La meditazione incentrata sul vedere.

  • Clicca qui per visualizzare l’elenco delle puntate di “La meditazione, alle origini del domandare”

Come ho scritto nella puntata precedente, ogni civiltà è caratterizzata dalla domanda fondamentale a cui cerca risposta. Qui aggiungo: e dai mezzi che adotta per cercare la risposta. I due aspetti sono interconnessi.
La meditazione mira alla conoscenza. Essa è uno dei mezzi che l’umanità ha affinato per la soluzione di una tensione al vero e all’autentico.
Qui presenterò tale mezzo, cioè le pratiche incentrate sull’immobile postura, il controllo delle “energie vitali” e l’attingimento a capacità intuitive non accessibili nella vita ordinaria. Tale mezzo corrisponde alla domanda che gli Indiani si sono posta: “Come uscire dal ciclo delle rinascite? Qual è l’essenza ultima di colui che vi è coinvolto?”. Non è una domanda bizzarra, è lo stesso che chiedersi “Perché esisto? Che senso ha che io continui a vivere parteggiando per una condizione che non ho in nessun modo scelto?”, ma in versione ancor più tragica, poiché gli Indiani hanno incentrato tale domanda sul continuum coscienziale che, in preda a ignoranza ontologica, da una semieternità si reincarna nel ciclo  delle vite pregne di sofferenza, il samsara.

La tradizione orientale ha trasmesso diverse forme di meditazione di cui evidenzierò tre categorie:

  • dhyana, la meditazione vera e propria in senso tradizionale, veicola la conoscenza attraverso il vedere e indaga nella natura ultima del soggetto “veggente”;
  • la bhakti, il “calore” del cuore, la contemplazione devozionale, è incentrata sull’aspirazione ad essere accolti dalla divinità fino all’unione con essa;
  • la meditazione incentrata sulla shunyata mira a realizzare la “inesistenza di essenza intrinseca” di ogni esperienza, incluso quella del soggetto esperente (anatman).

Questa puntata tratterà  di dhyana. Il termine deriva dalla radice dhi, “tenere la mente su…”, e la pratica della meditazione dhyana veicola la conoscenza attraverso il vedere; ‘vedere’ in senso lato, ma sempre un vedere, sia esso sensoriale che mentale.
In ultimo, il vedere in questione, sebbene possa sovrapporsi ai canali sensoriali, ne è indipendente: è il ‘vedere’ da parte della coscienza.
La sapienza incentrata sul vedere si riflette sia nel verbo greco eidéo (da cui idea) che nel termine sanscrito veda; entrambi stanno per il sapere derivante dall’avere ‘visto’.
Gli antichi saggi vedici erano i rishi, termine molto probabilmente derivato dalla radice sanscrita drś, ancora significante ‘vedere’. Ancora oggi, in India, un grande saggio è chiamato maha-rishi, così come l’a me carissimo Bhagavan Shri Ramana Maharshi, oppure il famosissimo Maharishi Mahesh Yogi, che fu il “guru dei Beatles”.
Gli indiani definiscono sei sensi, indriyas: i noti cinque più il senso mentale che è quello che usiamo per vedere ricordi, immaginazioni, ecc.

Vi propongo un esercizio.
Fate in modo di ritirarvi in un luogo veramente buio, come lo è una grotta dove dall’esterno non filtra neppure un fotone; naturalmente una stanza opportunamente oscurata andrà ugualmente bene.
Disponetevi in una posizione seduta comoda che possa essere mantenuta nella totale immobilità  per qualche minuto.

Quello che potrete notare è  che si ha lo stesso spettacolo (il buio) sia a occhi chiusi che a occhi aperti. Vedete il buio. Da dove? Qual è il punto di provenienza di quell’incontestabile vedere che non necessita di luce? Prendete sul serio l’indicazione che vi suggerisco… potreste avere sorprese interessanti.

Curiosità: per secoli adepti di sette yoga, indu, buddhiste e jainiste, hanno scelto di farsi murare in grotte buie per praticare a fondo l’ascesi della ‘mente fondamentale’ non più disturbata dai fenomeni visivi e sensoriali in genere. Io stesso ho potuto visitare tali luoghi sull’Himalaya, in Orissa e in Kerala.
Alla categoria della meditazione basata sul vedere appartengono i Veda, il Vedanta, lo Yoga e i Tantra – questi ultimi oggi grottescamente distorti in un mercato dell’eros “mistico”.
Il Vedanta può essere inteso come compiuta espansione delle premesse contenute nei Veda, i testi sapienziali più antichi, che qualcuno giunge a datare fino al 2000 a.C.
I Veda sono incentrati sul sacrificio e sulla ‘visione’, spesso indotta dal soma, succo di una pianta in qualche maniera alterante la coscienza ordinaria.
Viene da pensare che la meditazione, intesa come profondo assorbimento alle radici della coscienza veggente, possa essere stata ispirata da stati alterati indotti dall’assunzione di sostanze. Anche oggi, in India, molti sadhu, gli asceti delle foreste o delle montagne, fumano ritualmente il ganja (gàngia) e il chàras, derivati dalla cannabis. Purtroppo la cosa ha prodotto molti danni ai giovani occidentali che, dagli anni ’60 hanno cominciato ad intraprendere il “trip indiano” e ad abusare delle sostanze alteranti gli stati coscienza senza retroterra adeguato, ma solo come molto ingenua ricerca interiore o come esigenza di evasione. Spesso cadono vittime di veri e propri episodi psicotici. Ne scrivo perché in India ne ho visti e conosciuti in abbondanza e molti di loro non sono più tornati a casa, senza però diventare sadhu…
Il vedere è ben esemplificato nello Yogasutra di Patanjali, yogi e maharishi, la cui vita non è databile con precisione, riscontrandosi almeno due Patanjali autori di scritti famosi. Il primo è datato al III-II sec. a.C. ; il problema è che tra il primo e il secondo Patanjali corrono sei, sette secoli. Dal momento, però, che la sapienza in India è da sempre trasmessa principalmente per via orale, la redazione degli Yogasutra è solo un evento lungo il filo della trasmissione iniziato chissà quando.
Patanjali evidenzia la struttura base dell’esperienza cosciente nella bipolarità testimone veggente-spettacolo visto. Chiama l’origine drashtar , ossia “colui che vede”, dalla suddetta radice drś, vedere. Egli dice che “si ha lo stato di Yoga quando il veggente si reinstalla nel proprio originario stato”, e che “altrimenti si identifica con le modificazioni della mente”, cioè con pensieri, immagini, percezioni, emozioni, che chiama vritti, termine che richiama il nostro ‘vortice’.
Anche Shankara, il grande mistico e filosofo dell’advaita vedanta, si fonda sulla distinzione veggente-visto, mirando, però, superare in ultimo la dualità ed attingere all’atman, la suprema coscienza alla cui luce tutto è a-dva, non due. Celebre, a riguardo, è la sua opera Drg drshya viveka, la discriminazione tra veggente e visto.
Il ritorno in sé del soggetto veggente, grazie a diverse pratiche di autoreferenza, è  quindi la condizione verso la piena verità realizzata negli assorbimenti più profondi, i vari samadhi.
Altro esempio interessante è la definizione delle caratteristiche della “mente fondamentale di Chiara Luce”, menzionata nel Buddhismo tantrico, come ‘non ostruzione e sensibilità’; con ciò si intende che la mente fondamentale non ha ostacoli in sé, che è come spazio senziente. A tale mente fondamentale si perviene attraverso la costruzione di spettacoli visualizzati (mandala) nel campo mentale e poi con la loro eliminazione lasciandoli dissolvere nella stessa spazialità senziente che li ha originati. Riscontriamo anche qui la medesima struttura che abbiamo incontrata nello yoga e in Shankara.
I livelli raggiungibili sono estremamente profondi e rarefatti, eppur riconoscibili e vivibili con consapevolezza. Nell’analisi del processo di morte che si trova nel Libro tibetano dei morti, attribuito a Padmasambhava, mistico buddhista, apostolo del buddhismo in Tibet, si accenna allo stato di Chiara Luce della morte, esperienza riconoscibile solo al culmine del processo di riassorbimento degli elementi nella mente fondamentale, processo che chiamiamo ‘morte’.
L’assunto di base delle vie di meditazione incentrate sul vedere è che nel luogo sorgivo del vedere (non del visto) vi sia il vero, il non condizionato, la vera essenza, la verità che libera dalla sofferenza del ciclo delle rinascite, il samsara. Gli Indu la chiamano atman o purusha, certi Buddhisti la chiamano Chiara Luce o Natura di Buddha, i Giainisti, jiva.
Sottolineo che, in questa impostazione della meditazione, il polo importante è quello della provenienza del vedere.
Il passo importante consiste nella ritrazione dell’attenzione lungo i canali sensoriali, passo tematizzato, negli otto membri dello Ashtanga yoga, di Patanjali come pratyahara. In tale sezione di pratiche sono considerate precise tecniche, per ogni canale sensoriale, per ritrarre l’attenzione alla sua scaturigine coscienziale. Si possono risalire i canale dalla vista oculare, dell’udito, del gusto, del tatto, dell’olfatto e della vista interiore, il “sesto senso o terzo occhio”. Quest’ultimo canale è estremamente potente e ad esso, in qualche modo, afferiscono tutti gli altri canali. È, perciò, cruciale l’autoreferenza, il riassorbimento in sé del vedere coscienziale, come se l’occhio tentasse di vedersi, il che è impossibile, però con la coscienza qualche passo in più si può fare.
Tale origine del vedere coscienziale è esperibile ed è parte di ciò che si insegna ad ASIA.

Approfondiremo altri aspetti della meditazione nelle prossime puntate.

Franco Bertossa
presidente di ASIA

 

  • Clicca qui per visualizzare l’elenco delle puntate di “La meditazione, alle origini del domandare”
Sullo stesso argomento: