Ne abbiamo avuto l’esperienza ma ci è sfuggito il significato
E avvicinarci al significato ci restituisce l’esperienza
In una forma differente, al di là di ogni significato.
(T.E. Eliott, da Quattro Quartetti)

 

Phi.mind 23.  Le sensazioni che accompagnano la domanda sul senso: Martin Heidegger e le tonalità emotive fondamentali

Nelle precedenti puntate di Phi.mind abbiamo tracciato la distinzione tra qualia e coscienza, prima teoricamente, poi  riportando su di sé la domanda ‘cosa si prova a essere un pipistrello?’, trasformandola così in ‘cosa si prova ad essere una coscienza che prova qualcosa ad essere una coscienza che…?’. Questo ha aperto il tema del “sentire originario” indagando il quale, diversi studiosi della mente hanno messo in luce un sentir-si e saper-si pre-riflessivo e im-mediato, un ‘io’ indubitabile ricco di intensità corporee (l’andar-ne, il rischio, la vulnerabilità, il coinvolgimento, la certezza), ma in cui è difficile ritrovare una natura e sostanzialità del soggetto.

Qualsiasi cosa accada, accade per una coscienza la cui unica sostanza sembra essere questo ne-va: se manca questo ne-va, manca identità e manca mondo.

E mancano anche i qualia, perché è proprio l’andar-ne-di-me che rende li rende saputi e sentiti. Senza ne-va i qualia sarebbero un semplice rilevamento percettivo, invece quando li assaporiamo sappiamo che sono in fondo una traccia del sapere di sé.

Ora semplifichiamo del tutto la domanda ‘cosa si prova ad essere una coscienza che sente di essere una coscienza che…’ e ci chiediamo: ‘cosa si prova a… essere?’. Non essere questo qualia o quello, non essere una coscienza che sa e sente di sè, ma: cosa si prova ad essere e basta?

Possiamo tornare ai momenti in cui più ci siamo ‘sentiti vivi’, in positivo o negativo. Siamo stati attraversati da forti sensazioni come la gioia, la meraviglia, lo stupore; oppure l’angoscia,  la costrizione, o lo spavento. O forse abbiamo vissuto l’esperienza di ‘essere e basta’ attraverso momenti più dilatati come la noia, il silenzio, l’indeterminatezza. In tutte, come abbiamo visto, il ‘-mi’ evidenziava la nostra presenza attonita.

Martin Heidegger ha indicato questi sapori come le “tonalità emotive fondamentali” 1. Per esse il filosofo tedesco rivendica un ruolo decisivo nel processo di conoscenza, che culmina nel sapere della propria esistenza e nel domandarsi sul suo senso.  I qualia della domanda di senso sono stupore, angoscia, noia, sono tonalità emotive totalizzanti che riguardano e compattano tutto ciò che esiste. Esse sono ciò che si prova ad essere.

Ma spesso, come ci mette in guardia lo stesso Heidegger, le “disposizioni emozionali” occultano i significati. Questo accade perchè non siamo in grado di farci coinvolgere totalmente da ciò che sentiamo. Rifuggiamo il sentire im-mediato e ci limitiamo a emozioni sentite, rappresentate e così allontanate, a quella che Peirce chiamava “secondarietà”. Non possiamo ammettere, anche per motivi culturali profondi,  che quello che stiamo sentendo ha nel suo nucleo un significato unitario, irrelato, relativo al tutto.

Certe tonalità emotive possono essere caratterizzate, colorate, piene – la meraviglia, lo stupore, la gioia – e mettono quindi in evidenza l’affermazione, la pienezza dell’esistenza. Altre sembrano aprire ad altri strati di significato: implicano anche una negazione di sé, come ad esempio la Angst (che non andrebbe tradotta solo come ‘angoscia’: Heidegger la definiva una “chiara notte”, ben distinta dall’ansia e da altri stati di malessere). Sono i qualia più oscuri e ricchi, da non confondere con stati psichici che dipendono da relazioni. Sono la traccia di un profondo incontro con se stessi che apre a domande radicali sul senso della vita. Domande che tutti vivono ma raramente tematizzano e fanno diventare ricerca: ‘Perché esiste tutto? Come è possibile?’.

Accade quando attraverso tali sensazioni irrompe nelle nostre vite il significato di niente2, il significato ‘non c’è’: non c’è spiegazione, ragione, senso. Non c’è fondamento per il tutto. Non c’è base per il nostro conoscere e il nostro esistere.

Angst è una “luminosità dello sguardo” che mostra il niente. Lo mostra perché ci incalza, ci lascia senza appiglio e ci tiene sospesi in una completa impotenza, di fronte alla quale diviene incerta ogni qualità e ogni spiegazione. In questo particolare ‘vissuto’ il niente è manifesto. Se ci è capitato di vivere momenti come questo, possiamo allora chiederci se la più profonda natura del soggetto e della coscienza umana – come indicata da Franco Bertossa3 – non sia proprio questo saper di esser-mi, e dietro ad esso il sapere che non sono niente. Angst è ‘ciò che si prova ad essere… invece che niente’.

Purtroppo la confusione tra sensazioni percettive e sentire significativo rischia di ridurre tutte queste esperienze a episodi di ansia, attacchi di panico o depressioni. A malessere. Queste a loro volta vengono spesso lette come squilibri del sistema nervoso. Bisogna qui evidenziare come certamente vi sono persone in cui l’intensità del sentire prende canali relazionali, magari di tipo patologico: in questi casi vanno aiutate prima di tutto con terapie mediche e psicologiche. Tuttavia altre persone dovrebbero poter riconoscere il grande valore conoscitivo delle esperienze  totalizzanti di “sentire significativo”; proprio perché si tratta di sintomi sempre più diffusi, a nostro parere è fondamentale valorizzarne la potenzialità trasformative:  è possibile intraprendere una diversa relazione con il significato di niente. Purtroppo, a parte poche recenti ricerche su questo tema3,  prevale il pensiero unico che si tratti sempre di problemi psichici o nervosi privi di qualunque significato.

Per smentire queste semplificazioni basta partire da noi stessi: la prossima volta che viviamo il classico qualia del ‘vedere rosso’ proviamo ad andare a monte della sensazione e a chiederci:

‘So che vedo rosso. So che questo, anche se in modo leggero, mi coinvolge. So che io sono qui coinvolto (sento sospensione, una stretta, ed una possibilità di apertura)… so che io ci sono!? So che non sono niente!? Come faccio a sapere tutto ciò?’

Nel concludere questo percorso, che spero abbia portato chiarezza ma soprattutto qualche domanda in più, voglio esprimere un grande ringraziamento al Maestro Franco Bertossa, cui è da attribuirsi il nucleo filosofico della nostra esplorazione tra i filosofi non riduzionisti della coscienza. Il suo insegnamento, che ho potuto seguire in anni di lezioni e seminari di meditazione, non può essere reso nella sua vitalità e forza da uno scritto come questo. Da esso può forse solo trapelare la profonda esperienza interiore a cui fa riferimento, e che Franco Bertossa cerca di trasmettere a chi gli si avvicini con intenso spirito di indagine: il puro e semplice fatto di esistere e di essere coscienti. Una consapevolezza che lascia spaesato l’Occidente – a parte alcune vette filosofiche del Novecento -, mentre in Oriente è stato coltivato dal Buddhismo per secoli, fino a i suoi significati più profondi.

 

Riferimenti bibliografici

1Heidegger M. (1933), Cos’è Metafisica?, Adelphi, Milano

2 Ibidem

Bertossa F. (2011) La meditazione, alle origini del domandare/8 – Il mostrarsi del mondo. Dal soggetto alla Differenza ontologica e alla Vacuità.

Basile P. (2006), Figli del nulla. I giovani e il male di vivere, tra nichilismo e buddismo, Alboversorio, Milano.

 

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