Ne abbiamo avuto l’esperienza ma ci è sfuggito il significato
E avvicinarci al significato ci restituisce l’esperienza
In una forma differente, al di là di ogni significato.
(T.E. Eliott, da Quattro Quartetti)

 

Phi.mind 22.  Il “sentire originario” di James, Peirce e Sartre: orlo della coscienza, primarietà e irriflessività. E una proposta sul significato del sentire originario

Riprendiamo il nostro percorso che dal problema dei qualia si è spostato a quello del “sentire originario”, un sentire che è in relazione non tanto con la conoscenza fenomenica delle qualità, ma piuttosto con percezioni sconcertate, immediate e indeterminate del corpo. Questo sentire, che sta ricevendo grande attenzione da scienziati e filosofi della mente contemporanei, è stato evidenziato anche da profondi ricercatori del recente passato.

Il filosofo William James ha denominato “frangia” della coscienza l’alone sfumato di relazioni che ha in sé la potenzialità di dare una prima forma agli oggetti della nostra esperienza. È una forma ancora indistinta che conosciamo solo tramite il sentire, ma che già intuiamo ‘giusta’ e adeguata allo schema di relazioni che si va delineando.

La frangia o orlo della coscienza, per James, è la dimensione di un sentire pre-riflessivo, non pienamente consapevole ma capace di generare intuizioni, idee, scoperte, “una linea di forza interiore che silentemente  guida la ricerca, anche quella scientifica” 1. James lo intende come il cantiere di allestimento delle comprensioni più fulminanti e profonde, sia che riguardino noi stessi che il mondo che ci circonda.

L’intrinseca vaghezza del sentire in questa zona di confine della coscienza non deve farla sottovalutare, perché senza di essa le idee ripercorrerebbero meccanicamente se stesse e mancherebbero di quel senso di autenticità e ‘giustezza’ che le rende di colpo convincenti appena vengono strutturate e rappresentate.

A nostro parere, il  senso di ‘giustezza’ che nasce dal sentire originario può essere quella che Franco Bertossa indica come l’indubitabilità del fatto stesso dello star-sentendo, intriso del sapere iniziale e non transitivo cui è possibile tornare praticando l’autoreferenza vissuta. Tale indubitabile inizio è capace di donare convincimento (“è giusto che…”; “io credo che…”) a contenuti e modalità, siano essi costruzioni concettuali, emozionali o fisiche.

Un contemporaneo di James, Charles S. Peirce, che con lui si può considerare il fondatore del Pragmatismo americano, ha prodotto una sorta di fenomenologia indipendente da quella europea (da lui battezzata Faneroscopia – osservazione di ciò che si mostra) che individua tre modalità fondamentali dell’esperienza: la prima di queste ha molto a che fare con il sentire pre-riflessivo.

Peirce la chiama “Primarietà”, ed ha la caratteristica di unità, istantaneità e assenza di relazione con altro; non è il sentire di (qualcosa), né il sentire per (me). Il sentire primario aderisce a  se stesso in una perfetta coincidenza che, come afferma Michel Bitbol,  è “certezza o almeno convinzione” 2. Ne è un esempio il sobbalzo inconfutabile, che non sa nulla di sé e non si riconosce ancora come ‘paura’ o  ‘io’.

Solo nel momento successivo – la Secondarietà –  si pone il sentire a una certa distanza da sé (fuori di sé, o nel passato) e ci si mette in relazione, facendolo diventare ‘qualcosa’ che ‘io’ sento (es., sentire paura per me). Forse possiamo considerare questo momento simile a quello della costituzione dei qualia, del riconoscimento dello stato d’animo di paura insieme al riconoscimento dell’oggetto e del soggetto dello spavento. Vi è poi una terza fase – la Terziarietà –  in cui il fenomeno non è solo oggettivato e posto fuori di sé ma anche avvolto di nessi causali e spiegazioni ordinatrici, che cercano di placare il sentire primario in un sollievo razionale. È la fase in cui opera la scienza tradizionale e prima di lei i miti, le religioni e le filosofie platonizzanti. Nasce la dimensione transitiva del rapporto con l’altro da sé, e il sentire riceve spiegazioni psicologiche, sociologiche, relazionali3.

James e Peirce aggiungono quindi alle caratteristiche del sentire originario anche la creatività, il senso di indubitabilità (declinato nei modi della giustezza, della certezza, del convincimento) e la coincidenza con sé prima di ogni riflessione e relazione con altro. Jean Paul Sartre aggiunge a nostro parere un altro stimolo importante. Riflettendo sul soggetto come fondamento della sua filosofia, osservò all’inizio della sua opera L’essere e il nulla che il significato del pronome riflessivo ‘mi’ nella frase ‘io mi lavo’ non è lo stesso che nella frase ‘io mi annoio’.

Nel primo caso il ‘mi’ è un processo di ritorno all’ ‘io’ che si lava, al soggetto che è causa del lavare: un atto di riflessione.

Nel secondo caso il ‘mi’ non è un atto di ritorno all’ ‘io’ che si annoia, perché questo io è stabilito in modo immediato, inerente, senza bisogno della riflessione su di sé (“riflessività irriflessa”, la chiama Sartre)4. Nel suo tentativo di fondare la soggettività, Sartre vuole evidenziare che il carattere di ‘io’ non è un prodotto, ma è inerente e intrinseco all’esperienza.

A noi questa conoscenza immediata di sé presente nel ‘mi’ irriflesso stimola domande sul sentire originario nel suo rapporto con il soggetto:

–         anche se non è presente un soggetto nella dimensione della “frangia” o della “primarietà”, queste sono esperienze indubitabilmente sentite, che mi riguardano e mi colpiscono. Se non indica un soggetto personale, a cosa si riferisce quel ‘mi’ indubitabile?

–         anche se precedono la riflessione di un soggetto, il mio sentire ed agire sono sempre un sentir-mi e un muover-mi. Cosa significa questo ‘mi’ corporeo e vissuto?

Iniziamo con distinguere, come fece Sartre,  quello che  grammaticalmente viene definito come un ‘mi’ riflessivo, di ‘io mi lavo’, dal vero riflessivo . Infatti ‘io mi lavo’ è un processo transitivo che si ripiega su se stesso. Lo stesso processo che è alla radice del Paradosso del Barbiere di Bertrand Russell, paradosso che resta tale fino a quando si scambia per un vero riflessivo il ‘rader-si’ del barbiere che deve radere tutti quelli che non si radono da sé (e che paradossalmente dovrebbe e non dovrebbe rader-si); si tratta invece dell’atto transitivo di ‘prendere la lametta e tagliare peli’ che si ripiega sulla faccia di chi lo esegue5. Un altro esempio del processo di ripiegamento dell’atto sul soggetto rappresentato è nella frase ‘io mi correggo’: non sto correggendo il mio stesso atto di correggere, ma opero transitivamente su una precedente affermazione che era nata da me.

Invece il vero ‘mi’ compare nella sintassi quando si devono evidenziare sensazioni-azioni particolari, per metterne in evidenza un coinvolgimento non-mediato, non relativo a…, né riferito a un soggetto rappresentato. Sono eventi che sento ‘mi’ riguardano profondamente: stupir-mi, angosciar-mi, meravigliar-mi, spaventar-mi, sentir-mi  felice o estraneo, muover-mi, annoiar-mi (anche la noia in effetti ci prende in modo intenso e talvolta insostenibile).

Questo sentire evidenziato dal ‘mi’ indica un senso di ‘proprio io’ – non un soggetto, ma il suo sapore – che si attiva ben prima di avere una immagine di me e ben prima di riferirsi all’oggetto specifico, il quale può solo fare da catalizzatore e scatenarlo. Per questo il sentire dei momenti più sconcertanti e preziosi non è diretto a qualcosa di determinato, né è legato a uno specifico oggetto o soggetto, come nella “primarietà” di Peirce.  È sentire di sentire, e noi lo appelliamo ‘sentir-mi’ o a volte ‘sentirmi vivo’.

Lo stesso accade nell’atto primo e più semplice della coscienza: mi accorgo… di cosa? Istantaneamente, mi accorgo (attraverso il sentire) del fatto che mi accorgo – come diviene evidente nell’esperienza in prima persona quale si attinge nella meditazione di presenza mentale. La quale è una possibilità di passare in modo esaminato e ordinato – ma non artificioso o intellettuale – dal sentir-mi inteso come processo di riflessione e accesso ai miei stati interni fenomenici (qualia) o concettuali, al ‘sentir-mi’ inerente e pre-riflessivo, un istante assoluto di silenziosa coincidenza di sé con sé che dà accesso a… Cosa?

Di fatto non abbiamo ancora risposto alla domanda: a cosa si riferisce il ‘mi’ se non a un ‘io’ soggetto? A quali significati apre?

Se andiamo ad esaminare i sapori presenti nelle speciali sensazioni-azioni che abbiamo indicato (stupir-mi, angosciar-mi, meravigliar-mi, spaventar-mi, sentir-mi  felice o estraneo, annoiar-mi) è sempre in primo piano un sapore del rischio e di coinvolgimento, di vulnerabilità. Talvolta sfumato, altre volte intenso; talvolta affermativo, altre volte con il tono della negazione.  Quello stesso sapore che viene poi interpretato come ‘io’.

L’ipotesi che proponiamo è che il ‘mi’ pre-riflessivo indichi un intrinseco senso di andar-ne di me.

Ma se al sentir-mi originario corrisponde sempre un saper-mi  pre-riflessivo…

e se il significato del sentir-mi pre-riflessivo è un andar-ne di me… Cosa è il ‘ne’? Di cosa ne va? Cosa so di me?

La risposta che proponiamo – che come l’impostazione del problema è interamente debitrice all’insegnamento filosofico-esperienziale di Franco Bertossa – è: il ‘ne’ indica esistenza. Dell’esistenza di me ‘ne so’, e in ogni sentire sappiamo che ‘ne va’ della nostra esistenza. In ogni timore e in ogni gioia, prima di tutte le rappresentazioni e senza bisogno di dircelo, stiamo assaporando il mistero di esistere. Di esistere come indubitabili, certissimi e istantanei sentir-ne/saper-ne, sentire e sapere di esistere. Nell’istante di assoluta coincidenza della “primarietà” non esistiamo come ente, come qualcosa, come qualia o atto cognitivo, ma solo in una co-determinazione originaria di quel sapere-sentire con l’impossibile – ingiustificato – ma presentissimo fatto d’essere del sapere e sentire.

Chi ha meglio espresso e indagato tutto questo è stato certamente Martin Hedegger, con il quale si conclude il nostro percorso.

 

Riferimenti bibliografici

1 Petitmengin C. (2007), Towards the source of thoughts. The gestural and transmodal dimension of lived experience,Journal of Consciousness Studies” , vol. 14, n° 3, p. 54. Trad. italiana a cura di Fabio Negro: Verso la sorgente dei pensieri. La dimensione gestuale e transmodale dell’esperienza vissuta

2 Bitbol M. (1990), Le chercheur, le philosophe, et la psychasthénie, in “Alliage”, n°5, pp. 19-24. Trad italiana. di Linda Altomonte: Il ricercatore, il filosofo e la psicastenia

Bitbol M. (1990), cit. .

Vincent Descombes e Jacques Bouveresse – Cosa resta della filosofia di Sartre – “Micromega” n° 6 2005. Questa caratteristica di sentire non riflessivo la abbiamo già incontrata nel lavoro di Shaun Gallagher (Phi.mind 19) a proposito del “sé propriocettivo”.

5 Franco Bertossa, comunicazione personale.

 

Prossima lettura: Phi.mind 23/I Filosofi della Mente anti-riduzionisti – Martin Heidegger e le tonalità emotive fondamentali

 

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