«La vita ha un senso e sono gli adulti a custodirlo» è la bugia universale cui tutti sono costretti a credere. Da adulti, quando capiamo che non è vero, ormai è troppo tardi. Il mistero rimane, ma tutta l’energia disponibile è andata da tempo sprecata in stupide attività. Non resta che cercare di anestetizzarsi, nascondendo il fatto che non riusciamo a dare un senso alla nostra vita e ingannando i nostri figli per cercare di convincere meglio noi stessi. […] Mi chiedo se non sarebbe più semplice insegnare fin da subito ai bambini che la vita è assurda.»

da L’eleganza del riccio
di Muriel Barbery
Edizioni e/o 2007

Che senso ha vivere? Secondo Paloma, rampolla dodicenne di una ricca famiglia parigina, assolutamente nessuno – o almeno, questo è il suo forte sospetto: per evitare il dolore che ciò le provoca ha deciso che il giorno del suo prossimo compleanno si toglierà la vita; nel frattempo,tuttavia, poiché “l’importante non è morire, [ma] quello che si fa al momento di morire”, cercherà con impegno un valido motivo per vivere (“se nulla ha un senso, la mente deve almeno potersi mettere alla prova”): gli strumenti di cui si servirà per questa estrema impresa saranno da una parte il logos e dall’altra l’osservazione del movimento del mondo, cioè dei gesti, dei corpi in moto, della fisicità. Per la portinaia del palazzo in cui vive Paloma, invece, il senso dello stare al mondo balugina nella bellezza densa di una pagina di Tolstoj, nei fotogrammi di un delicato film giapponese, nell’intensa quiete di una natura morta del XVII secolo: Renée, autodidatta di umili natali, nasconde al mondo esterno il proprio animo fine e colto, timorosa che possa tornare a galla un altro, ben più doloroso segreto…

Forse non occorre presentare uno dei più sorprendenti casi letterari degli ultimi anni (da cui è stato tratto Il riccio, un film di Mona Achache uscito in Italia qualche mese fa); è però utile, a nostro parere, sottolinearne alcuni aspetti che vanno oltre il piacere dato dalla maestria della narrazione: uno di questi è la riemersione nella coscienza collettiva, grazie alle pagine della Barbery, di un grande tema filosofico – la questione del senso, appunto. Lungo tutto il Novecento, in molti hanno espresso poeticamente sensazioni come il vuoto o l’assurdo, ma in pochi hanno saputo esplicitare la domanda di senso e argomentarla con precisione: in particolare Martin Heidegger e Jean-Paul Sartre ne hanno offerto un’ampia trattazione, il primo approdando al Mistero e al sentimento del sacro, il secondo traendone al contrario una visione quasi ripugnata; nei decenni che ci separano da La nausea sartriana, il problema del senso è ricomparso nella letteratura europea solo saltuariamente, e senza l’incisività di un pensiero innovativo rispetto a quello del pensatore francese (pensiero mutuato decisamente più volentieri, nel sentire comune, che non il ritegno [die Verhaltenheit] heideggeriano). Almeno fino all’uscita di L’eleganza del riccio: in questo romanzo, profondo ma di gradevolissima lettura, non solo la questione del senso è centrale, ma tenta pure – finalmente – di liberarsi dalla zavorra di nichilismo a cui ancora la costringe la cultura occidentale contemporanea; Muriel Barbery si chiede senza mezzi termini se sia ancora possibile accogliere e indagare la perplessità sul senso dell’esserci, perché ne emerga una visione del Mistero che siamo spoglia delle solite depressione e suicidalità. E sembra rispondersi affermativamente.

L’interesse del libro (e la sua importanza nel desolato panorama culturale di quest’epoca) sta soprattutto nel modo in cui le protagoniste reagiscono al non-senso: esse non lo subiscono, bensì lo mettono alla prova, ognuna seguendo i propri metodi. Renée divora romanzi e trattati di filosofia che possano offrirle un riscontro intellettuale sulla natura della realtà, e però non esclude il mondo dei sensi dalla propria ricerca – ad esempio, prima di analizzare i testi con il laser del ragionamento, li esamina gustando una succosa susina: se la pagina regge il confronto con l’assalto delle

sensazioni, forse ha davvero qualcosa di interessante da dire, e vale la pena di passare all’analisi del logos; l’altra ‘pratica’ della portinaia consiste nel cercare e nell’assaporare gli attimi che hanno il potere di “aprire una breccia […] nell’assurdità delle nostre vite”: il rituale del tè, un dialogo di un film di Ozu… questi momenti racchiudono qualcosa di molto prossimo al mistero dell’esistere che tanto assilla Paloma, e Renée lo sa bene: ascoltarli è “ricerca di significato”, significato che, talvolta, usa la bellezza per palesarsi all’essere umano. Dal canto suo, Paloma intraprende due ‘vie’ molto precise per affrontare la questione esistenziale: come già accennato, la bambina procede indagando il reale attraverso la razionalità, nel tentativo di scoprire se sotto la loro patina di scontatezza le cose, gli eventi e le emozioni non celino la Grande Risposta alla domanda di senso; risposta che la bambina cerca, d’altro canto, anche nel movimento, nelle profondità del gesto, cogliendolo nel suo nascere e nel suo morire, o nelle sue manifestazioni più prossime a quel confine oltre il quale filtra la luce fredda del mistero di esistere.

La cinica visione comune secondo cui la verità non esiste e l’unica cosa che valga davvero la pena è la soddisfazione dei sensi viene liquidata dall’argomentare della piccola Paloma: “non c’è nessuno più puerile del cinico, perché il cinico crede ancora con tutte le sue forze che il mondo abbia un senso e non riesce a rinunciare alle sciocchezze dell’infanzia, tanto che assume l’atteggiamento opposto. «Non credo più a nulla, la vita è una puttana e ne godrò fino alla nausea» sono le parole esatte dell’ingenuo scocciato”. Lo sguardo delle due protagoniste sul nichilismo di cui generalmente siamo tutti prigionieri è acuto e impietoso. Ben si comprende, d’altro canto, che l’ammirazione per la cultura nipponica le accomuni, e che non consista solo nell’aderenza a un modello estetico (ecco un altro grande pregio del romanzo): attraverso Renée e Paloma, l’autrice mette in relazione la domanda di senso con entrambe le tradizioni, occidentale e orientale, proponendo più o meno implicitamente una complementarità fra le due nell’ambito di una concreta ‘via esistenziale’. La bambina, in particolare, nel proprio cercare rappresenta il perfetto connubio fra Oriente e Occidente: pur indagando il movimento (e avvicinandosi così allo studio che sta alla base di certe arti marziali) non rinuncia mai (attingendo all’essenza dell’approccio critico occidentale) a porsi delle domande, anche sul proprio stesso domandare – analogamente, Renée a un certo punto si chiede che senso abbiano le righe che lei stessa sta scrivendo… e che il lettore sta leggendo.

Si potrebbe rimproverare a Paloma che il suo studio del gesto si basa sull’osservazione del mondo esterno, più che su una pratica che parta dal suo stesso corpo, e che quindi una simile ricerca resta fatalmente svolta ‘in terza persona’; a Renée si potrebbe far notare che accogliere e valorizzare gli attimi in cui il Vero si manifesta non è sufficiente a dispiegarlo, a comprenderlo davvero (qualsiasi cosa ciò significhi). Ma si rischierebbe di chiedere troppo a L’eleganza del riccio, pretendendo una precisione e una profondità di analisi che poche opere narrative hanno dimostrato di possedere – e che probabilmente nemmeno appartengono all’ambito romanzesco (per quanto ‘l’esteta’ Renée ci doni talvolta saggi di autentica filosofia). Il piccolo tesoro che questo libro ci offre è già più di quanto si possa sperare di leggere in un romanzo contemporaneo; di tale tesoro sono gemme preziose anche pagine come quelle sulla problematica del decesso in ambito ospedaliero, quelle sulla vecchiaia trascorsa in un ospizio, o ancora quelle in cui l’autrice critica con coraggio e intelligenza l’inconsistenza dell’approccio al sapere adottato dalle università occidentali, tese a “ingrossare le fila di una scolastica che ha […] come unica funzione l’autoproduzione di sterili élite”, così disperatamente lontane da quello che Renée chiama “questo invisibile che noi vediamo”.