Principessa Laurentina
di Bianca Pitzorno
1990, Mondadori

Il terzo appuntamento con i consigli di lettura in onore di Gianni Rodari è dedicato ad un libro per ragazzi dagli undici anni in poi, nato dalla penna di Bianca Pitzorno, che in Italia è oggi considerata la più importante autrice per l’infanzia; le sue numerose opere sono destinate ad un pubblico che copre una fascia di età molto ampia – dai primi anni della scuola elementare all’adolescenza –, e da decenni accompagnano con grazia e spessore bambine e bambini che si trovano ad affrontare momenti cruciali della loro crescita.

Come in molti degli altri scritti della Pitzorno, anche in Principessa Laurentina si intrecciano varie componenti, sia dal punto di vista narrativo che da quello delle tematiche trattate: Barbara, la protagonista, è alle prese con tutti i problemi della sua età (la vicenda comprende il periodo che va dai suoi tredici ai suoi quindici anni), ai quali si aggiunge il dolore del tutto inaspettato di dover lasciare il piccolo centro natio di Alaria e la famiglia paterna per seguire a Milano la madre, incinta della sorellastra di Barbara, e il suo nuovo compagno; alle tempeste interiori tipiche dell’adolescenza si mescola così, aumentandone l’intensità, il peso di cambiamenti radicali che la ragazzina vive come piccoli lutti… Sarà la morte, quella vera, terribile e improvvisa, a restituirle il mondo conosciuto da cui aveva dovuto allontanarsi – ormai spoglio, però, del calore e della spensieratezza che lo contraddistinguevano –, e a sbiadire tutto ciò che ‘prima’ pareva a Barbara fin troppo pregno di importanza.

La peculiarità di questo libro – oltre alla scrittura davvero magistrale dell’autrice, in grado di evocare con semplicità le voci composite dell’adolescenza – sta nella presenza costante della morte, intesa da un lato come privazione definitiva dello spensierato mondo dell’infanzia, dall’altro come la scomparsa di una persona cara, dipartita traumatica, che ha il potere di scrostare la realtà del suo spesso strato di scontatezza (“I primi giorni passarono come un sogno. Le sembrava di stare vivendo il un film, era tutta una finzione, non era successo veramente. Non poteva essere successo a lei.”). Barbara soffre per l’arbitrio, di cui è imputabile la madre, di doversi separare dal padre, dalle amiche e dai luoghi della propria infanzia, di dover cambiare scuola (nel delicato passaggio dalle medie alle superiori), di sopportare la presenza di una sorella che sente totalmente estranea; ma al contempo la ragazza subisce la propria stessa reazione a tale arbitrio: diventa malmostosa, smette di studiare, si lascia avvelenare da una ribellione corrosa dal senso d’impotenza nei confronti non solo delle decisioni materne, ma anche dei cambiamenti repentini del proprio corpo e delle sempre più complesse relazioni con amici e familiari. Paradossalmente, come Barbara stessa è costretta a notare, il tremendo lutto che la colpisce le svela improvvisamente il lato capriccioso e infantile della sua rabbia, pur cancellando per sempre la possibilità di sublimare nel dialogo un conflitto irrisolto e doloroso.

La protagonista si dibatte fra l’arbitrio impostole da un ‘qualcuno’ e quello per cui nessuno è perseguibile: qui sta il sottile confine fra il dramma del bambino, per il quale è sempre possibile individuare un colpevole, e la tragedia dell’uomo, cantata dai poeti che Barbara studia e ama, e che è tale proprio perché priva di un artefice. Al cospetto della massima privazione, orfani pure di un responsabile da accusare, la mancanza ci parla con la voce della presenza (“Qualche volta le pareva di essere come uno di quei mutilati di cui aveva sentito parlare, che non avevano più un braccio, o un piede, e tuttavia sentivano dolore o prurito alle dita, al polso, al calcagno.”); in simili occasioni anche l’amicizia più forte si svuota (in proposito è indicativo l’incontro, dopo il lutto, fra la ragazza e le amiche del cuore), e la religione, seppure parli, sembra muta (“Don Pierino le è simpatico… […] Ma adesso questa storia le sembra soltanto una bella favola, e fra l’altro, anche se ne fosse certa, non l’aiuterebbe affatto a rassegnarsi. Come può aiutarla l’idea che fra chissà quanti anni, settanta, ottanta, diventata ormai vecchia, rivedrà lo spirito, l’anima che un’eternità prima era stata sua madre?”).

In Principessa Laurentina non c’è una vera e propria elaborazione del lutto – o se c’è non viene esplicitata. C’è invece, ed è evidente, il rischio per la protagonista di lasciare essiccare la propria affettività fino al punto di non provare più alcuna compassione nemmeno per Laurentina, la sorellina di pochi mesi finita tra le grinfie di due prozie avide e crudeli; dopo un iniziale disinteresse per la bimba, Barbara scopre quasi suo malgrado una ‘guarigione’ non tanto dal dolore per la visita che le ha fatto la morte, quanto da uno dei suoi esiti più infausti: quello di una chiusura interiore senza ritorno, silenziosa e disperata, irrevocabile. Il dolore, sembra dirci la Pitzorno, continua a bruciare, tanto da farci sognare ogni notte un esito diverso, una fantasia verosimile, una bugia pietosa; il vero pericolo che corre Barbara non sta nel continuare a soffrire, bensì, travolta dallo sgomento, nel disimparare la pietas, la grazia di un affetto disinteressato, l’empatia. Conservare l’apertura del cuore è forse la lezione più difficile che la morte le possa impartire.

Leggi le altre recensioni della stessa serie: