Vi proponiamo la trascrizione dell’incontro, avvenuto presso l’Associazione Culturale Asia Modena il 30 ottobre 2008, con il monaco buddhista zen Soto Giuseppe Jiso Forzani: a partire dalla sua esperienza personale, un profondo dialogo sui grandi interrogativi dell’essere umano e i tentativi di affrontarli messi in atto in Occidente e in Oriente. Forzani ha fondato nel 1987 la Comunità Stella del Mattino con sede a Galgagnano (Lodi), la cui finalità è quella di svolgere attività di conoscenza e testimonianza del buddhismo zen in Italia e in Europa, in particolare nel dialogo con il cristianesimo e con la cultura occidentale.

Domanda: Il buddhismo si occupa di sofferenza, e la sofferenza contemporanea è connotata da un ritrovarsi smarriti, gettati in una vita priva di fondamento e di senso. Quando si chiede ai ragazzi a quale domanda vorrebbero risposta, dicono spesso “vorrei sapere perché: perché esisto? Perché sono qui?”. Forse quindi per cominciare a dar voce al buddhismo in Occidente occorre farlo dialogare con la filosofia dell’esistenza e con la pratica fenomenologica. Di fatto questo scambio tra filosofia dell’esistenza europea e buddhismo storicamente c’è stato, attraverso la filosofia giapponese della Scuola di Kyoto, e per certi versi continua. A Suo parere questa è una strada di dialogo percorribile?

Jiso Forzani: Penso senz’altro che sia una strada percorribile. Anche se uno deve lavorare con gli strumenti che la vita gli ha messo a disposizione e che ha scelto, e nel mio caso ha avuto un ruolo rilevante il dialogo con il Vangelo. Altre persone percorrono l’esperienza del dialogo con la filosofia dell’esistenza e questo è legittimo e benvenuto. La ricchezza di sentieri per salire la montagna è una cosa che la rende ancora più bella: se ci fosse l’idea di un sentiero solo dove tutti devono passare, sarebbe deleterio.

Ora, riguardo alla domanda sul “perché esisto?”, leggevo un libro che si intitola Meglio non essere nati di Umberto Curi, un filosofo che insegna a Venezia . Il titolo deriva dalla famosa risposta di Sileno, il fauno precettore di Dioniso che viene catturato da Re Mida, il quale lo tortura perché vuole sapere il segreto, vuole sapere qual è la cosa migliore per l’uomo. Alla fine la risposta è sconvolgente: “Meglio non essere nati, ma se proprio si è nati, meglio morire da piccoli”. Questa è una questione fondante di tutto il pensiero occidentale sia filosofico che religioso: ci si pone la domanda “perché si è nati?” e ci si risponde “meglio non essere nati”, ma questo lo può dire solo uno che è già nato! La fregatura è totale, non c’è niente da fare, ma siccome siamo nati ci poniamo la domanda.

Questo è il modo in cui l’Occidente si è posto il problema della sofferenza, che non è certo una prerogativa del buddhismo. Non si tratta di adottare il linguaggio fenomenologico per tradurre quello che il buddhismo dice col suo linguaggio, ma dall’usare la fenomenologia in modo che venga fuori ancora qualcos’altro. Il buddhismo, dal canto suo, non cerca una soluzione trascendente al problema della sofferenza: non è un sistema, una cosmogonia o una visione del mondo, non è una teoria che spieghi cosa è la realtà. Il buddhismo è una pratica, una prassi. Probabilmente può dare all’indagine fenomenologica un risvolto pratico anche fisico: il corpo, un aspetto concreto che in occidente non si è sviluppato. Questa senz’altro è una via da percorrere.

Domanda: Personalmente mi ha molto toccato un momento del suo percorso, quello che lo vede in un monastero zen in Giappone rileggere, su invito di un Maestro illuminato, il Vangelo di San Giovanni. Vorrei capire se questo rileggere il Vangelo ha risvegliato un senso di nostalgia per la terra che aveva abbandonato, un richiamo del cuore. Oppure se è stato un leggere la sua tradizione con occhi nuovi attraverso il buddhismo, un tornare a casa tramite un percorso “vero”. Effettivamente anche io mi rendo conto che è difficile staccarsi da questo messaggio così forte e così bello, ma che forse è vecchio, di maniera. Magari vedendolo da lontano possiamo ancora viverlo profondamente?

Jiso Forzani: Sono un po’ vere tutte e due le cose. Quando si vive per anni lontano da casa è un’esperienza forte. Io ho vissuto anni con l’idea di non sapere se e quando sarei tornato, non faceva parte del gioco, perché quando sono entrato mi hanno chiesto di restare dieci anni. Se uno ti dice “stai qua tre anni” , immediatamente dici “beh tre anni, mille giorni”, e ogni giorno ne togli uno. Se sono dieci anni, ed è probabile che allo scadere del decimo ti chiedono di starne altri dieci – e tu non puoi dire di no, anche se puoi sempre andartene, le porte sono sempre aperte – non ti poni più il problema del ritorno. Smetti di pensarci, non è una meta concreta.

Allora si innesca un doppio estraniamento. Da un lato non sei e non sarai mai inserito come chi è in quella realtà, perché giapponese non lo diventerai mai; anche se parli in Giapponese, se sogni in Giapponese, se pensi in Giapponese… ti accorgi che non sentirai mai da giapponese. D’altro lato, dopo tanti anni di assenza non appartieni più all’Italia, quando torni è un altro posto. Sei straniero ovunque, come dice il Vangelo “il figlio dell’uomo non ha dove poggiare il capo”.
La conversione è quando “straniero-ovunque” si trasforma in “visto che non ho una casa, allora sono dovunque a casa mia”: è la stessa cosa vista in un modo fondamentalmente diverso. Però questa non è una cosa così facile: è una Via, fatta di alti e bassi.

È anche vero che quello studio del Vangelo ha dato avvio a un percorso, mi ha fatto porre domande che non mi ero mai posto: in che cosa credono questi monaci buddhisti che fanno la stessa vita di quelli cristiani ma non hanno questa fede a cui aderire? In cosa crede un buddhista? E io, sono un buddhista o non lo sono? Forse sto tradendo il Vangelo? Un domandare anche molto faticoso.
Da lì ho cominciato ad intuire che i passi di una vita, per quanto contorti, sono consequenziali e formano un disegno che ha un senso. C’è una coerenza interna per cui non esiste il tradimento perché si resta fedeli allo spirito che anima tutti quanti. Adesso, quando apro il Vangelo di Giovanni, mi parla con una lividezza più intensa, almeno come tonalità di colori, che non il linguaggio buddhista orientale. (Tra parentesi, non sono molto d’accordo col fatto che sia un testo vecchio; conosco tanti a cui questo testo parla direttamente, quindi il problema forse è nostro). Oggi so perché non sono andato nel monastero benedettino che sorgeva a fianco a casa mia e so perché non ci andrei. Oggi so perché mi ha incontrato il buddhismo e io ho incontrato il buddhismo, non ho più il problema di un riferimento, o di una nostalgia. Oggi in me il Vangelo e il cristianesimo vivono nella forma del monaco buddhista.

Domanda: A me sembra che oggi, per spiegare i motivi della propria sofferenza e per risolverla, sia più facile di un tempo scegliere una religione, o una pratica di meditazione. In questo cristianesimo e buddhismo in un certo senso competono, anche se trattano aspetti diversi: il buddhismo zen è una pratica, come Lei dice, e sembra avere molti più modi di parlare di quello che c’è dentro “io”; mentre forse il cristianesimo cura molto il rapporto “io-l’altro”. Ma quando un ragazzo sui diciotto anni soffre seriamente, ad esempio del male del nostro tempo, la depressione, Lei ritiene che dovrebbe andare da uno psichiatra o che potrebbe provare a fare un percorso di questo tipo? Questa è una domanda, secondo me, cruciale, perché mi sembra che anche la psichiatria competa con le religioni per spiegare la sofferenza e per risolverla.

Jiso Forzani: E’ senz’altro una domanda cruciale, a cui però credo non si possa dare una risposta generale, veramente ogni caso è un caso a parte. Non penso che il buddhismo, la pratica meditativa, siano il meglio per tutti. Negli anni in cui mi è capitato di avere la responsabilità di un dojo, di un luogo di pratica con una comunità, spesso mi è capitato di sconsigliare la pratica dello zen a diverse persone, indipendentemente dalle loro condizioni psichiche. Per esempio, una regola che noi abbiamo nella nostra comunità è che la prima accoglienza sia breve, non più di tre giorni, perché spesso accade che si vada in un posto sbagliato per motivi sbagliati e bisogna conoscersi reciprocamente. A me importa che le persone che vengono da noi sappiano cosa trovano e trovino ciò che cercano. Di recente una persona è arrivata dicendo: “Voglio stare qua dieci anni”. Dopo due giorni ci siamo detti cordialmente arrivederci: era una persona di prim’ordine, matura e nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, però del tutto inadatta alla vita comunitaria; gli avrebbe fatto male, l’avrebbe mortificato e avrebbe danneggiato il dojo.

Talvolta ci sono persone con problemi di depressione a cui magari con delicatezza e a piccole dosi può fare bene vivere in comunità e fare zazen, possono trovarvi un reale sostegno. E ci sono persone a cui può fare veramente male, crea solo sconcerto e sgomento. Quando chi pratica con noi mi dice che prende psicofarmaci o segue terapie posso decidere che resti a praticare, ma non mi prendo assolutamente la responsabilità di dirgli di interrompere la sua terapia perché non ho gli strumenti, non sono uno psichiatra né uno psicoterapeuta.
Anni fa si intendeva il Maestro come una figura totale, ma il responsabile di un dojo – chiamiamolo pure Maestro – non è un confessore né un consigliere spirituale né un terapeuta né uno psicanalista: deve sapere molto bene cosa fa e perché lo fa, e quello che non sa fare lo lascia ad altri.

La cosa importante è che la nostra presenza possa durare e offrire accoglienza al maggior numero possibile di persone, quindi la mia prima preoccupazione è conservare il dojo. La comunità residente del nostro dojo è piccola, siamo tre persone adulte e mature. Quando mi chiedono di tenere una persona perché ha problemi psicologici o di tossicodipendenza, ma che non viene per un suo spontaneo interesse, in genere dico di no. Senz’altro lo zen non è una terapia per la depressione, perché veramente può anche fare danni. Io sono convinto che alla lunga il ritiro faccia bene, però so anche che ci possono essere momenti di angoscia, questo bisogna saperlo. La nostra comunità è una comunità che fa anche accoglienza temporanea, però ha una dimensione di scelta di vita, quindi queste cose vanno prese in considerazione entrambe.

Domanda: Mi ha colpito quello che ha detto prima: “Quando uno viene da noi spero trovi quel che cerca”. Questo atteggiamento insito nella nostra cultura del “cercare per trovare” del “chiedete e vi sarà dato” mi pare diverso da quello che è alla base dello zen, di non cercare, di non chiedere. È questa la differenza di atteggiamento tra zen e Vangelo nella ricerca per risolvere la sofferenza?

Jiso Forzani: Sì e no. Nel senso che ci sono testi zen che affermano chiaramente come il fatto stesso di cercare ti allontana dalla meta, ma nello stesso tempo se non la cerchi certamente non si innesca il processo. Il rapporto fra cercare e trovare è sempre un rapporto ambivalente: nello zen si incita a cercare e poi si dichiara che il trovare è assolutamente gratuito, indipendente da opere o dal cercare; questo è lampante anche nel Vangelo e soprattutto in San Paolo. Se non ci si mette in ascolto, se non ci si mette in atteggiamento di apertura, di sintonia, non c’è né cercare né trovare. L’atteggiamento di fondo è l’ascolto della rivelazione: se quando Gesù dice “seguimi”, il discepolo non ascolta e non segue, se dice “ma io devo andare a seppellire mio padre”, la sua ricerca si ferma. Si dice che quando cerchi ti stai già allontanando, ma nel momento in cui, quando cerchi, ti poni in ascolto e ti accorgi che ti stai allontanando, ti sei già riavvicinato; è un gioco così.

Non direi che la differenza fondamentale tra Vangelo e zen sia tra cercare o non-cercare. Come qualcuno diceva prima, c’è una differenza descrittiva: il Vangelo dice “seguimi” all’interno del rapporto io-altro (in cui uno segue l’altro), mentre nel buddhismo zen è un “seguimi” che sono sempre io. Il rischio di fraintendere è presente in entrambi: nel cristianesimo si rischia che dicendo “sia fatta la Tua Volontà” si intenda che la tua volontà coincide con la mia; nel buddhismo il rischio è che il vero Sé venga identificato con l’io egocentrico, e si torni anche in questo caso al punto di partenza. Questo accade perché il materiale umano è quello che è, siamo fatti tutti così: questo nel buddhismo non è una colpa, è il dato di fatto che genera la sofferenza e non porta a conclusioni come “meglio non essere nati”: piuttosto, dal momento che ci siamo, vediamo cosa si può fare.

Domanda: Avrei una domanda sulla costrizione. In un suo breve scritto relativo al concetto buddhista di Interdipendenza, Lei ha spiegato come per il buddhismo vi sia un rapporto di reciproca e totale dipendenza fra tutte le cose, che fa venire in essere tutto ciò che è, che fa perire tutto ciò che viene in essere e così via. Questo “nascere per morire” continuo e circolare Lei lo descrive come una situazione di prigione, e afferma: “La prigione sono io”. Se è così, ci ritroviamo in una totale costrizione, siamo all’interno di questo immenso meccanismo interdipendente di emersione e distruzione e non possiamo nulla. Ora, parlando proprio della differenza tra cristianesimo e buddhismo, non vedo quale possa essere il punto di incontro in quanto il cristianesimo fa del libero arbitrio uno dei suoi capisaldi. Come si possono conciliare due visioni così diverse?

Jiso Forzani: Vediamo se andiamo nella direzione giusta. Sull’aspetto costrittivo sono d’accordo tutti, perché anche nel cristianesimo è evidente che il fatto di essere nati in una determinata condizione è un problema. Chi ha lavorato sul libero arbitrio come Agostino ha fatto del peccato originale un caposaldo. Non è che qualcuno ha il problema della costrizione e qualcuno non ce l’ha, ce l’abbiamo tutti; il buddhismo dice che la condizione di sofferenza è intrinseca alla vita, non è un evento particolare che si possa eliminare.

Il libero arbitrio è un’elaborazione del cristianesimo, mentre per la sensibilità biblica, abramitica o ebreo-giudaica la questione si pone come: “Ma che gioco è? Bastava che Dio non ci mettesse l’albero con la mela ed eravamo tutti a posto. Non l’ho messo io l’albero e neppure il serpente, ce li hai messi Dio, mi ha gettato in questo peccato e ora ne devo pagare io le conseguenze?”. Il libro di Giobbe e molti altri testi della Bibbia chiedono conto a Dio di questo ritrovarsi in una condizione di sofferenza. La risposta di Dio a Giobbe è uno spostamento del problema (perché dalla questa condizione non se ne esce, a meno di inventarsi un ipotetico aldilà): “Giobbe, ma che domande mi fai? Cosa ne sai tu di tutto questo insieme? Tu vedi questa robetta qui dal punto di vista del tuo miserando io. Sì, sei sofferente, ma chi sei tu per chiedermi conto? La domanda è mal posta”.

Lo stesso in fondo dice il buddhismo. La metafora della nostra condizione esistenziale come di una prigione trova soluzione ad esempio nelle parole del filosofo buddhista Nagarjuna, quando afferma che Nirvana e Samsara, la libertà e la prigione, sono la stessa identica cosa. Il problema non è più cercare di uscire dalla galera, perché fuori dalla galera ce ne è un’altra, poi un’altra e così via… anche se sposti il muro della prigione prima o poi ci sbatti contro, come nel film The Truman Show. Il problema è cambiare modo di vedere: se non c’è altro che prigione la libertà o non c’è, o è quella, questo è il libero arbitrio. Là dove c’è solo prigione non ha più senso parlare di prigione, perché non c’è più un fuori.

Io credo che sia lo stesso nel mito di riferimento cristiano del peccato originale: o dare la colpa a Dio (ma non aiuta minimamente, anzi è una fregatura totale per chi crede in Dio) oppure cambiare l’atteggiamento nei confronti della domanda, e questa è libertà, non arbitraria. Ma è qualcosa che posso fare solo io, nessuno la può fare al posto mio, e su questo Buddha è molto onesto quando dice: “Non dovete fare di me e dei miei insegnamenti un oggetto di fede, ma illuminate la vostra vita da voi stessi; dovete andare a vedere voi”. Altrimenti non so, onestamente, cosa si può intendere per libero arbitrio. Però non ho approfondito la questione in senso teologico.

Domanda: Credo che il termine “libero arbitrio” abbia molti significati, spesso confusi: vuol dire libera scelta di fare qualcosa; oppure significa libertà da qualche cosa, o anche liberazione. Oppure indica un ventaglio di possibilità: io ho la mano e sono libero di chiuderla ed aprirla perchè ho queste possibilità, ma ho anche dei limiti, non posso chiuderla a rovescio per esempio. La cosa va vista molto a fondo: ho avuto colloqui e dialoghi approfonditi con teologi cristiani al riguardo e la difficoltà che ho incontrato è che loro ad un certo punto devono salvare questa responsabilità del singolo nell’accettare o meno il messaggio: da un lato “non si muove foglia che Dio non voglia”, dall’altro tu puoi dire sì o no. Allora la domanda è questa: l’atto posso farlo io da solo oppure si fa? Perchè se posso farlo io è libero arbitrio, se invece si fa la liberazione accade.
Che ne è di questo io che dovrebbe scegliere liberamente di fare?

Jiso Forzani: Questa è la questione che si pose Dogen, il fondatore del buddhismo zen Soto in Giappone. Dogen lesse nei Sutra che la natura essenziale di tutti è Bodhi (illuminazione) e si chiese: “Allora come mai i Buddha debbono lottare duramente per ottenere l’illuminazione?”. Se ce l’ho già, perché devo praticare? Un cristiano si chiederebbe: perché il figlio di Dio è dovuto morire in croce?
Anche nel Vangelo si dice che l’uomo non si può salvare da solo, che solo Dio salva e lo fa indipendentemente dalle opere che l’uomo ha compiuto. Di nuovo io direi, come ipotesi di orientamento e non come risposta logica, che una cosa non esclude l’altra. Posso scegliere di mettermi in quella posizione in cui si fa.

Un altro modo di affrontare il problema è quello dell’amidismo, una forma di buddhismo differente dallo zen ma molto interessante perché coltiva l’abbandono. Per l’amidismo io da solo non posso farcela e ho bisogno della forza salvifica esterna del Buddha Amida, il quale fece un voto grazie al quale chiunque invochi il suo nome con cuore sincero è istantaneamente salvo. Amida è la traduzione in Giapponese del termine sanscrito Amithaba che vuol dire “luce infinita”: quindi non è una persona trascendente ma è la vita che dà la vita alla vita. Però questo invocare anche una sola volta il nome di Amida con cuore sincero… il problema è che da solo non lo potrò mai fare, non basta che affermi “io ho cuore sincero”. Ancora una volta ci sono due fatti che dal punto di vista logico si contraddicono: da un lato io devo aprirmi e abbandonarmi con cuore sincero, dall’altro io non posso farlo. La religione per me è questo riconoscere la necessità di un passaggio impossibile: solo lì ha senso per me introdurre il concetto di conversione e di “fede”, intesa non come credere in qualcosa ma come questa apertura incondizionata in cui io rinuncio anche al minimo frutto. C’è un bellissimo sermone di Meister Eckhart che dice: “Il povero di spirito che dice di essere povero di spirito non è povero di spirito; eppure ci vuole povertà di spirito”. La pratica religiosa, che per me è lo zazen, è lo stare fermi su quella soglia, lottare con corpo e spirito. Il paradosso è che per avere devo rinunciare a priori alla cosa che desidero e chiamare quello libertà. Descriverei così l’atto di fede, come questo tentativo di riposizionarsi di fronte alla domanda.

Domanda: Mi pare di aver capito che è necessario, restando sulla domanda, spostare nel contempo l’atteggiamento verso la domanda. Ma per fare questo cosa è necessario fare? È necessario l’atto volitivo?

Jiso Forzani: Io faccio zazen. E per andare a sedere sul cuscino abbiamo bisogno di volontà tutti i giorni.

A cura di Roberto Ferrari e Olivier Stussi