Perché l’evoluzione ha portato alla percezione del nonsense dell’esistenza e al “mal dell’anima”.
Forse era meglio restare amebe?

 

Parte 1: Ritrovarsi evoluti

1.1 La morte presso gli scimpanzè: studi di tanatologia animale

1.2 Il dolore insensato: Charles Darwin

1.3 Cosa si prova ad essere una biomacchina frutto del caso?

1.4 Zingari accampati ai margini dell’universo: solitudine e stranezza in Jacques Monod

1.5 Neo-darwinisti e post-darwinisti: Richard Dawkins e Stephen Jay Gould

 

1.1 La morte presso gli scimpanzè: studi di tanatologia animaleIndice

 

Quando si contempla la vita, spesso emergono sentimenti di meraviglia per la sua perfezione e la fiducia nel fatto di poterne svelare i segreti. La meraviglia è giustificata: non è possibile restare indifferenti di fronte alla perfetta danza di qualche miliardo di atomi nel nostro corpo e dentro la scatola ossea del nostro cranio. Ma ci sono altri sentimenti – sgomento, stupore, inquietudine – che nascono quando si realizza che parlando di coscienza si parla proprio della nostra vita, e soprattutto della nostra morte in prima persona.

Abbiamo sviluppato – da quando la religione ci dà meno conforto – alcune strategie per placare questo sentire. E’ ormai divulgato che la morte sia un “fatto naturale”, dovuta al fatto che l’evoluzione ha prodotto il sesso e quindi maggiore variabilità genetica, ma nel contempo ha dovuto provvedere a un “meccanismo” per eliminare gli inadatti per fare spazio a nuovi individui.

In realtà il problema non è la morte in sé ma la coscienza della morte, il senso del tragico che ci stringe la gola. Ma anche questo può essere solo un fatto naturale: i primi riti di sepoltura e il culto dei morti sono utili alla sopravvivenza – ad esempio servirebbero a creare legami sociali più forti e dare un vantaggio al gruppo.

Negli scimpanzé la consapevolezza della morte è molto più sviluppata di quanto si pensi solitamente, e può essere in rapporto con il loro senso di autocoscienza, e con fenomeni come l’auto-riconoscimento e l’empatia verso gli altri. Alcuni lavori di tanatologia comparata (la scienza che studia il rapporto degli animali con la morte) sono stati di recente pubblicati.

Nel primo studio i ricercatori [1] riportano il resoconto delle ultime ore e del momento della morte di una anziana femmina che faceva parte di un piccolo gruppo di scimpanzé che vive in un parco-safari in Gran Bretagna. L’articolo afferma che “… in contrasto con la reazione furiosa e o rumorosa alla morte violenta di un adulto, in questo caso gli scimpanzé testimoni della morte della femmina erano per lo più calmi. Nei giorni che hanno preceduto il decesso, il gruppo era molto tranquillo e poneva molta attenzione alla anziana femmina, che poco prima di morire ha ricevuto molto grooming e molte carezze dagli altri, che quando è morta sembravano controllare se avesse segni vitali. Subito dopo la morte se ne sono andati, a parte la figlia che è rimasta a vegliarla tutta la notte. Quando il giorno seguente i guardacaccia hanno portato via il corpo, gli scimpanzé sono rimasti calmi, ma hanno evitato per parecchi giorni di dormire sulla piattaforma dove era morta la femmina, che normalmente era uno dei posti preferiti”.

Dora Biro dell’Università di Oxford e colleghi hanno effettuato altre osservazioni sugli scimpanzè, documentando la morte di cinque membri di una comunità nella riserva di Bossou, in Guinea, che hanno studiato per trent’anni [2].

“Abbiamo osservato la morte di due piccoli per un’infezione respiratoria: in entrambi i casi le osservazioni testimoniano una reazione significativa delle madri alla morte del loro piccolo: hanno continuato a curare i corpi per settimane, e anche mesi”, ha detto la Biro. In quel lasso di tempo i corpi si sono completamente mummificati e le madri mostravano attenzioni che richiamavano le cure prestate ai piccoli vivi. Piano piano hanno iniziato a “lasciar andare” i piccoli, consentendo sempre più spesso ad altri membri del gruppo di avvicinarsi o toccarli, e passando via via più tempo lontano dal corpo. “Gli scimpanzé sono i più stretti parenti evolutivi dell’uomo e hanno già dimostrato di somigliarci in molte funzioni cognitive. Il modo in cui percepiscono la morte è una questione affascinante, ed esistono ben pochi dati in merito alla loro risposta di fronte al trapasso di familiari. Le nostre osservazioni confermano l’esistenza di un legame estremamente profondo che può resistere anche dopo la morte”.

La ricercatrice conclude: “Occorrono ulteriori sforzi per chiarire quanto gli scimpanzé capiscano e siano colpiti dalla morte di un parente stretto. Ciò potrebbe avere implicazioni per la nostra comprensione delle origini evolutive della percezione umana della morte”. Qui occorre aprire un breve inciso: ricercare queste origini sembra ancora una volta un tentativo di raffreddare il senso del tragico, per riportare la morte e il “male” nell’ambito dei fatti naturali.

Anche altri Mammiferi sembrano avere un rapporto di consapevolezza con la morte: i delfini e le orche sono stati osservati trasportare a lungo neonati, quando questi fossero morti all’improvviso o in modo cruento. Juan Gonzalo dell’istituto di ricerca Thetys ha osservato una madre di delfino dal naso a bottiglia che per due giorni ha portato a galla il corpo del suo piccolo morto, nel tentativo di farlo respirare, toccandolo con le pinne pettorali e chiamandolo. “Sembrava incapace di accettare la situazione” afferma Gonzalo [3].

Karen McComb studia da anni il comportamento che gli elefanti mostrano quando incontrano teschi e zanne dei loro conspecifici anche morti da lungo tempo. Li toccano e li investigano con grande cura e si ipotizza che vadano intenzionalmente in cerca delle ossa di individui del loro branco o parenti, di cui potrebbero riconoscere le zanne grazie a segnali tattili o olfattivi. Esperimenti sofisticati hanno dimostrato che non sono minimamente interessati a ossa di altri animali, anche se di dimensioni simili come quelle dei rinoceronti o ippopotami [4].

Grazie a un percorso di ascolto interiore appare chiaro che anche e soprattutto noi umani siamo in fondo sgomenti per questo ritrovarci evoluti al punto da sentire in ogni istante il nostro destino di morte. Abbiamo sviluppato la capacità di specchiarci gli uni negli altri e di sapere che la perdita, il lutto, la finitezza sono eventi inevitabili. Terribili e inspiegabili.

Le note che seguono vogliono proporre una riflessione articolata sul rapporto tra natura e esistenza, tra la percezione del tragico nel mondo biologico e lo schiudersi della consapevolezza di esistere. Il percorso proposto nasce interamente grazie all’insegnamento della scuola filosofica di Asia del Maestro Franco Bertossa, così come mi è stato possibile verificarla come allievo. Non solo con la critica e la discussione, ma soprattutto con la diretta esperienza nella meditazione.

Quando ci ritroviamo ad essere consapevoli della morte sorge un sentire sgomento e una domanda spontanea: la natura è così fredda e indifferente o manifesta un imperscrutabile ordine, magari divino? Se lo chiese anche Charles Darwin.

 

1.2 Il dolore insensato: Charles DarwinIndice

Come spiegare l’agonia lenta e sofferente di una bambina dolce e affettuosa di soli 10 anni? Come spiegarla a suo padre, che la assiste notte e giorno? Il nome della bambina è Annie Darwin e il suo addolorato padre, Charles, appena quarantenne, era in quel momento una delle più fervide menti scientifiche d’Inghilterra.  Vede spegnersi lentamente la bambina, e intanto si pone domande sulla natura del Male: come Dio può rendere possibile un dolore così grande, come può punire una bambina di 10 anni, incapace di aver commesso ancora peccati? Alla fine Annie muore e Charles Darwin perde per sempre la fede [5]. Per tutta la vita conserverà in sé una potente percezione del dolore nell’esistenza di uomini e animali. Ormai anziano scrive nella sua autobiografia:

Nessuno può negare che nel mondo vi sia molta sofferenza. Molti hanno voluto spiegarla per l’uomo, considerandola necessaria al suo perfezionamento morale. Ma il numero degli uomini è niente al confronto con tutti gli altri esseri dotati di sensibilità, i quali spesso soffrono molto, senza alcun perfezionamento morale. Per la nostra mente limitata un essere potente e sapiente come un Dio capace di creare l’universo, deve essere onnipotente e onnisciente; e sarebbe addirittura rivoltante per noi supporre che la sua benevolenza non sia anch’essa infinita; infatti quale potrebbe essere il vantaggio di far soffrire milioni di animali inferiori per un tempo praticamente illimitato? Questo antichissimo argomento che si vale del dolore per negare l’esistenza di una causa prima dotata d’intelletto, mi sembra molto valido; mentre, com’è stato giustamente notato, la presenza di tanto dolore concorda bene con l’opinione che tutti gli esseri viventi si siano sviluppati attraverso la variazione e la selezione naturale [6].

Dio non è più necessario per spiegare la creazione e la varietà degli animali – l’evoluzione naturale ha fornito a Darwin la chiave per comprendere come l’immensa varietà dei viventi si è formata – ma neppure per spiegare il dolore, che è piuttosto il segno di un mondo spietato dove la selezione del più forte condanna a morte il più debole. Non c’è nulla come una “causa prima” del dolore del mondo. Ma Darwin fatica ancora a concepire che l’universo e la vita si siano originate per puro caso:

Un altro argomento a favore dell’esistenza di Dio, connesso con la ragione più che col sentimento, e a mio avviso molto importante, è l’estrema difficoltà, l’impossibilità quasi, di concepire l’universo, immenso e meraviglioso, e l’uomo, con la sua capacità di guardare verso il passato e verso il futuro, come il risultato di un mero caso o di una cieca necessità. Questo pensiero mi costringe a ricorrere a una Causa Prima dotata di un’intelligenza in certo modo analoga a quella dell’uomo; e mi merito così l’appellativo di teista [7].

Ma neppure tale conclusione “teista” lo convince: anche Dio potrebbe essere il prodotto di una mente frutto del caso e della selezione naturale:

Ma allora nasce il dubbio: quale fiducia si può avere in queste alte concezioni che sono formulate dalla mente umana, la quale, secondo il mio fermo convincimento, si è sviluppata da una mente semplice, uguale a quella degli animali inferiori? Non può darsi che esse siano il risultato di un rapporto fra causa ed effetto, che ci appare indiscutibile, ma che forse è soltanto frutto di una scienza ereditata? [8]

A questo punto dobbiamo chiederci: allora anche lo stesso dolore di Darwin, la perdita di senso totale che prende quando muore una figlia piccola, sono solo comportamenti “ereditati” da animali inferiori e quindi privi di valore e significato? Darwin ha tirato una conclusione pesante che può forse dare qualche sollievo, ma a caro prezzo: come possiamo dare un valore a ciò che viviamo, se la morte e il senso della finitezza sono solo eredità evolutive?

Inciso per chi si occupa di auto-referenza estrema: anche la stessa teoria evolutiva sarebbe allora solo un frutto dell’evoluzione, funzionale ma non vera?

“Quel che si prova a percepire la morte”, è di certo sorto attraverso l’evoluzione ma ha un significato – anche se non necessariamente trascendente o divino. Se per la delusione vissuta vi rinunciamo troppo rapidamente, sarà smarrimento che si andrà a sommare al dolore per la perdita. Lo smarrimento di una biomacchina frutto del caso?

 

1.3 Cosa si prova ad essere una biomacchina frutto del caso?Indice

Certamente di fronte alla vita nasce un senso di meraviglia. Ma nel sapore di mancanza che sempre la accompagna compare anche una tonalità emotiva di sgomento, un sentirci estranei a noi stessi e ritrovarci in una patria che non ci siamo scelti. Questo corrosivo senso di spaesamento colpisce duro, anche se è vero che “la vita è meravigliosa”: ma siamo anche un pacchetto di neuroni espulso dal caso e destinato a dissolversi. Siamo gettati dalla materia nella vita, e dalla vita in questo cervello. Siamo rinchiusi nelle sue connessioni, determinati dai geni e dalle esperienze.

Nella mia storia personale ho reagito a questo senso di sgomento con una adesione convinta – erano i primi anni di università – alle spiegazioni riduzioniste della scienza che demolivano vecchi idoli metafisici come Dio, anima, morale, ragioni e ideologie. Era una specie di affermazione di me stesso attraverso quel che sentivo come il massimo della crudezza della visione dell’esistenza. C’era anche il compiacimento per avere la forza di accettare una visione così terrificante del mondo e dell’uomo. Ogni volta che mi trovavo a sostenerla, era un brivido. Era quasi esaltante, mi inebriava fare piazza pulita delle credenze, delle consolazioni, dei miti. Mi dava una scossa al cuore, mi faceva sentire assurdamente esistente, e parlava di me in modo potentissimo. In
quella fase ogni cedimento nella direzione dello “spirito” mi sembrava la patetica e pietosa auto-consolazione di chi non riusciva a sopportare la dura realtà del determinismo materialistico. Confondevo questo senso di spietatezza con la verità.

Fino a che anche la mia posizione mi è sembrata inutile e patetica, assurda come tutto il resto. Lo stesso senso di stranezza che l’aveva suscitata, l’ha spazzata via già al terzo anno. Lasciando lo sgomento iniziale.

Ma anche lo sgomento può essere un gusto interessante: quando pensiamo di essere una bio-macchina, una reazione condizionata, un oggetto che fa operazioni molecolari di conoscenza… e che deve morire, cosa proviamo? Certamente non ci sentiamo scontati. Piuttosto gettati, catapultati nell’esistenza come in un matrimonio combinato ed obbligatorio, senza essere stati interpellati e senza nessun corredo di “senso della vita” preparato da un amorevole genitore cosmico. Vivi, esistenti. Spaesati come zingari.

 

1.4 Zingari accampati ai margini dell’universo: solitudine e stranezza in Jacques MonodIndice

L’opera del premio Nobel per la Medicina Jacques Monod resta esemplare, non solo per la lucidità intellettuale e le grandi scoperte scientifiche, ma anche per la capacità filosofica. Nel suo testo storico intitolato Il caso e la necessità, Monod riporta la vita e la coscienza dell’uomo ad una spiegazione scientifica integrale, in accordo con la teoria evolutiva di Darwin. Vita è il frutto di eventi casuali – assemblaggi di molecole e mutazioni – e della necessità biologica di sopravvivere. Questa necessità non è l’opposto della casualità ma indica l’obbligo, la costrizione ad adattarsi per sopravvivere alla pressione spietata della selezione naturale. Monod sottolinea quelli che lui chiama gli “strani eventi”: la imprevedibile comparsa della vita e la sua capacità di conservarsi e di evolvere, che per il biologo francese restano accadimenti altamente improbabili anche se totalmente spiegabili dalla scienza. Ma soprattutto Monod analizza il sentire dell’uomo moderno di fronte a tutto questo:

La società moderna è esposta a minacce gravi e pressanti. Non mi riferisco qui all’esplosione demografica, alla distruzione della natura e neppure alle bombe atomiche, bensì ad un male molto più profondo e grave, a un male dell’anima. Esso costituisce la più importante svolta dell’evoluzione delle idee, la quale lo ha creato e continua ad aggravarlo. Esso deriva, come la potenza della bomba atomica, da una semplice idea: la Natura è oggettiva, la verità della conoscenza non può trarre origine che dal confronto sistematico tra logica ed esperienza. […] Abbiamo ereditato dai popoli tribali l’esigenza di una spiegazione mitica, e l’angoscia che ci costringe a cercare il significato dell’esistenza. […] Provviste di ogni potere, dotate di tutte le ricchezze che la scienza offre loro, le nostre società tentano ancora di vivere e di insegnare sistemi di valori, già minati alla base da questa stessa scienza. […] La scienza distrugge i valori. Non direttamente, perché essa non ne è giudice e deve ignorarli: però essa distrugge tutte le basi mitiche o filosofiche su cui l’uomo ha fondato valori, morali, diritti, doveri, divieti. Se accetta questo messaggio in tutto il suo significato, l’uomo deve infine destarsi dal suo sogno millenario per scoprire la sua completa solitudine, la sua assoluta stranezza. Ora egli sa che, come uno zingaro, si trova accampato ai margini dell’universo in cui deve vivere. Universo sordo alla sua musica, indifferente alle sue speranze, alle sue sofferenze, ai suoi crimini. Ma allora chi definisce il crimine? Cosa è bene e cosa è male? [9]

Nelle ultime righe del libro una delle frasi più famose del ‘900:

“L’uomo ora sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’universo, da cui è emerso per caso”.

In queste parole risuona l’eco del finale de Lo Straniero opera dello scrittore e filosofo Albert Camus, di cui Monod era amico. Ma quella di Camus – trenta anni prima – era stata una lucida e addolorata presa d’atto, le cui parole sono significativamente diverse perché contengono una nota del cuore:

Io mi aprivo per la prima volta alla tenera indifferenza del mondo [10].

Monod esce da questo sgomento abbracciando un razionalismo radicale: il “male dell’anima” e risolvibile con la “vera conoscenza” delle scienza. Nelle ultime pagine del suo libro auspica la nascita di un Regno della Ragione, che possa accogliere in pieno tutta la verità della scienza e nel contempo fondare comunque su di essa dei valori ed un’etica. Una contraddizione che dopo un’analisi così serrata giunge inaspettata: come può la ragione che ha demolito tutti i miti generatori di etica e senso (Dei, ideologie, tradizioni) fondarsi su di sé – nuovo mito ma consapevole di essere solo un altro frutto del caso – per ricostruirli di nuovo?

 

1.5 Neo-darwinisti e post-darwinisti: Richard Dawkins e Stephen Jay GouldIndice

Molti scienziati, con strategie diverse, cercano di giustificare la presenza dell’uomo nell’universo. Da quando Monod espresse le sue razionali conclusioni sulla evoluzione di vita e coscienza, molti se ne sono occupati, ed anche in anni recenti sia gli ultra-darwinisti che i critici dell’evoluzione classica hanno riproposto le loro convinzioni, al centro delle quali resta sempre il caso.

Richard Dawkins [11] ha prodotto una immagine che può suscitare ammirazione per la precisione della vita, ma che senz’altro porta altro sconcerto. Per Dawkins l’uomo e la sua coscienza non sono altro che una macchina automatica, generata e governata dal suo corredo genetico a base di DNA; il gene – l’unità di replicazione e di espressione – è una creatura profondamente egoista, totalmente disinteressata all’individuo che lo trasporta, desiderosa solo di moltiplicarsi, competere, vincere e trasbordare di corpo in corpo attraverso semi e uova. Il suo unico scopo è di conservare ed espandere la sua esistenza. Caso e geni: una visione così fredda e meccanica può suscitare il “male dell’anima” di cui parla Monod. Certamente Dawkins ne è totalmente immune, e con lui i neo- darwinisti che in questi anni rappresentano la punta del razionalismo scientifico, da Daniel Dennett a Steven Pinker.

La visione di Stephen Jay Gould [12], pur con diverse correzioni da post-darwinista, è un tentativo più “storico” di spiegare la presenza dell’uomo nell’universo. Il famoso paleontologo americano, è stato – è prematuramente scomparso nel 2002 – insieme a Niles Eldredge il più spietato critico della idea classica di evoluzione, e un accanito rivale scientifico di Dawkins. Per Gould e Eldredge l’evoluzione non è regolare e continua, ma contraddistinta da eventi storici come improvvise catastrofi di massa ed esplosioni di specie. Non è il gene che evolve, ma i vincoli generici interni condizionano fortemente la nascita di nuove specie la vita e la terra co-evolvono in un percorso storico a salti, privo di ogni coerenza. Caso, vincoli interni e ambiente: una visione meno individualista del gene di Dawkins, forse un po’ più “di sinistra” – in senso politico Gould era effettivamente schierato con i radical americani – in cui l’organismo viene determinato dalla storia e dalle condizioni ambientali. La vita tra le catastrofi non assomiglia più ad un meccanismo che segue solo principi come competizione, adattamento, selezione naturale. Piuttosto una storia imprevedibile, una lotteria, una “deriva genetica”. L’attualità di questa “correzione” a Darwin è testimoniata dal clamore mediatico di un recente libro due scienziati cognitivi, Jerry Fodor e Massimo Piattelli Palmarini [13], che riprendono questi temi con ampia documentazione.

In definitiva nessuno dei prodotti della vita è inevitabile: Gould era molto chiaro nell’affermare che poteva succedere di tutto, ed accidentalmente è successo anche che ci fosse la sua coscienza e le sue parole.

Un altro modo di sfuggire al caso è di buttarcisi dentro, chiamarlo “caos” e “complessità” e cercarne i principi. Negli anni ’80 il chimico premio Nobel belga Ilya Prigogine [14] ha esplorato i sistemi molecolari complessi. Prigogine ha per primo evidenziato come questi sistemi, e soprattutto i sistemi vivi, si formino e si trasformino in modi sempre imprevedibili, non determinati da leggi o da modelli scientifici. Più che nessi lineari di causa-effetto questi sistemi seguono andamenti statistici medi, ruotano attorno a stati “attrattori”. Concetti come l’emergenza, l’auto-organizzazione, l’auto-produzione sono stati sviluppati ed arricchiti osservando gli andamenti dei sistemi molecolari complessi. Lungi dal dare un senso “scientifico” all’esistenza, gli studi su caos e complessità si accontentano di mettere in luce il carattere non-deterministico delle trasformazioni chimiche, e illudono forse l’uomo di avere un margine di libertà personale (ma anche se non-determinati, restiamo in ogni caso imprevedibili a noi stessi di istante in istante!).

In conclusione, per Prigogine sembra che non vi sia caso e necessità, ma solo caso: non ci sarà mai una equazione precisa che calcoli la vita o anche solo leggi naturali come la selezione, o la sopravvivenza del più adatto, ma solo configurazioni meno probabili (che chiamiamo casuali) o più probabili (che interpretiamo come necessarie); Prigogine ne deduce che per l’uomo non ci saranno mai più certezze, fedi, ideologie; neppure quella scientifica perché la natura non è meccanica, limpida e controllabile, è piuttosto caotica, opaca, imprevedibile. Forse più affascinante – Prigogine parla di un “re-incantamento della natura” – ma non per questo meno fredda, crudele ed indifferente all’uomo.

a cura di Roberto Ferrari
Centro Studi Asia

 

Indice delle uscite

Parte 2: Teorie scientifiche sul senso della vita
Parte 3: La coscienza e il nonsenso
Parte 4: Riassunto e meditazione


Sullo stesso argomento

Biologia e Metabiologia. Io sono il mio cervello?
Evoluzione per niente?
Coscienza umana: una macchina semantica?
Wittgenstein e il buddhismo. Appunti sulla domanda di senso.

Note – cliccando sul numero si ritorna sul testo annotato.

[1] http://www.moebiusonline.eu/fuorionda/doc/PanThanatology10.pdf
[2] http://www.moebiusonline.eu/fuorionda/doc/Biroetal2010CurrBiol.pdf
[3] R.Hooper, I delfini sanno di essere immortali? Internazionale 914, 9/9/2011,
p. 94.
[4] Karen McComb, Lucy Baker and Cynthia Moss, African elephants show high levels of interest in the skulls and ivory of their own species Biol. Lett. 22 March 2006 vol. 2 no. 1 26-28. http://rsbl.royalsocietypublishing.org/content/2/1/26.full
[5] Michele Luzzato, Preghiera Darwiniana, Cortina, 2008.
[6] Charles R. Darwin, Autobiografia 1809-1882. Con l’aggiunta dei passi omessi nelle precedenti edizioni. Appendice e Note a cura della nipote Nora Barlow, pref. di Giuseppe Montalenti. Tr. it. di Luciana Fratini, Einaudi, Torino 1964, pp. 67-77.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Jacques Monod, Il caso e la necessità, ed. Mondadori 1970, pp. 150, 152, 157.
[10] Albert Camus, Lo straniero, ed. Bompiani, 1942.
[11] Richard Dawkins, Il gene egoista, la parte immortale di ogni essere vivente, ed. Mondadori, 1995.
[12] Stephen Jay Gould, I fossili di Burgess e la natura della storia, ed. Feltrinelli 1990.
[13] Jerry Fodor, Massimo Piattelli Palmarini, Gli errori di Darwin, ed. Feltrinelli, 2010.
[14] Ilya Prigogine, La nuova alleanza, metamorfosi della scienza, ed. Einaudi, 1984.