categoriali; il riempimento è invece sempre insito in una sensibilità a cui certi atti categoriali hanno conferito una forma. Di qui deriva la necessità imprescindibile di estendere i concetti originariamente sensibili di intuizione e percezione, un’estensione che consente di parlare di intuizione categoriale e specialmente di intuizione generale. (…) la vecchia contrapposizione gnoseologica fra sensibilità e intelletto trova tutta la sua auspicata chiarezza nella distinzione tra intuizione semplice o sensibile e intuizione fondata o categoriale.» [18]

La novità rispetto a Kant è che Husserl pensa il categoriale, in cui si esprime l’essere, come dato immediato, coglibile intuitivamente.

Eccedenza del significato sulla percezione

«Non dobbiamo far altro che chiederci veramente che cosa appartenga propriamente alla percezione e cosa al significare, e allora ci rendiamo conto necessariamente che ogni volta solo a certe parti dell’enunciato anticipatamente enunciabili nella mera forma del giudizio corrisponde qualcosa nell’intuizione, mentre nulla può in essa corrispondere alle altre parti.» [19]

Per comprendere il passaggio dall’intuizione sensibile a quella categoriale, sulla quale si fonda il processo della donazione di senso e che sarebbe la modalità di coglimento dell’essere, è centrale il concetto di «eccedenza»:

Quando dico che un foglio è bianco, nel significato resta un’eccedenza, un resto che non è assorbibile.

Per Husserl questo resto è l’«è» che esprime la copula tra soggetto e predicato. Questa forma integrativa è detta anche categoriale perché non si riempie in nessuna intuizione sensibile.

L’essere non è una parte di un oggetto, una sua qualità, ma non è neanche qualcosa che si aggiunge dall’esterno, non è né un giudizio sull’oggetto, né una sua proprietà. In questo senso «l’essere non è assolutamente nulla di percepibile» (II, 440) e tuttavia l’essere è coglibile in qualche modo.

L’essere come significato eccedente

L’essere nella funzione attributiva e predicativa non si riempie in nessuna percezione.»

Husserl definisce «percepito» qualsiasi oggetto che possiamo afferrare con qualsiasi «senso esterno» o anche «interno» grazie al quale divengono oggetti di percezione l’io e i vissuti interni. Nella sfera degli oggetti reali, ossia oggetti di una possibile percezione sensibile, qualcosa come l’essere non trova alcun correlato oggettivo.

Eccedenza del categoriale

Per Husserl l’«è» con il quale io accerto la presenza del foglio come oggetto o sostanza è eccedente tra le altre affezioni sensibili, ma è anche ad esse analogo perché non viene aggiunto ad esse, ma viene visto, e per essere visto bisogna che sia dato.

Per Husserl il categoriale è dato allo stesso modo in cui è dato il sensibile.

Fino a quel momento l’essere era vincolato al legame con il giudizio, che ne era stata l’unica determinazione fondamentale, determinazione che Heidegger considera esatta ma, nondimeno, vera.

Grazie a Husserl l’essere si mostra come un significato eccedente la percezione ma non per questo aggiunto da un’attività mentale, viene colto anch’esso come evidenza intuitiva.

Problematicità del vedere

Dove sta la scoperta decisiva di Husserl e al tempo stesso la difficoltà essenziale? La difficoltà sta nel fatto che bisogna districarsi in un vedere duplice. Antistene aveva già espresso questa difficoltà: «O Platone, vedo il cavallo, ma non la cavallinità» (ossia la sostanza). Nondimeno è la sostanzialità ciò che, nella sua inapparenza, permette a ciò che appare di apparire. P. 151

Ma in questo modo l’essere viene inteso sempre come essere – qualche cosa. E in effetti ciò che è è sempre in qualche modo, eppure possiamo distinguere il modo in cui una cosa è dal fatto che c’è.

Heidegger riconosce ad Husserl di aver permesso un accesso esperienziale alla questione dell’essere ma, allo stesso tempo, sostiene che nell’impostazione husserliana manca la domanda dell’essere.

Bisogna ricordare che Husserl elabora l’intuizione categoriale all’interno di una teoria dell’esperienza, non di una esplicita tematica ontologica.

Dopo aver ricavato l’essere come dato non continua ad interrogarsi, non si chiede «cosa significa ‘essere’?», perché per lui era del tutto ovvio che significasse essere-oggetto. Il suo intendimento non va oltre la funzione predicativa del verbo, che soddisfa appieno la sua esigenza di fondare la conoscenza oggettiva su evidenze esperienziali.

L’analisi di Heidegger

A differenza di Husserl, Heidegger non considera il momento conoscitivo, nel quale predichiamo cosa è qualcosa, un momento originario. Questa attività conoscitiva presuppone perlomeno altri due momenti o atti distinti. Il primo è un essere aperti, un andare incontro o farsi raggiungere, e un altro una non indifferenza che non permette che l’incontro scivoli via inosservato. Proprio dalla problematicità dell’incontro deriva una necessità, un bisogno che si incarna poi nell’attività identificatrice. Husserl, concependo la fenomenologia come scienza delle essenze, si occupa di quest’ultima. Heidegger si chiede invece cosa succede nei momenti precedenti ad essa.

Oltre l’essere come essere-oggetto. L’essere nella sfera dell’inapparente

«estì gar einai [essere-presente]» –  «è presente infatti l’essere-presente»

Heidegger propone la questione dell’essere riprendendo un detto di Parmenide che appare come un’autentica tautologia: «essa non nomina che lo stesso in quanto tale. Ci troviamo qui nella sfera dell’inapparente.»

La presenza stessa è presente nella svelatezza.

Intendere l’inapparente – ontologia ed etica

«Fino a che non si è inteso l’inapparente – dice il filosofo indiano Nagarjuna – si dice che non ci sia liberazione»

Inapparente ai sensi è l’essere, significato che scaturisce dal sentire significante, il sentire che ci attanaglia, che non ci lascia distogliere lo sguardo.

Nagarjuna collega all’intendimento dell’essere un esito liberante, suggerisce un ponte tra conoscenza ed etica. Ma Nagarjuna è voce di una civiltà nella quale è risaputo che la sapienza abbia un valore salvifico. Da noi non è certo così, questo legame è tutto da ristabilire, ancora prima della coimplicazione di conoscenza e liberazione, andrebbe mostrato il nodo che stringe assieme ignoranza e sofferenza.

L’essere non é una nozione in più da cogliere, è un significato alla luce del quale rivivere tutta la propria esperienza.

Che tipo di problematicità l’incontro con l’essere può risolvere? Quella nella quale problema è proprio la presenza, di se stessi e delle cose, della quale non si conosce il senso, il fine, il valore. In che modo può essere soluzione a questo? Il significato eccedente di essere è così radicale e onnipervasivo da sciogliere la contrapposizione fra problema e soluzione.

La sua azione trasformatrice è tale che potrebbe essere paragonata, usando un’immagine, al dissetarsi con la sete stessa.

Quello lungo il quale ci cimentiamo a pensare l’essere è un percorso davvero affascinante e misterioso. Inizia con la ricerca dell’invisibile, dell’inapparente, per sconfinare in un’evidenza accecante, innegabile ed inesauribile. Non si può incontrare nient’altro che essere, ovunque si posi, il pensiero trova un rilancio per tornare alla questione.

Individuare con precisione un elemento dell’esperienza non significa necessariamente coglierne la portata, la rilevanza. Questo percorso verso la zona dell’esperienza in cui si mostra «essere» deve essere considerato solo un primo passo verso un ambito che resta tutto da esplorare.

Un ambito da raggiungere e a cui dare spazio perché ne emergano tutti i significati profondi.

Poiché essere è un significato che fa tutt’uno col nostro essere-coscienti, la domanda sull’essere ci riguarda massimamente perchè è una domanda sul nostro essere coscienti. Essere coscienti significa innanzitutto notare, non essere indifferenti. A cosa?

Di cosa siamo coscienti?

Dove finisce l’analisi husserliana si aprono le domande heideggeriane, che non prescindono mai dalla tonalità emotiva che accompagna il sentire e il domandare dell’essere coscienti.

E ciò che mostra la portata di un evento va cercato proprio nel sentire che accompagna il nostro prenderne atto.

Quando ci accorgiamo di qualcosa che tonalità emotiva emerge? Possiamo accorgerci senza una risonanza nel sentire?

È qui che vanno lette le implicazioni di quell’essere che non è mai un dato neutrale da registrare.


Laura Podda, Intendere l’inapparente: il “fenomeno” dell’essere, in «A.S.I.A. Antiche e moderne vie all’Illuminazione».

[13] Ricerche logiche, pp. 300-301.
[14] Ricerche Logiche, I, 197.
[15] Ricerche Logiche, p. 432.
[16] Tempo ed essere, p. 187.
[17] Ricerche Logiche, pp. 439-440.
[18] Ricerche Logiche, p. 303.
[19] Ricerche logiche, pp. 437-438.

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