Appunti sulla domanda di senso. Parte II

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Indice della Parte II

Ripresa e soluzione – indice

Nella prima parte dell’appunto di Wittgenstein nei Quaderni in data 11.6.1916 si mostra il problema del senso della vita.

Che cosa so di Dio e del fine della vita?
So che questo mondo è.
Che io sto in esso come l’occhio nel suo campo visivo.
Che qualcosa in esso è problematico, ciò che noi chiamiamo il suo senso.
Che questo senso non risiede in esso, ma al di fuori di esso.
Che la vita è il mondo.
Che la mia volontà compenetra il mondo.
Che la mia volontà è buona o cattiva.
Che dunque bene e male sono in qualche modo congiunti al senso del mondo.

Nella seconda parte dello stesso appunto si apre uno spazio per accennare a una possibilità che il “problematico” si risolva. È il nucleo di un percorso cui Wittgenstein si riferirà tutta la vita, con immagini diverse. Inizia con queste parole:

Il senso della vita, cioè il senso del mondo possiamo chiamarlo Dio. E collegare a ciò la similitudine di Dio come padre.

Dio è il senso della totalità dei fatti (“mondo”). Un senso che Wittgenstein non nega come possibilità, pur negando che possa stare dentro al mondo degli accidenti. Ma non vi è un altro mondo; allora dove trovare Dio?

“Come tutte le cose stanno, è Dio” (Q 1.8.16)

Wittgenstein porta ora avanti la sua questione con un linguaggio teologico, un linguaggio che adotterà in diverse occasioni nel corso della sua produzione filosofica. Anche nella “Conferenza sull’Etica” (LC) il bene assoluto viene descritto con metafore quasi religiose: la meraviglia per la creazione; il sentirsi al sicuro della protezione divina; il sentirsi in colpa come per un peccato originale.

Qui egli assimila il rapporto tra il senso (della totalità dei fatti) e l’Io (che arriva a conoscere e a vivere lo stupore o il non senso per questo tutto-unico) al rapporto tra Padre e Figlio.
Anche il mistico tedesco Jakob Bohme e il poeta italiano Dante Alighieri indicarono la Trinità come esperienza di automanifestazione della vita divina: Dio Padre si intuisce e dice di sé attraverso il Figlio (l’Io-coscienza) e l’energia che ne scaturisce è lo Spirito.

“Certo è corretto dire: la coscienza è la voce di Dio” (Q 8.7.16).

La possibilità che si apre è che la coscienza ritorni a sondare più a fondo la questione del senso, così come si torna ad un Padre, alla propria origine: il fatto che “il mondo è”  non è solo “il problematico”, ma anche “il Mistico” (T 6.44).

Pregare – indice

La preghiera è il pensiero sul senso del mondo.
Wittgenstein non è religioso nel senso tradizionale del termine, ma si trova a suo agio nel delineare il rapporto con Dio/senso come un pregare. Un intenso, profondo meditare sul senso di tutto che si svolge nel pieno della realtà della vita.

Da agnostico, Wittgenstein durante la guerra leggeva Dostojevskij, Tolstoj e il Vangelo. Passava ore intere in preghiera e prima delle battaglie si ripeteva una breve e semplice preghiera “Dio, sia con me! Spirito, sia con me!”[1].

La sua famiglia era di origini ebree anche se convertita al cristianesimo. Per gli ebrei la preghiera a Dio è anche un lottare con lui (Giacobbe) un opporgli le proprie ragioni fino allo stremo (Giobbe). In Wittgenstein restano questi elementi, riscaldati da una profonda vena di abbandono e di compassione.

La preghiera, pur essendo un fatto del mondo, può nel contempo essere un atto realmente etico, se non è preda della volontà di un ego che vuole collocarsi in una posizione di domandare logico o morale, di richiesta.

“Preghiera” ha la stessa radice di “precario”, ciò che dipende dalla volontà altrui. E che in senso traslato significa incerto, malsicuro, in una condizione sospesa. Pregare è il sentirsi in una condizione di completa finitezza. Mostra prima di tutto a noi stessi il modo in cui ci rapportiamo con Dio (con il “senso”): interrogandolo, avendone paura, chiedendo e appoggiandoci, celebrandolo.
Vi sono modi di pregare che anche nel massimo bisogno non si appoggiano a un Dio ma anzi lo sostengono. Etty Hillesum dall’inferno del lager nazista in cui morirà si rivolgeva nel suo Diario a Dio non per chiedergli di salvarle la vita ma per aiutarlo, aiutare Dio a difendere fino all’ultimo la sua casa in noi. Un monaco tibetano prigioniero per anni dei cinesi, ha detto che pregava per non dimenticare neppure per un giorno di provare compassione per i suoi carcerieri.

Nel pregare Wittgenstein si rivolge a quel senso che manca. Resta sospeso, precario.
Alle sue vette più alte il pregare è una domanda di senso capace anche di chiedersi quale è il suo stesso senso. Capace di svuotarsi e in quello stesso svuotarsi di trovare una energia che rilancia la domanda come rinnovata preghiera: “che senso ha tutto questo pregare?!”.

L’autentica preghiera non chiede nulla se non la verità, il significato di questo nostro sentire la questione del senso.

Impotenza – indice

Non posso volgere gli avvenimenti del mondo secondo la mia volontà; piuttosto sono completamente impotente.

Nel suo pregare Wittgenstein raggiunge una svolta decisiva, un’esperienza di svuotamento della volontà.
Si riflette anche in altre annotazioni, successive a questo appunto dell’ 11 giugno 1916 su cui stiamo riflettendo:

“Il mondo è indipendente dalla mia volontà. Anche se tutto ciò che desideriamo avvenisse, questo sarebbe solo, per così dire, una grazia dal fato, poiché non v’è, tra volontà e mondo, una connessione logica che garantisca ciò, e comunque questa stessa connessione fisica non potremmo volerla a sua volta” (Q 5.7.16).

“Come posso predire […] che tra 5 minuti alzerò il mio braccio? Che io vorrò questo?
È chiaro: è impossibile volere senza già eseguire la volizione. La volizione non è la causa dell’azione, ma l’azione stessa”
(Q 4.11.16).

Sono impotente perché ogni mia volontà non è libera bensì condizionato da un volere che la precede. Ancora una volta (come visto nella prima parte, paragrafi “È” e “Io è mondo”) traluce il significato di nulla: Wittgenstein coglie la volontà come un fatto contingente al pari di tutti i fatti del mondo, infondata nel suo esser-così.
Anche la volontà è un fatto del mondo, è parte dell’unico tutto che non dispone di sé; e dall’altra parte, il nulla (per usare qui le stesse parole di Wittgenstein, come riportate nel paragrafo “Io è mondo”; ma è evidente che una “altra parte”… non c’è; si dà il niente di ogni Io liberamente volente e agente). Il nulla di fondamento si estende alla volontà agente, la trasforma in volontà agita ed impotente.

Perché questa realizzazione, invece di costringere in una prigione di inutilità e nonsenso, ha un inatteso effetto “etico”? Perché è radicale, riguarda l’origine di tutti gli atti possibili, riguarda la volontà.

“La volontà è la presa di posizione del soggetto verso il mondo” (Q 4.11.16)

Come ha scritto la filosofa spagnola Maria Zambrano, la volontà è un proporre se stessi come un qualcosa e un qualcuno, è un atto che ci priva della nostra innocenza originaria[2].

Se la volontà realizza che non può nulla, lascia il soggetto senza posizione. Resta solo un Io spogliato di tutto.

“Se la volontà non fosse, non vi sarebbe nemmeno quel centro del mondo che chiamiamo l’Io e che è il portatore dell’etica” (Q 5.8.16)

L’Io non è più libero agente e quindi non può più immedesimarsi completamente in un atteggiamento, non può abitare il suo progetto, la sua idea di bene/male.
Il soggetto resta se stesso e nel contempo non si affida più al volere e progettare, né al rappresentare logico, neppure al giudicare “il problematico” come male o bene.
Non dà più credito al suo volere. Inizia a liberarsi.

 

Indipendenza e vita felice – indice

Solo così posso rendermi indipendente dal mondo – e in un certo senso quindi dominarlo – rinunciando a un influsso sugli avvenimenti.

L’impotenza cambia il rapporto con “l’unico tutto” e pone sotto nuova luce il problema del senso. Il rapporto con i fatti del mondo diviene di “indipendenza”, di “dominio”, di “rinuncia”. Termini contraddittori, illogici, per esprimere l’inesprimibile:

“Rendermi indipendente dal mondo”: se sono attaccato ai fatti del mondo tramite la mia volontà, dipendo dai fatti del mondo. E sono destinato a vivere nel non-senso perché il mondo è accidentale. Se nell’impotenza resto senza posizione, posso solo abbandonarmi:

“Allora io sono, per così dire, in armonia con quella volontà estranea dalla quale sembro dipendente. Ciò vuol dire ‘io faccio la volontà di Dio'” (Q 8.7.16).
“Come tutte le cose stanno, è Dio” (Q 1.8.16).

“Dominare il mondo” non mi pare si possa intendere in senso transitivo, di un soggetto che ora domina su un mondo mentre prima il mondo dominava su di lui. Ciò che “in un certo senso” domina è la totalità dei fatti, colta da chi anche solo per un istante non si colloca nella propria volontà.

“Rinunciare a un influsso sugli avvenimenti”: non è fatalismo, che sarebbe un’altra presa di posizione uguale ed opposta alla volontà. Questo “rinunciare” è solo la consapevolezza che nasce dal realizzare che tutto – il volere e il rinunciare – è già un accidente del fato e che possiamo solo lasciar essere le cose. Questa è per Wittgenstein la vita felice:

“La vita di conoscenza, la vita che è felice nonostante la miseria del mondo. Felice è la vita che può rinunziare ai piaceri del mondo. Per essa tutti i piaceri del mondo non sono che grazie del fato” (Q 13.8.16).

Importante: non dice “devi rinunciare ai piaceri” come farebbe una legge morale, ma che è felice chi può rinunciarvi. Ed è un potere che non è nelle nostre mani, è nelle mani di Dio, da cui siamo dipendenti. Non possiamo nulla e non possiamo pretendere nulla.

“Ciò da cui siamo dipendenti possiamo chiamarlo Dio. In questo senso Dio sarebbe semplicemente il fato o, che è lo stesso, il mondo – indipendente dalla nostra volontà” (Q 8.7.16).

 

Seconda conclusione – indice

La domanda è sempre quella sul problema del senso: “Che valore può esserci se tutto accade come accade, in modo accidentale, e non vi è alcun senso?”.
Wittgenstein la imposta in modo nuovo, in termini di un nuovo rapporto, come abbiamo visto, un rapporto etico basato sulla completa impotenza e l’abbandono. Non un rapporto buono o cattivo in base a idee morali, non un rapporto che implica conseguenze come il premio o la pena. Sono tutti elementi che probabilmente, nella carneficina della trincea suonano assurdi perché si mostrano come fatti accidentali del mondo, senza valori alle spalle, per cui

“Il primo pensiero, nell’atto in cui è posta una legge etica nella forma “Tu devi…” è: “E se non lo faccio?” (T 6.422).

Nei mesi successivi Wittgenstein cerca di descrivere questo cambio di rapporto in diversi modi. Ad esempio lo descrive come un momento fuori dal tempo:

“Se per eternità si intende non infinita durata nel tempo, ma intemporalità, vive in eterno colui che vive nel presente” (Q 8.7.16)

Oppure un momento di visione come “dal di fuori”, anche se non vi è alcun “fuori” esterno alla totalità dei fatti del mondo:

“Il consueto modo di vedere vede gli oggetti quasi dal di dentro; il vederli sub specie aeternitatis, dal di fuori. Così che per sfondo hanno il mondo intero” (Q 7.10.16)
“La visione del mondo sub specie aeterni è la visione del mondo come totalità – delimitata” ( T 6.45).

L’etica è legata al rapporto con il cogliere l’unico tutto, da un “di fuori” che non c’è: cogliere il fatto che il mondo è, delimitato. In questo termine continua a tralucere il significato di niente (come visto nei paragrafi “È” , “Io è mondo”, “Impotenza”): sentire il mondo come un tutto delimitato dal niente. Niente è un significato per Wittgenstein inesprimibile “Di ciò di cui non si può parlare, è opportuno tacere”[3].

Abbiamo concluso la prima parte di questa “preghiera” di Wittgenstein con la considerazione che il bene e il male (la sofferenza, la paura, il mal di vivere, così come la eccitazione e il piacere) nascono da un rapporto illusorio tra la domanda sul senso del mondo e l’Io che la colora di giudizi. Ora concludiamo questa seconda parte con la possibilità di un rapporto etico, autentico nel senso di fedele ai fatti, che possa sciogliere il problema. Etica è un momento di abbandono del cuore. Wittgenstein descrive in pochi limpidi punti il suo percorso di uscita dal mondo del bene e del male:

1) domanda di senso riportata in termini teologici: il senso possiamo chiamarlo Dio.
2) rapporto filiale: Dio come padre
3) preghiera di indagine: è il pensiero sul senso del mondo
4) impotenza della volontà: sono completamente impotente
5) rinuncia e abbandono: mi rendo indipendente dal mondo
6) vita felice.

L’esito di questo percorso ritorna in altre pagine di Wittgenstein. Le ripercorreremo nella terza e ultima parte, e concluderemo con una riflessione sull’etica come significato.

A cura di
Roberto Ferrari

NOTA: abbreviazioni per i testi di Ludwig Wittgenstein nelle traduzioni di cui dispongo.
(Q ): Quaderni 1914-1916, in Tractatus logico Philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di Amedeo G. Conte Einaudi, Torino 1995.
(T ): Tractatus logico Philosophicus, in Tractatus logico Philosophicus e Quaderni 1914-1916, trad. italiana A.G. Conte Einaudi, Torino 1995.
(DS): Diari segreti (1914-1916), trad. italiana F. Funtò, Laterza, Roma-Bari 1987.
(PD): Pensieri Diversi (1914-1951), trad. italiana M.Ranchetti, Adelphi, Milano 1980.
(LC) Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, tr. it. M. Ranchetti, Milano, Adelphi, 1967.

 

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Sullo stesso argomento:

Note
[1] N. Malcolm, Wittgenstein: A religious point of view? London, 1993,  p. 9
[2] Maria Zambrano, Chiari del bosco, Ed. Bruno Mondadori, 2004.
[3] Da una comunicazione personale di Franco Bertossa, che sempre ringrazio.