Parte 3: La coscienza e il nonsenso

3.1 Se l’esistenza precede l’essenza, siamo una passione inutile? Jean-Paul Sartre

3.2 Il darsi e il dirsi dell’esistenza

3.3 L’evoluzione è una necessità ontologica?

3.4 La nascita del sapere di esistere: Fernando Pessoa

3.5 L’Indifferenza di Monod, Montale e Heidegger

 

3.1 Se l’esistenza precede l’essenza, siamo una passione inutile? Jean-Paul SartreIndice

Perché si è evoluta la coscienza? Non potevamo restare tutti sassi? O alghe verdi-azzurre, gli antichissimi ed efficientissimi batteri che da miliardi di anni popolano i mari della terra senza evolversi e chiedere un miglioramento? Sono indispensabili per la vita di moltissime altre creature complesse, ma esse sono rimaste primitive, senza neppure sviluppare né il sesso né la morte: la “morte” di una cellula è in realtà la divisione in due cellule figlie. Perché intorno a loro la vita ha evoluto i grandi cetacei, o la coscienza umana? [1]

Contemplare la vita e la sua evoluzione ha un effetto potente ed insolito. Normalmente, per come si insegnano la scienza e la biologia, si tende a sottolineare la improbabilità statistica della vita e della immensa varietà dei viventi: si mostrano la stupenda biodiversità degli ecosistemi, la precisione dei cicli interdipendenti, gli adattamenti più ingegnosi; e si presentano queste meraviglie come frutto del caso creatore o dell’ordine, della severa bio-necessità dell’evoluzione oppure della cooperazione e della simbiosi tra i viventi, della inevitabile necessità statistica o della possibilità ontologica. E in effetti tutta questa profusione di qualità e di modi della vita è veramente straordinaria.

Più insolito ma non meno affascinante è osservare la vita – anche la nostra – come fatto che esiste senza una ragione ben precisa, senza scopo e giustificazione. Affascinante per la meraviglia che ci sia vita, ma anche inquietante: in genere, prendendo in considerazione questo, in Occidente concludiamo in modo nichilistico che non vi è valore o significato nella vita: “Che bisogno c’era della vita e della coscienza? Nessuno”.

Possiamo rispondere che non c’era alcuna necessità della vita e della coscienza, c’era solo una possibilità che si è poi verificata, ha preso forma. Ma resta un problema, che non è un gioco di parole : qualè è la “possibilità” di esistenza di questa possibilità? Cosa la rende possibile?

Questo ci pone sul bordo di un abisso radicale, simile a quello che nasce dalla domanda “perché c’è qualcosa invece che nulla?”, o in termini scientifici “cosa ha causato l’esistenza di quel microscopico seme di 10-33 cm3 che è esploso nel Big-Bang cosmico che ha generato tutta la materia e l’energia esistenti?”. Nasce non solo un gradevole effetto di meraviglia, ma anche uno sgomento, perché il mondo si profila vuoto di direzione e di significati. Siamo vivi accidentalmente, non c’è nessun grande progetto, nessuno scopo ultimo… A volte realizzare questo è il “male dell’anima” di cui parla Jacques Monod, a volte è di una inquietudine bruciante. Tutto si muove, pulsa, evolve… ma senza senso. Come ha scritto il fisico delle particelle e premio Nobel Steven Weinberg:

Tanto più l’universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo [2].

Il problema è solo di fermarsi a questa conclusione, ripetendo il mantra che ha reso famoso il filosofo francese Jean-Paul Sartre: “l’esistenza precede l’essenza“. Se questo è vero, l’essenza (parola che indica le qualità ultime e più essenziali, in questo caso la vita e la coscienza) non ha alcun senso, ovvero non può giustificare le meravigliose o tragiche qualità del mondo – ogni qualità essendo prima di tutto una qualità “esistente”, e non essendovi nulla a giustificare l’esistenza. E di conseguenza come potrebbero le sue qualità – esistenti – avere senso? Sartre conclude che “l’uomo è una passione inutile“.

L’alternativa a questa conclusione desolante, che come abbiamo visto ha toccato sia Camus che Monod, è distogliere lo sguardo, occuparsi della praticità della vita, nella quale ci sembra di poter costruire un senso. Ma è un senso necessariamente inventato, e destinato a finire.

Ogni esistente è privo di un “buon motivo” per esserci… e se un “buon motivo” fosse trovato, questo ricadrebbe nel problema: perché esiste una ragione, una giustificazione, invece che nulla?

È qui che il darwinismo esistenziale giunge alle sue estreme conseguenze. Ed è da qui che riparte verso una possibile soluzione. Non una risposta – se ci fosse, ricadrebbe nel problema – ma un cambio di rapporto con il problema che è un’esperienza diretta.

Se si resta dritti e si continua a guardare – e proprio in questo la meditazione insegnata da Franco Bertossa è motore e strumento di scoperte toccanti – se si riesce a contemplare il non senso del fatto che qualsiasi cosa esista, questo bruciare dell’animo viene superato da un’altra inspiegabile presenza: ciò che è, è vita che sa di sentire, e sa che sente di esistere.

 

3.2 Il darsi e il dirsi dell’esistenza Indice

Possiamo percepire il nonsense dell’esistenza di ogni cosa, soprattutto in corrispondenza di eventi esistenziali gravi in cui il mondo si scolora e rivela la sua natura dolorosa, accidentale e ingiustificata. In noi questo convive con un’altro fatto innegabile: a vita sa di sentire, e sa che sente di esistere.

Ciò che fa la differenza è questo “sapere”. È un modo di manifestarsi dell’essere funzionale a dirsi di sé, al dirsi – non necessariamente con parole ma anche movimenti, arte, riti – di essere senza una giustificazione. L’esistenza della vita e della coscienza non è così per caso, ma è funzionale. Non alla sopravvivenza ma al sapere. Sapere cosa? Di esistere, e che esistere è per caso, gratuito e ingiustificato. “Esistenza” deriva dal latino ex-istentia, “ciò che sta fuori da”. Da ogni origine, da ogni fine, da ogni compiutezza.

Si presenta una circolarità demolitrice e donatrice di senso, in cui da un lato sta la verità della gratuità totale dell’essere che non è qualcosa (l’essere non è un ente, ma il fatto d’essere di ogni ente, come insegna la “differenza ontologica” enunciata da Heidegger); non essendo qualcosa non possiamo dire che “produce” il sapere, ma di fatto accade che ciò che è sia “sapere di esserci”; accade che si sta dicendo questa verità attraverso le sue modalità vive, capaci di sentire, di domandarsi, di capire i più profondi significati, e che sono perfettamente funzionali a questo.

La gratuità è intrecciata con l’autoreferenzialità: il darsi dell’essere gratuito è in un modo specifico, e quel modo è il sapere e il dirsi che è gratuito. Non c’è un darsi e poi successivamente un dirsi, ma nell’esperienza tutto si presenta insieme.

È una coincidenza totale, non un processo lineare – non si tratta di una causalità finalistica del tipo “l’essere è spinto a dirsi di sé” – perché l’essere… non è qualcosa. Differisce sempre da ogni determinazione, da ogni processo di produzione. Semplicemente il fatto che qualcosa esiste è senza causa, senza determinazione, senza effetto.

Quello che vediamo è che necessariamente quel “qualcosa” è sempre vita, sapere, sentire – se così non fosse potremmo certificarlo solo essendo vivi, sentendo, sapendo. Questo primo passo è inevitabile, non casuale. Ma è causato? Di fatto, il nesso che collega questi fatti con il fatto che esistono non si trova.

E neppure si può parlare di “esistenza” come effetto di qualcosa – ad esempio un concetto prodotto della nostra particolare cultura o filosofia – perché se ci fosse una causa, un inizio, sarebbe solo un’altra esistenza che si dà senza giustificazione. Possiamo dire con Pessoa:

Il mistero più grande dell’universo: 
che ci sia un mistero dell’universo [3]

Se proprio vogliamo vederla nelle dimensioni del tempo, dello spazio e della causalità – le dimensioni di cui abbiamo bisogno per creare una storia coerente che dia ragione del concatenarsi dei fenomeni naturali – neppure l’universo produce evolutivamente la consapevolezza del suo mistero: universo (darsi dell’essere) e mistero (dirsi della sua inspiegabile presenza attraverso una coscienza) sono intrecciati e si rincorrono circolarmente, senza una origine.

Appare allora un ordinatore, ma non è un ordinatore intrinseco alla materia come quello proposto da Stuart Kauffman, né un ordinatore fuori dalla materia, simil-divino, come propone Remy Chauvin [4]. L’ordine è inscritto nella nostra condizione esistenziale di esserci – la parola con cui Heidegger indica l’uomo e il suo aprirsi cosciente sul mondo. È questo “sapere di esistere” capace di dirsi così precisamente di sé, che ha guidato il percorso della nostra comprensione fino a questo punto. Non casuale. Non causato.

Senza introdurre alcun finalismo, possiamo cogliere che la nostra resistenza alla visione della vita e della coscienza come frutto del caso non è motivata solo dal desiderio di sfuggire alla nostra triste condizione immaginando dei e paradisi. Molto prima di sapercelo dire, sentiamo che il sapere che tutto è un caso… non è un caso [5].

 

3.3 L’evoluzione è una necessità ontologica? Indice

Attraverso il sentire ed il sapere proprio della coscienza, la vita spinge fino a dirsi di sé. Grazie alla emersione del “sapere di me” non siamo rimasti immersi nella nostra tristezza o inquietudine, ma pur continuando a viverle abbiamo la possibilità di porci fuori di essi. Il genere zoologico Homo (e forse altri generi) è diventato sapiens, e poi, dicendosi di sé, è diventato Homo sapiens sapiens.

“Sentire l’esistenza” è un altro modo di dire “coscienza”. Di fatto nel Buddismo si chiamano tutti i viventi “esseri senzienti”, esseri capaci di sentire. È un dato comune a tutto ciò che è vivo, che possiamo riscontrare anche nel comportamento degli animali: stato permanente di vigilanza, ricerca di sicurezza, spinta al sollievo da fame e sesso. È uno stato in cui sono spaventati, sempre all’erta. “Subiscono” un’esistenza che è terrificante.

L’uomo, sente forse in modo ancora più intenso l’esistenza come un fragile costrutto sempre a rischio di crollo, ma in più ne è consapevole in modo particolare. Forse anche altre specie lo sono. Il “sapere dell’esistenza” non rende insensibili al terrore, ma sicuramente offre una possibilità in più di non esserne completamente prigionieri.

Ha senso pensare all’evoluzione come una necessità ontologica, un dirsi necessario della propria condizione?

Potremmo dire: “anche tutto questo saper di sé – la coscienza – è solo una inutile presenza, è del tutto casuale; i sassi erano comunque più semplici”.

Ma non dovrebbe sfuggirci che – nell’esperienza diretta – lo stiamo dicendo grazie al saper di sé.

Non possiamo prescindere dalla coscienza, anche per negarla.

Allora forse la spinta evolutiva che ha portato dalla materia alla vita e dalla vita alla coscienza non deriva dalla materia né da un ordine intrinseco alla complessità, e neppure da un bisogno della coscienza individuale dell’uomo. Forse la spinta darwiniana nasca dalla necessità ontologica – intrinseca a ciò che esiste – a saper di sé e dirsi “esisto” in modo sempre più adeguato e consapevole? In infinite possibili modalità?

L’evoluzione sarebbe allora un motore necessario – non casuale ma neppure causato perché la causa non c’è – per sapere che l’esistenza è senza origine, senza inizio. Ché, se un inizio ci fosse, esistendo ricadrebbe nel problema.

Il “per sapere” non è un fine, è semplicemente ciò che accade. L’esistenza e il sapere dell’esistenza si presentano intrecciati, indissolubili. Se ci chiediamo cosa ne era di questo sapere 4 miliardi di anni fa, quando la vita non era ancora comparsa sulla terra, non dovremmo dimenticarci che ce lo stiamo chiedendo da questo ineliminabile star-sapendo dell’esistenza. Non se lo sta chiedendo in teoria o sullo schermo di un computer, ma nella nostra esperienza di ora, in atto.

Ora, le cose potrebbero andare in ogni istante (non è da vedere come una successione temporale) così: l’esistenza è da sempre, ed è senza causa. Ma ciò che esiste non resta quieto e immobile, è energia altamente instabile e in perpetuo movimento. Non se lo può dire ma si agita perché non si ritrova, non si giustifica il suo essere già lì, la sua assenza era una alternativa molto più ovvia e semplice. Questa inesauribile energia della sua presenza ingiustificata esplode continuamente, e compaiono – attraverso i big-bang evolutivi – nuove e speciali modalità dell’essere: compare la coscienza e l’energia-materia, che si riflettono nell’intreccio di sapere e di sentire; insieme si densifica “io”, non come carattere di psiche ma come il senso di partecipazione all’evento, che riguarda un nucleo d’esperienza, un “qui”. Il sentire si organizza in una forma vitale, in un sapere di sé (autocoscienza) e in una identità (“io sono io”) e spinge per incarnare l’energia instabile in azioni e forme più ordinate e capaci di contenere l’enorme impossibile evento che accade: io sono, invece che nulla.

L’essere-sentire-vita-azione pulsa al ritmo di una domanda – che in forma molto evoluta prende parole quali “perché ci sono?”. La domanda cerca strade per esprimersi. Ora, qui, nell’atto di sapere di esistere, trova nella mente cosciente dell’uomo quella possibilità di ordine e di consapevolezza.

Anche se la consapevolezza non ci sembra un valore, anche se spesso desideriamo essere un gatto o un’ameba per non renderci conto della prigione di noia, insensatezza, dolore in cui siamo capitati, di fatto lo diciamo da una consapevolezza. Anche se non vogliamo sapere, restando lucidi non si prescinde dal fatto che del “non-voglio-sapere”… ne sappiamo.

 

3.4 La nascita del sapere di esistere: Fernando Pessoa Indice

Il passaggio dall’esistenza al sapere della esistenza – che di fatto è la nostra coscienza – è un passaggio evolutivo in termini darwinisti, ma prima di tutto è un passaggio nell’esperienza dell’uomo. In realtà non è un passaggio, ma una co-presenza tra esistenza e saperne. Si presentano sempre necessariamente insieme, nella nostra esperienza, il darsi dell’essere, gratuito e spesso dato per scontato, e il dirsi di questa gratuità. Non si tratta di un dirsi di tipo informativo: tutti sanno di sé, e tutti possono ammettere che non sanno perché ci sono. Ma a volte capita, improvvisamente, di realizzarlo. Nel Buddhismo questa realizzazione è riconosciuta e spesso è il frutto di una dura pratica di meditazione: nella tradizione Zen viene chiamato satori, grande comprensione.

In Occidente è un’esperienza che si dà in modo selvaggio, e spesso sono gli artisti che ce lo testimoniano nelle loro opere. Un grande poeta del ‘900, Fernando Pessoa, ha dato una toccante descrizione di questo istante:

Non sapere di sé vuol dire vivere. Sapere poco di sé vuol dire pensare. Saper di sé, all’improvviso, come in questo momento lustrale, vuol dire avere subitamente nozione della monade intima, della parola magica dell’anima.
Ma una luce improvvisa brucia tutto, consuma tutto. Ci lascia nudi persino di noi stessi.
È stato solo un attimo, e mi sono visto. Poi non so più dire ciò che sono stato [1].

Nel saper di sé Pessoa ritrova sia la sensazione di bruciare per il darsi ingiustificato della nostra presenza, sia la necessità ontologica – in atto nel “momento lustrale” – di sapere del suo esserci misterioso. Il che non vuol dire spiegarla, ed infatti egli conclude con un “non so più dire”. Ma lo dice, sa che non sa!

L’esistenza è per caso, ingiustificata, ma la coscienza è funzionale a ordinare, penetrare e cercare la giusta relazione con il fatto dell’esistenza. La coscienza è il necessario e perfetto abitante di un imperfetto mondo senza fondamento.

Quando cade nel tempo, la coscienza cerca di dare spiegazione di sé coerentemente con i fatti della natura, e la trova giustamente nella evoluzione darwiniana. Ma la visione darwiniana rilancia il problema, perché ha anche un risvolto esistenziale che Jacques Monod lo ha descritto come un “male dell’anima”: cosa ci faccio qui? Perché sono stato gettato in questa storia, ai margini dell’universo, tra l’indifferenza del cosmo?

Questo porta a diversi esiti. Molti scienziati con strategie diverse cercano di giustificare razionalmente la presenza dell’uomo nell’universo.

Oppure qualcuno si ribella. Ci è capitato, da ragazzini di voler urlare ai genitori: “Perché mi avete fatto nascere, chi ve l’ha chiesto? Forse io ho dato un senso alla vostra vita, ma chi lo darà alla mia?”. Un altro esito può essere una conclusione nichilista, come quello di chi si abbatte e afferma “nulla ha valore, perché vivere? è tutto inutile, pesante, nauseante…”.

Talvolta queste conclusioni si riaprono, spesso in conseguenza di gravi eventi – una perdita, una trasformazione – e nascono di nuovo domande semplici e dirette “cosa sta succedendo? Perché?”. Solo un lucido, intenso sconcerto.

 

3.5 L’Indifferenza di Monod, Montale e Heidegger Indice

Il secolo del ‘900, che ha assistito alla caduta delle ideologie e delle credenze religiose, si è ritrovato con un gigantesco vuoto di significati ultimi per il vivere – il problema – e lo ha espresso magistralmente nella sua scienza e nella sua arte.

Jacques Monod come scienziato ha scritto che da un punto di vista evolutivo e darwiniano “l’uomo ora sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’universo, da cui è emerso per caso” [6].

Eugenio Montale parla di indifferenza come di una esperienza interiore:

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’accartocciarsi della foglia riarsa,
era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
Che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato [7].

Nella prima parte il poeta dà spazio a tonalità emotive profonde: il mal di vivere, la stretta alla gola ed al petto, il cuore secco e ammaccato, il nonsense dolente della morte. E’ la stessa tonalità di angoscia che descrive Jacques Monod:

L’uomo deve infine destarsi dal suo sogno millenario per scoprire la sua completa solitudine, la sua assoluta stranezza. Ora egli sa che, come uno zingaro, si trova accampato ai margini dell’universo in cui deve vivere. Universo sordo alla sua musica, indifferente alle sue speranze, alle sue sofferenze, ai suoi crimini [8].

Ma nella seconda parte Montale fa uno straordinario salto in uscita, usando lo stesso termine di Monod – indifferenza – ma con la I maiuscola. Ci parla della soluzione, la divina Indifferenza, l’unico “bene” che ha incontrato: l’esperienza di vedere il mondo non-differenziato e tutto quanto sconosciuto, immobile, estraneo. L’istante in cui si fa esperienza del mondo così come è, muto ed inspiegabile, sciolto da tutti i nessi causali e logici che ce lo rendono normale e scontato.

L’Indifferenza di Montale non è freddo distacco ma è il disvelarsi in alcuni momenti specialissimi – la statua, la nuvola, il falco – del prodigio dell’esistenza. Il prodigioso può mostrarsi in un silenzioso estraniamento, ed essere “l’unico bene”, l’Indifferenza. “Divina” non perché proviene dagli dèi olimpici ma perché affascinante, potente.

Sorge allora irresistibile la domanda: perché l’esistenza è un tale incantato, assorto, luminoso prodigio?

La stessa indifferenza, Martin Heidegger la nominò in termini filosofici come ciò che accade nell’esperienza della angst, della angoscia in cui

… tutte le cose e noi stessi affondiamo in una sorta di indifferenza. Questo tuttavia non nel senso che le cose si dileguino, ma nel senso che proprio nel loro allontanarsi le cose si rivolgono a noi. Questo allontanarsi dell’ente nella sua totalità, che ci accerchia nell’angoscia, ci angustia. Non rimane nessun sostegno. Nel dileguarsi dell’ente rimane soltanto e incombe su di noi, questo “nessuno”. L’angoscia rivela il niente.

Il niente non è il male, né il terribile. Piuttosto anche per Heidegger è un “bene” specialissimo capace di superare tutte le opinioni e le ideologie. Una ricchezza che indicherà in tutte le sue opere come elemento essenziale:

Si tratta di accogliere e di esprimere con la massima serietà la situazione attuale del mondo, al di là di tutti i meri settarismi, le mode e gli indirizzi scolastici, così da ridestare finalmente l’esperienza decisiva di quanto abissalmente si celi la ricchezza dell’essere nel nulla essenziale [9].

Il “nulla essenziale” è l’esperienza del contatto estetico riportataci da Montale con immagini: il “nulla” che si rivela nella angoscia è l’indifferenza in cui tutte le cose – e noi stessi – perdono i loro connotati e ci vengono incontro. Le impattiamo come dati, così-come-sono. Senza relazioni, isolati e sospesi senza un sostegno. Senza uno sfondo. Anche di questa lettura delle pagine di Heidegger sono interamente debitore al Maestro Franco Bertossa, che la ha sviluppata in seminari e conferenze, per oltre 30 anni.

È la via diametralmente opposta alla ricerca di spiegazioni degli scienziati che abbiamo esaminato.

Cosa ha visto Montale in quella statua nel silenzio del meriggio? Forse ha colto solo il suo star lì, un nudo fatto senza significato che permane, resta, resta… un incanto non trasformabile in spiegazione. Si può ancora cercare di chiamarla “statua”, ma è sconosciuta come un abisso. L’angoscia, il nulla essenziale sono proto-emozioni ricchissime, da essa si generano tutte le altre, dal senso di miracolo alla ribellione, dalla ricerca scientifica alla new age. Ma prima è solo un istante di divina Indifferenza – l’esperienza che apre alla differenza tra qualsiasi cosa e niente.

Nel Buddhismo si descrive la stessa esperienza intuitiva parlando della visione del vuoto. Vuoto di significato, di spiegazione, di fondamento. Per il Buddhismo è questa la soluzione che si trova nel fondo del problema, ma a differenza di Montale non la propone come attimo artistico-espressivo, ma come Via di trasformazione. Via cui si accede solo tramite l’esperienza del “nulla essenziale” – e non attraverso studio e logica – e in cui è fondamentale l’approfondimento. È una via radicale che può essere compresa solo all’interno di una lunga pratica, da coltivare con la massima cura, ed estremamente rischiosa: Nagarjuna la paragona al maneggiare un serpente velenoso a mani nude, e scoraggia ogni illusione di comprensione intellettuale:

La vacuità – hanno detto i Buddha – è eliminazione di tutte le opinioni. Coloro per cui anche la vacuità è un’opinione, questi li han detti inguaribili [10].

Gli intellettuali, orientali e occidentali, non si separano dalla mente, vogliono risolvere la questione ed eliminare le opinioni attraverso un’altra opinione di cui restano prigionieri, perché anche “non bisogna giudicare”… è un giudizio. Allo stesso modo, affermare “tutto è infondato” è un atto da esplorare a fondo … è fondato?

La via radicale della consapevolezza buddhista del vuoto, di essere qui senza giustificazioni e origine è una esperienza complementare alla descrizione scientifica della casualità o accidentalità della nostra esistenza. Semplicemente la consapevolezza – starlo sapendo ora – ha la possibilità di far ricadere anche se stessa nel problema, fino al suo completo dissolvimento.

In questo tipo di percorso l’evoluzione è attiva, ma non nel tempo storico bensì nel momento presente: adesso. Se pensiamo ad epoche preistoriche in cui non c’erano né poeti né filosofi ma solo dinosauri e libellule, non scordiamoci che lo stiamo pensando noi, qui ed ora. Generiamo la storia del mondo tanto quanto essa ci genera.

Si può dire che la consapevolezza non è usabile ed affidabile come la scienza, ed è così: in effetti se un neurochirurgo fosse un grande saggio o poeta ma avesse una elevata percentuale di insuccessi – o decessi – non ci faremmo senz’altro operare da lui. Ma la consapevolezza e la poesia non sono un sogno o un’illusione: nascono dalla fame inestinguibile del “di più” che oscuramente tutti percepiamo. Aspirano al vero.

a cura di Roberto Ferrari
Centro Studi Asia

 

Indice delle uscite

Parte 1: Ritrovarsi evoluti
Parte 2: Teorie scientifiche sul senso della vita
Parte 4: Riassunto e meditazione


Sullo stesso argomento

Biologia e Metabiologia. Io sono il mio cervello?
Evoluzione per niente?
Coscienza umana: una macchina semantica?
Wittgenstein e il buddhismo. Appunti sulla domanda di senso.

Note – cliccando sul numero si ritorna sul testo annotato.

[1] Bertossa F., Ferrari R., Lo sguardo senza occhio, ed. Alboversorio, 2005, pp. 102-103.
[2] Steven Weinberg, I primi tre minuti, ed. Mondadori, 1977, p.170.
[3] Pessoa, Faust.
[4] Remy Chauvin, Dio delle stelle, Dio delle formiche, ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1991.
[5] Per risalire alla fonte dei temi qui introdotti, rimando all’insegnamento del Maestro Franco Bertossa, cui attingono queste riflessioni. Tra i suoi scritti più recenti e penetranti, Alle origini del domandare, Buddha e Heidegger.
[6] Jacques Monod, Il caso e la necessità, ed. Mondadori 1970.
[7] Eugenio Montale, Ossi di seppia, ed. Mondadori 1948.
[8] Jacques Monod, Il caso e la necessità, ed. Mondadori 1970, p.157.
[9] M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, ed. Adelphi, (trad. it. F. Volpi) , 1995.
[10] Nagarjuna, Madhyamaka karika, XIII, trad. it. R. Gnoli, Boringhieri, 1979, p.82.