Prendendo spunto da una lezione che il professor Remo Bodei ha tenuto alle Vacances de l’Esprit sulla metafora del viaggio, è interessante ripercorrere, dall’antichità ai nostri giorni, la relazione tra il viaggio dell’uomo nella storia e il rapporto che ha con la natura, con cui continuamente deve confrontarsi. Dalla paura degli antichi per il mondo sconosciuto alle prime importanti conquiste della scienza e della tecnica, l’uomo è passato dal senso dell’orrido al piacere/timore del sublime.

Già dall’antichità la vita era vista come viaggio. Questa metafora, la navigatio vitae, è intesa come un’avventura pericolosa, sia per le tempeste che per la bonaccia, ossia sia a causa di una vita perigliosa che di una insignificante. Ma la navigazione può essere vista anche come metamorfosi, come metafora del cambiamento nella vita di una uomo.
Viaggio deriva dal provenzale viatges, che a sua volta viene dal latino viaticus, che indica ciò che si porta quando si intraprende un cammino.
In inglese si usa la parola travel, che viene dal francese travail che, a sua volta, discende dal dal latino trabalium che significa (analogamente al nostro termine travaglio) affaticamento, pena, stanchezza del corpo: quindi in questo caso si insiste sul lato negativo del viaggio.

Ma vediamo meglio come intendere queste accezioni. L’uomo è un animale terrestre, che ha gambe per camminare e polmoni per respirare l’aria, quindi non può né volare né affrontare l’acqua dei laghi, dei fiumi profondi e, soprattutto, di mari e oceani. Ma l’uomo, già dall’antichità, ha conquistato le acque attraverso la tecnica della navigazione. Anche l’aria è stata sempre una grande sfida per l’immaginazione umana, tanto da essere popolata dalle realtà soprannaturali come gli dei. Solo l’ingegno umano avrebbe potuto farci compiere il passo apparentemente impossibile, ma gli antichi greci hanno solo immaginato questa possibilità. La vera conquista dell’aria è avvenuta nel recente 1784 con i fratelli Montgolfier.

Ma cosa sono gli oceani, l’aria, o anche le alte montagne per gli antichi. Questi, infatti, distinguevano i luoghi naturali in due categorie. La prima è costituita dai loci amoeni, luoghi ameni in cui ristorarsi e riposare, così come ci riporta la tradizione: giardini, fontane che mormorano, terreni fertili, vigne, oliveti, campi, porti, anche i luoghi degli amanti, in cui c’è pace e rilassatezza.

All’opposto ci sono i loci horribili dove non ci sono sole e cielo azzurro. Pensiamo a luoghi come la Germania di un tempo, coperta di selve che si estendevano senza soluzione di continuità fino all’attuale Polonia, il cielo pumbleo, la nebbia, gli abitanti barbari. Ma anche gli oceani, i vulcani, i deserti sconfinati appartengono a questa categoria.
Per millenni questi luoghi hanno suscitato paura e umiliazione, perché si poteva andare incontro a pericoli o perché ci si sentiva umiliati dall’altezza delle montagne. Oggi l’alta montagna è apprezzata da turisti e amanti della natura, ma nel passato incuteva terrore perché non c’erano le stagioni, i ghiacciai e la neve erano eterni, l’inverno continuo, le tempeste spaventavano e minacciavano. L’uomo, quindi, non si avventurava senza necessità in alta montagna.

E non si avventurava neppure negli oceani: fino alla metà del ‘400, da quando si iniziò a navigare contro vento, la navigazione avveniva solo nel mediterraneo – o quasi -, non ci si inoltrava nell’Atlantico, in cui c’erano tempeste spaventose e di cui si ignorava la fine.
Se pensiamo alla mitologia greca, lo Stretto di Gibilterra era la sede delle Colonne d’Ercole. Dire che non si potevano attraversare è un po’ troppo, anche perché è noto che i Fenici raggiunsero gli attuali Portogallo, Irlanda e Inghilterra per il commercio dello stagno. Si andava anche a Sud, ma non oltre il Senegal. Sono forse proprio i Fenici ad aver messo in piedi le leggende sui pericoli oltre le Colonne d’Ercole, forse proprio per non vedere minacciato il loro commercio dello stagno. E così nacquero animali insidiosi come le remore, pesci atlantici che, anche se piccoli, si attaccavano sul fondo delle imbarcazioni rallentandole pericolosamente. Oppure, sembrava esistessero punti pericolosi con alghe fittissime che impedivano la navigazione: quello che effettivamente i portoghesi osservarono nel ‘400 era una regione dell’Atlantico chiamata Mar dei Sargassi – dall’alga che vi prolifera -, ma che non impediva affatto la navigazione.

Per quanto riguarda in deserto, si pensava che il mondo fosse diviso in fasce climatiche, una fascia temperata in cui si poteva vivere, una fascia inabitabile di deserto a Sud e una fascia di ghiacci perenni a Nord, anch’essa inabitabile.
Il generale romano Marco Licinio Crasso nel 54 a.C. fece una spedizione contro i Parti nell’attuale Iran. Si dice che fu ingannato da un traditore arabo che portò l’esercito nel deserto, invece di fargli ripercorrere il fiume dove avrebbe potuto trovare rifornimenti e acqua. Quando i romani si resero conto del disastro incombente era ormai troppo tardi. Quella sconfitta rimase memorabile nella storia di Roma e contribuì ad avvalorare la tesi dell’invalicabilità del deserto. Ma con lo sviluppo della navigazione, i portoghesi scoprono che a sud del Sahara c’erano la foce del fiume Senegal, terre fertili e foreste.

Tra ‘600 e ‘700 questi luoghi orribili diventano sublimi. C’è la scoperta di un sentimento nuovo, tra terrore e piacere. Secondo alcuni sublime originariamente significava “sopra l’architrave”, in alto. Secondo altri sotto il limo, sotto terra. In ogni caso, gli antichi mettevano in relazione questo sentimento con la letteratura. Omero o Sofocle sono sublimi perché la loro lettura ci solleva al di sopra della banalità o della condizione politica dei tempi e ci fa crescere spiritualmente.

Ma qual è la ragione per cui ad un certo punto gli uomini si misero a sfidare la natura? Con la scoperta di Copernico e soprattutto di Giordano Bruno che la Terra non è al centro dell’Universo, ma che esistono infiniti mondi, come affermò Bruno, ci fu uno shock dei contemporanei, particolarmente di Pascal. Il pensatore francese testimoniò bene lo spirito del tempo, dicendo che l’uomo è in un carcere buio, è un Re spodestato. L’umanità è nella sentina dell’Universo.

Venne smontata la tesi che l’uomo è al centro dell’Universo riprendendo anche una citazione di un medico dell’antichità, Galeno: si diceva che l’uomo tra gli esseri è il preferito dalla natura perché può alzare la testa e guardare in cielo. Se dobbiamo usare questo criterio, affermava ironicamente Galeno, esiste un pesce, l’Uranoscopus scaber, che guarda sempre verso l’alto e che, quindi, dovrebbe essere a noi superiore. Ma non solo l’uomo, la Terra stessa non si pensava più essere al centro di sfere concentriche che giravano come un grande orologio e contenevano gli astri incastonati in esse. Ora la Terra era un oggetto perduto nello spazio. Quello che prima era il criterio della bellezza, fu scardinato. E qual era questo criterio?

Il mondo greco, all’origine di molto del suo pensiero filosofico, vedeva la religione e i miti. In un’epoca remota, raccontavano questi miti, gli dei che governavano il mondo erano sotterranei, deità della vegetazione e degli inferi. Ma verranno spodestati dagli dei della luce; con “un colpo di stato divino” Giove subentrò a suo padre e stabilì la sua sede nell’Olimpo. Ebbene, le divinità olimpiche sono le divinità della misura. C’era nei greci l’idea che sia male, sia un eccesso di hybris oltrepassare la misura. Addirittura, è un “peccato” contro gli dei.
Il mondo greco era fatto di misura. La bellezza, che coincideva con la verità e la bontà, per i greci era fatta da armonia, proporzione, simmetria e calcolabilità. Per noi non è così. Noi coniughiamo precisione e pathos, il fatto di infrangere le regole, rompere lo schema precedente per noi può coincidere col bello. Nell’architettura e nell’arte greca questo non poteva accadere, c’erano regole precise per la realizzazione di opere di arte e architettura.

Ma da dove nasce l’armonia? Sembrerebbe dalle costruzioni navali. Infatti, le diverse parti in legno venivano incastrate senza l’uso chiodi. Questo, oltre a richiedere una grande abilità, fece nascere l’idea che dalla pluralità si ottiene l’unità attraverso l’armonia.

La bellezza, nei greci, era insidiata dall’incommensurabilità e la matematica e la geometria erano strumenti per la ricerca dell’armonia. L’apotema del pentagono, la diagonale di un quadrato o l’ipotenusa di un triangolo rettangolo si scoprirono incommensurabili coi lati. La scuola di Pitagora si scontrò con questo problema del quale era proibito rivelare l’esistenza ai non iniziati, pena la morte. Poi il problema fu risolto scoprendo che il quadrato dell’ipotenusa è la somma dei quadrati dei lati di un triangolo rettangolo. Pitagora, inoltre, fece un’altra grande scoperta: il rapporto tra le note musicali piacevoli all’orecchio umano, quindi consonanti, si può ricavare dal rapporto tra numeri razionali piccoli con un’opportuna procedura.
Queste vittorie ebbero enormi ripercussioni nella cultura occidentale, ponendo le basi addirittura al razionalismo in filosofia. Le conseguenze furono enormi. Questo significava che ciò che è mentale è trasformabile in ciò che è sensibile, per esempio udibile. Con una costruzione mentale possiamo creare le note musicali che oggi conosciamo come Do, Mi, Re e così via. Il mondo che ci sta intorno è a noi comprensibile perché ha una forma e, viceversa, dalla mente possiamo ideare la realtà.

Tutto questo per dire che, a partire dall’intuizione dei pitagorici, la bellezza iniziò ad essere intesa come forma. Ancora oggi deforme è assenza di forma ma anche sinonimo di brutto. L’idea che deriva da Pitagora è che la bellezza ha a che fare con il misurabile. Nel mondo antico fino al rinascimento il bello non poté fare a meno di simmetria, proporzione e calcolabilità.

Ma con la rivoluzione astronomica e geografica, come abbiamo visto, ritornò l’incommensurabile, l’infinito. Pascal chiamò gli uomini naufraghi in questo grande mare dell’essere. Tra ‘600 e ‘700 nel sublime si iniziò ad intravedere un tentativo di recuperare una stima di sé in un mondo che sfidava l’uomo.

L’uso della parola sublime nella cultura e nella filosofia moderni si può datare nel 1711, quando il filosofo inglese Addison pubblicò The Spectator, reduce dal Grand Tour in Italia e colto da sorpresa e spaesamento per la natura, soprattutto per le maestose montagne dell’arco alpino. Tra gli inglesi, anche Shaftesbury fece un elogio della magnificenza della natura, criticando i “giardini leccati” delle ville settecentesche. Nacque un nuovo concetto di sublime: l’uomo giunge ai limiti estremi per sollevarsi da questa realtà. Quello che cambiava nell’intendimento di sublime era la differenziazione con il bello, che prima sembrava essere della stessa natura del sublime. Ora l’orrido e il bello si mescolavano in una nuova e affascinante esperienza.
Burke fu il primo filosofo a teorizzare che bello e sublime non solo erano diversi, come Addison, Shaftesbury ma anche Dennis riconobbero. Essi erano addirittura termini antitetici come luce e tenebre.
Kant, invece, teorizzò (per semplificare…) che il bello e il sublime non sono antitetici, ma il primo riguarda ciò che proviamo di fronte a oggetti con forma, mentre il secondo a oggetti senza forma, come le montagne, ad esempio (1).

Questo senso del sublime si attenuerà, tuttavia, con lo sviluppo di scienza e tecnica, di pari passo con la convinzione che l’uomo non deve sfidare la natura, in quanto la possiede e la controlla già attraverso le macchine.

Quindi, subito dopo Kant il vero sublime non è la natura, ma la storia. Il poeta Heinrich Heine, che una volta venne invitato a cena da Hegel, racconta che fuori dal balcone guardò in alto e apprezzò il cielo stellato (un probabile riferimento a Kant). Hegel rispose che per lui non era altro che un’eruzione cutanea luminosa. Il vero cielo stellato è nel pensiero. C’è più sublimità nel pensiero di un delinquente, disse poi Marx, che nel mondo fisico.
Il sublime diventa sublime politico, con il duce, il capo, il condottiere a cui tutti devono tendere e innalzarsi. Occorre essere gregari e avere quindi il timore nei confronti del capo, ma occorre anche essere fieri di partecipare alla ricostituzione dell’impero romano, della razza ariana, del governo del proletariato.

Ma per tornare a quella che sembra la vetta della riflessione a riguardo, concludiamo con un grande poeta italiano che ha affrontato in senso moderno l’idea di bellezza e il confronto dell’uomo con la Natura. Il tema del sublime legato all’infinito è un tema che Giacomo Leopardi affronta sin dall’inizio del suo lavoro. Si possono individuare nelle sue opere entrambe le accezioni di sublime che Kant ha definito matematico e dinamico.
Nella celebre poesia L’infinito, si percepisce l’infinito (il sublime matematico) stando fermi, in contemplazione. Con lo sguardo si vedono gli ostacoli, si sentono le fronde. C’è un paragone tra quello che si vede ora e quello che ci si immagina oltre la siepe, nella valle. Il sublime nasce dallo spaesamento confrontando ciò che è finito e ciò che è incommensurabile. E’ il pensiero che naufraga. Il sublime è il controllo della paura che si trasforma in poesia, in contemplazione.
Nell’altra celebre poesia La ginestra, invece, si può intravedere quello che Kant chiama sublime dinamico. La natura non può avere un dominio su di noi in quanto in noi abita il giudizio estetico. Di fronte al nostro destino può esserci un senso di spavento, ma senza che la paura ci conquisti.
L’uomo è di fronte alle forze della natura come la pianta minacciata dal vulcano. Non deve chinare il capo ma, come il fiore della ginestra che viene bruciato dalla lava e rinasce ogni volta, deve risollevarsi.

di Paolo Ferrante